27 gennaio 2006 - Giornata della memoria
PRIMO LEVI, O DELLA DIGNITA’ UMANA

Spunti di riflessione proposti da "La nonviolenza e’ in cammino" del Centro di Ricerca per la pace di Viterbo



====================
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
====================
Supplemento settimanale del martedì de "La nonviolenza é
in cammino"
Numero 6 del 24 gennaio 2006

In questo numero:
1. Primo Levi, o della dignità umana
2. Shemà
3. Alzarsi
4. Si immagini ora un uomo
5. Che appunto perché...
6. Verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945
7. Hurbinek
8. Approdo
9. La bambina di Pompei
10. Non ci sono demoni...
11. Partigia
12. Il superstite
13. Contro il dolore
14. Canto dei morti invano
15. Agli amici
16. La vergogna del mondo
17. Il nocciolo di quanto abbiamo da dire
18. Bianca Guidetti Serra ricorda Primo Levi
19. Vittorio Emanuele Giuntella ricorda Primo Levi
20. Et coetera

1. PRIMO LEVI, O DELLA DIGNITA’ UMANA
Cosa resterà del Novecento? Resterà l’opera di Primo Levi, la testimonianza di Primo Levi, l’appello di Primo Levi.

2. SHEMA’
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma é anche l’epigrafe che apre Se questo é un uomo), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 525]

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo é un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa é una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo é stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I votri nati torcano il viso da voi.

10 gennaio 1946

3. ALZARSI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma é anche l’epigrafe che apre La tregua), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 526]

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre é sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".

11 gennaio 1946

4. SI IMMAGINI ORA UN UOMO...
[Da Primo Levi, Se questo é un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 21]

Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine "Campo di annientamento"...

5. CHE APPUNTO PERCHE’...
[Da Primo Levi, Se questo é un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 35]

Che appunto perché il Lager é una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere é importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci é rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché é l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso.

6. VERSO IL MEZZOGIORNO DEL 27 GENNAIO 1945
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 205-206]

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...). Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (...). Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

7. HURBINEK
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 216]

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

8. APPRODO
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 542]

Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si é tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.

10 settembre 1964

9. LA BAMBINA DI POMPEI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 549]

Poiché l’angoscia di ciascuno é la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si é fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
E’ filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono pssati i secoli, la cenere si é pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta é stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

20 novembre 1978

10. NON CI SONO DEMONI...
[Da Primo Levi, La ricerca delle radici, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1519]

Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che é senza ritorno.

11. PARTIGIA
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 561]

Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’é congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
Ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno é nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non é mai finita.

23 luglio 1981

12. IL SUPERSTITE
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 576]

a B. V.

Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’é.
"Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno é morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non é mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni".

4 febbraio 1984

13. CONTRO IL DOLORE
[Da Primo Levi, L’altrui mestiere, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 675]

E’ difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto può la tremenda mole di questa "sostanza" che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed é strano, ma bello, che a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.

14. CANTO DEI MORTI INVANO
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 615]

Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.

14 gennaio 1985

15. AGLI AMICI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 623]

Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.

Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.

16 dicembre 1985

16. LA VERGOGNA DEL MONDO
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1157-1158]

E c’é un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che "nessun uomo é un’isola", e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’é chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il "partial shelter" di T. S. Eliot, é stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello é salito di anno in anno fino quasi a sommergerci.

Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, né abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore é la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.

17. IL NOCCIOLO DI QUANTO ABBIAMO DA DIRE
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1149-1150]

L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti é estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passono gli anni (...). Per noi, parlare con i giovani é sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; é avvenuto in Europa; incredibilmente, é avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler é stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo é il nocciolo di quanto abbiamo da dire.

