A 28 anni dal martirio di mons. Romero
El Salvador, il vangelo secondo gli insorti. Mons Romero e i movimenti popolari rivoluzionari

di Normanna Albertini

Intervista a Claudia Fanti


La quarta di copertina del libro di Claudia Fanti, giornalista di Adista, recita: “Se, come scrisse Ignacio Ellacuria, "con mons. Romero Dio è passato per El Salvador", molte altre tracce ha lasciato questo passaggio. L’arcivescovo martire è stato il frutto più grande, ma non l’unico, di una terra fecondata con il sangue di tanti suoi figli. Figli poveri, indifesi ed oppressi, ma anche fieri ed eroici, pronti a combattere al prezzo della vita per un mondo altro, un Paese altro, un’esistenza altra. Questo libro racconta la storia di alcuni di loro, uomini e donne, tutti pronti a dare la vita pur di spezzare le catene dell’oppressione. E si delinea così anche la storia di un’altra Chiesa, meno conosciuta, non quella della gerarchia, ma quella del popolo di Dio, fatta di persone prima che di sacerdoti che hanno sposato, in nome di Dio, la causa degli oppressi, lottando e morendo al loro fianco. Una storia di eroismo e di martirio, di dolore e di speranza per un Salvador libero.
Claudia Fanti ha presentato il suo libro a Reggio Emilia presso presso la Libreria Infoshop Mag 6 Libri& Cd..., in via S. Vincenzi 13/a, il 15 marzo scorso. L’abbiamo intervistata.
Un libro denso, pieno di dati, quasi scritto al “maschile”, ma poi ricco anche di testimonianze toccanti, di resoconti e racconti raccolti sul posto che tradiscono una sensibilità femminile. Come mai è nato il bisogno di scriverlo?
Certe volte la vita ti spinge in determinate direzioni. Io ero giovane, proprio giovane, quando ho letto la biografia di Ettore Masina. Quello è stato proprio l’accesso a El Salvador. Sono arrivata là passando per quel libro, lì è nato il desiderio di andare in quel Paese unico, dove in ogni metro quadrato c’è il sangue di un martire, di un eroe. In seguito, lavoravo già ad Adista già da un po’, quando mi telefonò una signora di Pax Christi e mi propose di intervistare un prete molto famoso, una figura quasi leggendaria, che aveva subito un sacco di attentati da cui era sfuggito nei modi più rocamboleschi, uno che era stato anche tra i guerriglieri: Rutilio Sanchez. Andai a Firenze a intervistarlo e c’era anche Mariella Tapella che mi invitò ad andare nel Salvador.
Quindi il libro è il risultato di un viaggio?
Dal primo viaggio che ho fatto nel Salvador, è nata questa idea di un lavoro di recupero della memoria storica del movimento rivoluzionario contadino su cui non si era scritto molto. Mariella diceva che era una cosa che doveva fare e, siccome lei era oberata di lavoro, propose a me di farlo, offrendomi il suo aiuto. A me piacque moltissimo, perché lo sentii un mio contributo a quel paese che avevo tanto amato nelle pagine dei libri. Nei tre successivi viaggi, andai a parlare con le persone, con i dirigenti sopravvissuti, con i preti ch’erano stati a fianco del movimento. Così nacque questo lavoro che è molto più ampio. Diciamo che il libro rappresenta una terza parte di questo lavoro più generale, ridotto per esigenze editoriali. Ho fatto molta fatica a ridurlo, non volevo rinunciare a tutte le testimonianze, anche perché la gente mi aveva messo a disposizione del tempo, ricordi preziosi, e io volevo dare loro più spazio possibile.
Com’è strutturato il testo?