18. BIANCA GUIDETTI SERRA RICORDA PRIMO LEVI
[Ringraziamo ancora una volta Bianca Guidetti Serra - che con Primo Levi ha condiviso una lunga amicizia - per averci a suo tempo messo a disposizione la trascrizione di quanto da lei detto il 21 maggio 1987 nel corso di un ricordo di Primo Levi al Tempio Maggiore Ebraico a Torino]

Non sono qui a tessere astrattamente l’elogio dell’amicizia, né a tentare un esercizio retorico. Ricordo solo che presso gli antichi l’amicizia fu considerata una virtù.

Questa virtù, o questo sentimento, fu vivissimo in Primo e lo contraddistinse come uomo e come scrittore. Ma é possibile scindere le due figure?

Torna in mente l’inizio del racconto "Stanco di finzioni" del volume Lilit: "Chi ha avuto l’occasione di confrontare l’immagine reale di uno scrittore con quella che si può desumere dai suoi scritti sa quanto sia frequente il caso che esse non coincidano... Ma quanto é gradevole, invece, pacificante, rasserenante, il caso inverso, dell’uomo che si conserva uguale a se stesso attraverso quello che scrive".

Quanto pacificante e rasserenante per la nostra tristezza, oggi, constatare come per tutto l’arco della vita la sua immagine di scrittore abbia coinciso con quella dell’uomo che abbiamo conosciuto. Questo nostro amico. Cerchiamolo sfogliando qualcuna delle sue opere, nelle pagine che all’amicizia, appunto, sono dedicate.

"Noi siamo un gruppo di amici piuttosto esclusivo - così comincia un altro racconto, "Lo psicofante", che troviamo in Vizio di forma -. Siamo legati, uomini e donne, da un vincolo serio e profondo, ma vecchio e scarsamente rinnovato che consiste nell’aver vissuto insieme anni importanti e nell’averli vissuti senza troppe debolezze. In seguito, come avviene, le nostre vie sono andate divergendo, alcuni di noi hanno commesso dei compromessi, altri si sono feriti a vicenda, volontariamente o no, altri ancora hanno disimparato a parlare o hanno perso le antenne; tuttavia, proviamo piacere a ritrovarci: abbiamo fiducia l’uno nell’altro, ci stimiamo reciprocamente e di qualunque argomento trattiamo, ci accorgiamo con gioia di parlare pur sempre lo stesso linguaggio (qualcuno lo chiama gergo) anche se non sempre le nostre opinioni coincidono...". Si tratta di un racconto di fantascienza steso in termini ironici e divertiti, ma gli amici sono un pò i suoi vecchi amici: tutti noi, più in particolare forse quelli di un certo gruppo che ebbe le sue radici nel 1938 - il tempo delle leggi razziali che imposero, anche ai non ebrei, delle ineludibili scelte di campo - e che da allora continuò a fiorire.

*

Ma il tema dell’amicizia Primo l’ha trattato soprattutto ne Il sistema periodico. Come noto si tratta di ventuno storie a sfondo autobiografico che significativamente sono intitolate ciascuna ad un elemento naturale. Così quella intitolata "Oro". Narra di un modesto cercatore del prezioso metallo, ma anche degli "amici di Milano".

"E’ cosa risaputa - ve ne leggo qualche brano - che i torinesi trapiantati a Milano non vi allignano, o vi allignano male. Nell’autunno 1942 eravamo a Milano sette amici di Torino, ragazzi e ragazze approdati per motivi diversi nella grossa città che la guerra rendeva inospitale. I nostri genitori, chi ancora li aveva, erano sfollati in campagna per sottrarsi ai bombardamenti e noi facevamo vita ampiamente comune... Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani... Ma venne in novembre lo sbarco in Nord Africa, poi la vittoria russa a Stalingrado e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò più che in tutti i venti anni precedenti...