Ho cercato di privilegiare tre aspetti: la storia del movimento contadino rivoluzionario visto nella sua coralità, dal risveglio del “gigante addormentato”, come veniva chiamato, perché era proprio “addormentato” dopo l’esito tragico della rivoluzione del ’32, fino al livello massimo di presa di coscienza politica e rivoluzionaria. Intrecciato con questa storia c’è il racconto delle vite di alcuni personaggi che hanno segnato la storia di questo movimento: Rutilio Sanchez, Alberto Enriquez, Ana Maria Castillo… che poi sono quasi tutti morti: Alberto Enriquez, per esempio, è uno dei pochissimi dirigenti sopravvissuti, mi ha dedicato veramente tanto tempo. È stata un’esperienza molto forte, molto bella, perché ti leghi a queste persone, ti senti privilegiata quando ti aprono il loro cuore, ricordando cose estremamente dolorose: la morte della moglie, le torture subite. Hai veramente un momento di comunione con loro. Il terzo aspetto è quello del risveglio della chiesa della liberazione, che evolve passo passo con il popolo, che va educando e da cui si fa educare.
E monsignor Romero?
Al centro di questa vicenda, ecco quella particolare del rapporto di monsignor Romero con le organizzazioni popolari rivoluzionarie. Che non è un rapporto lineare. È fatto di alti e bassi, di diversi momenti, però va evolvendo (e questa, secondo me, è la grandezza di Romero). Lui non aveva nemmeno un’ideologia chiara, - intendo “ideologia” nell’accezione positiva, - però aveva quello che Jon Sobrino chiama “onestà con il reale”. Romero era onesto con la realtà e, soprattutto, evolveva nella misura in cui vedeva camminare il popolo in una certa direzione e lo ha accompagnato fino alle estreme conseguenze. Ci sono dei passi molto belli che dimostrano come il pensiero di Romero sia evoluto fino al massimo livello, fino a dire, per esempio, ai dirigenti delle organizzazioni rivoluzionarie con cui aveva frequenti incontri: “Ah, se scoppierà la rivoluzione non voglio star lontano dal mio popolo, voglio essere anch’io presente, certo non imbracciando un fucile, ma posso curare i feriti, posso raccogliere i cadaveri…” Questo fa veramente venire i brividi. Quando scrive a un prete che era andato nel Nicaragua sandinista, diceva: “ Bisognerà andare a vedere quello che succede in Nicaragua…” I sandinisti lo aspettavano a braccia aperte, però poi non ci fu tempo per realizzare il viaggio.
E l’episodio in cui partecipa al funerale di un prete guerrigliero?
Sì, Romero dice che i genitori sarebbero andati comunque dal figlio, e anche lui, come padre, doveva esserci, e parliamo di un Romero ancora molto sospettoso, molto diffidente. Per esempio, aveva visto dei militanti che gridavano parole d’ordine rivoluzionarie, e lui diceva: “Questi sono gli organizzati?” e un prete, Massimino Perez, restava lì, non sapeva cosa rispondere. Disse: “Sì, sono organizzati:” Lui aveva molta diffidenza, perché facevano paura, erano molto radicali, cominciavano a prendere in considerazione l’opzione della lotta armata, quindi Romero ha dovuto fare tutto un cammino per comprendere quella strada.
Una cosa che colpisce è la posizione delle donne, sia le guerrigliere, sia le donne impegnate nei movimenti cattolici, è vero che lottavano “nonostante” i mariti, i compagni?
Ho parlato con le donne del popolo, figure eroiche, e devo dire che non avevano forse neanche una coscienza spiccatamente femminista, erano compagne in mezzo a compagni ma non ne facevano una questione di genere. Condividevano la lotta di un popolo, diciamo che, invece, quelle che sono diventate dirigenti avevano un pensiero di rivendicazione dei diritti della donna. Ho parlato con una guerrigliera che si era dovuta “fermare” per la famiglia, i figli, e di figli ne avevano tanti… Per cui vedeva il marito che avanzava, aveva sempre incarichi più elevati, e lei che, invece, era piuttosto vincolata alla famiglia, ferma, sentiva che non poteva partecipare alla lotta come avrebbe voluto. Le pesava proprio, ne faceva un discorso di limiti, di incapcità dei compagni di capire le esigenze dalla donna. Sicuramente le donne sono state molto presenti a tutti i livelli, anche ai livelli massimi, sicuramente c’è stato un grande cammino di emancipazione. La guerra, il vivere in mezzo agli orrori, necessariamente livellava le condizioni degli uomini e delle donne.
Il dopo Romero, normalizzato dall’Opus Dei, a che cosa ha portato? Il Salvador sembra scomparso dalle cronache.
Più della metà del clero salvadoregno ha scritto al prefetto della congregazione dei vescovi, cardinal Giovanni Battista Re, tracciando un profilo dell’arcivescovo di cui, secondo loro, avrebbe bisogno la chiesa salvadoregna. Chiedono che sia salvadoregno di nascita, com’è sempre stato, tranne il caso di Mons. F.Saenz Lacalle, che appartenga al clero diocesano, che abbia una solida esperienza pastorale parrocchiale, che abbia una spiccata sensibilità verso i poveri e che porti avanti una spiritualità di comunione. Praticamente, è tutto quello che non è Mons. F.Saenz Lacalle. È questo il discorso. Mons. F.Saenz Lacalle ha presentato già a novembre scorso la rinuncia per raggiunti limiti di età, però il Vaticano, quando non ha interesse a sostituire uno, fa passare anche uno o due anni, quindi non si sa quando avverrà il passaggio.
Come si è comportato Mons. F.Saenz Lacalle?
Di certo, lui ha veramente smantellato tutto quello che era possibile smantellare. Nel giro di pochissimo ha sfrattato gli uffici della Caritas, ha chiuso la rete radiofonica che trasmetteva le omelie di Romero, ha licenziato e destituito delle figure chiave della chiesa della liberazione, ha preso posizioni davvero raccapriccianti. Non ha mai detto una parola a superamento della legge di amnistia, anzi: tutte le volte che se n’è parlato ha sempre cercato di liquidare la questione parlando di riconciliazione, senza distinguere chi i crimini li ha fatti e chi li ha subiti. Addirittura, sta negoziando con il governo, attaccato dalla commissione interamericana per i diritti umani per aver completamente disatteso le raccomandazioni che la stessa commissione gli aveva fatto nel duemila riguardo l’omicidio di Romero, tutta una serie di cose che il governo avrebbe dovuto fare. Il governo ha sempre mostrato il massimo disprezzo per queste raccomandazioni anzi: ha detto che non le avrebbe mai applicate, per cui la commissione adesso lo ha di nuovo accusato e, per evitare la condanna, ha cominciato una serie di colloqui con l’arcidiocesi in cerca di una soluzione che gli evitasse la figuraccia internazionale al minimo costo. C’è stata un’altra lettera di ottanta tra gruppi e comunità, una lettera all’arcivescovo, una lettera molto indignata per dire che la verità non si negozia, non ci può essere nessun negoziato che non parta dal rispetto totale delle raccomandazioni della commissione interamericana per i diritti umani. Poi c’è il discorso che Mons. F.Saenz Lacalle ha portato avanti riguardo alla canonizzazione di Romero.
Già, a che punto siamo?
F.Saenz Lacalle si è sempre dato molto da fare, ma il Romero di cui parla lui è un Romero che non esiste. Un santino, la riduzione del profeta martire a santino. Un vescovo devoto, asceta, spirituale, obbediente, e dice che per accelerare il processo di canonizzazione, che secondo me prenderà ancora parecchia polvere nelle stanze vaticane, dice sempre “Non prendete posizioni, evitate prese di posizione politica, strumentalizzazioni della sua figura”, della serie “fate di Romero un santino”, ancora “Chiedete tante grazie particolari, guarigioni miracolose…”. Una vera bestemmia.



Martedì, 25 marzo 2008