Il tempo per consolidare la nostra preparazione non ci fu concesso" (chiedo scusa se salto di frase in frase cercando tuttavia di conservare un nesso) "... vennero in marzo gli scioperi di Torino ad indicare che la crisi era prossima: vennero col 25 luglio il collasso del fascismo dall’interno, le piazze gremite di folla affratellata, la gioia estemporanea e precaria di un Paese a cui la libertà era stata donata da un intrigo di palazzo; e venne l’8 settembre, il serpente verdegrigio delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio... In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta - notate come parla sempre al plurale e non é mero esercizio retorico -, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino ognuno in una valle diversa".

E nella valle di Brusson il 13 dicembre 1943 Primo con altri due viene arrestato. "Nella cella - conclude il capitolo - mi accolse la solitudine, il fiato gelido e puro delle montagne che penetrava dalla finestrella e l’angoscia del domani. Tendendo l’orecchio, nel silenzio del coprifuoco si sentiva il mormorio della Dora, amica perduta, e tutti gli amici erano perduti, e la giovinezza, e la gioia, e forse la vita: scorreva vicina ma indifferente, trascinando l’oro nel suo grembo di ghiaccio fuso...".

Il "Ferro" é il ricordo di Sandro Delmastro, ucciso dai fascisti nell’aprile del 1944. Quale altro metallo meglio si associerebbe al personaggio? "Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali e stavo diventando un isolato anch’io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico ma li sentivo allontanarsi... Avevo osservato, con stupore e gioia, che tra Sandro e me qualcosa stava nascendo. Non era affatto l’amicizia fra due affini: al contrario, la diversità delle origini ci rendeva ricchi di merci da scambiare come due mercanti che si incontrino provenendo da contrade remote e mutuamente sconosciute... Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia é comprenderla e comprendere la materia é necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il sistema periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime...".

Queste cose raccontava Primo nelle lunghe avventurose gite in montagna a Sandro. Che cosa rispondeva Sandro? Che: "Potevo anche aver ragione: poteva essere la Materia la nostra maestra, e magari anche, in mancanza di meglio, la nostra scuola politica; ma lui aveva un’altra materia a cui condurmi, un’altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l’autentica Urstoff, senza tempo, la pietra e il ghiaccio delle montagne vicine...".

E, sempre sfogliando le pagine de Il sistema periodico, ecco su lo "Stagno" il racconto del sodalizio di Primo con Emilio-Alberto. "Vi sono metalli amici e metalli nemici. Lo stagno era un amico" e con la sua utilizzazione lo scrittore tenta di "uscire di tutela" e di "volare con le [sue] ali".

Impiantano un piccolo laboratorio licenziandosi lui "con assurda baldanza" da una fabbrica protettrice, "per tentare l’avventura della libera professione". Iniziano, appunto, con la lavorazione dello stagno, ma non sarà un successo. Il piccolo sodalizio si scioglierà presto ma l’amicizia resterà. Tanti altri amici popolano i libri: quelli della giovinezza e quelli di Auschwitz, quelli dell’odissea del ritorno (La tregua) e quelli incontrati successivamente.

*

Ma voglio qui ricordare anche il Primo amico, nella vita di tutti i giorni, quella che spingeva molti di noi a cercarlo, a parlargli, a comunicargli le cose importanti... Di qui le interminabili chiacchierate nel suo salotto (la camera stessa dove era nato) ma soprattutto le lunghe gite in montagna o in collina, che divennero più brevi col passare degli anni, ma rimasero le occasioni preferite per scambiarci esperienze e pensieri. Di queste gite molti di noi conservano immagini non casuali. Primo sorridente che sulla corteccia di un albero segue con l’indice il piccolo solco tracciato da un bruco roditore; Primo che allunga la mano a cogliere una bacca chiedendosi a quale specie appartenga e la palpa, l’annusa, la apre, ne assaggia un piccolo morso e comincia a fare delle ipotesi; Primo che si china a raccogliere una pallottolina di rami frammista di piume e ossicini, la sbriciola tra pollice ed indice e spiega: "questo é il rigurgito di qualche animale che ha divorato un uccellino"; Primo che con un fuscello stuzzica e devia il corteo delle processionarie attraverso la strada e ce ne racconta le abitudini. E forse proprio quelle gite ripetute per decenni tornano anche in una delle sue ultime poesie. Quella che comincia:


Quando la neve sarà tutta sciolta
Andremo in cerca del vecchio sentiero,
Quello che si sta coprendo di rovi
Dietro il muro del monastero;
Tutto sarà come una volta.

Ai due lati, fra l’erica folta
Ritroveremo cert’erbe stente
Il cui nome non ti saprei citare:
Lo ripasso ogni venerdì
Ma ogni sabato m’esce di mente;
M’hanno detto che sono rare
E buone contro la malinconia...

Sono versi, ma chi l’ha conosciuto ha l’impressione di sentirlo parlare.
E non a caso agli amici é indirizzata, quasi un congedo, anche l’altra poesia dedicata a loro per il capodanno del 1986.

Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.

Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.

Vorrei concludere, come ho iniziato, richiamandomi agli antichi. Essi ritenevano che l’amicizia, pur essendo qualcosa di divino, non richiedesse né altari né templi: doveva solo stare nel cuore degli uomini. Primo avrebbe condiviso questa credenza.


19. VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA RICORDA PRIMO LEVI
[L’intervento qui riportato fu tenuto al convegno su "L’opera di Primo Levi e la sua incidenza sulla cultura italiana e internazionale, a un anno dalla scomparsa", promosso dall’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi di sterminio nazisti), dalla Comunità ebraica di Torino, dalla Giulio Einaudi Editore, con il patrocinio del Consiglio Regionale del Piemonte, svoltosi a Torino, a Palazzo Lascaris, il 28-29 marzo 1988. Gli atti sono stati pubblicati nel volume (a cura del Consiglio regionale del Piemonte e dell’Aned), Primo Levi: il presente del passato. Giornate internazionali di studio, Franco Angeli, Milano 1991; l’intervento di Vittorio Emanuele Giuntella, "La memoria dell’offesa", é riportato alle pp. 79-82, nella nostra trascrizione abbiamo omesso le note a pié di pagina]


Sono molto imbarazzato, oltre che commosso, nel prendere la parola in occasione di questo convegno, che ha delineato i diversi aspetti (storici, letterari, etici) dell’attività di Primo Levi. Sono per mestiere uno storico, ma del valore storico dell’opera di lui ha già parlato autorevolmente Guido Quazza. D’altra parte chi ha letto il mio volume Il nazismo e i lager, sa quale grande parte degli scritti di Primo Levi sono da me citati come fonte storica.

Non posso, perciò, che parteciparvi la mia emozione per essere con voi, ancora una volta in questa sala, dove tanto spesso l’ho ascoltato e, oggi, per parlare proprio del nostro comune amico Primo Levi.

Dico subito, riprendendo quel che ha affermato David Meghnagi, citando la frase di un combattente non ebreo del gruppo di partigiani ebrei, di cui ha scritto Primo Levi in Se non ora, quando?, che sono con voi una volta di più come cristiano. Perché, come disse Pio XI nel 1938, non si può essere cristiani senza essere spiritualmente dei semiti. Ma, detto questo, é chiaro che non posso e non intendo fare una lettura "cristiana" dell’opera di Primo Levi, perché sarebbe da parte mia una mistificazione. Posso dirvi soltanto alcune mie riflessioni, di me, povero uomo, coinvolto in qualche modo, anche se molto diverso, dall’oppressione nazista.

E, anzitutto, vorrei dire quello che debbo all’amicizia con Primo Levi anche per la comprensione totale dell’oppressione nazista. Ci siamo salutati per l’ultima volta in una sala di questo palazzo; parlavamo della Conferenza di Wannsee, quarantacinque anni dopo, nel gennaio dello scorso anno. Mi aveva chiesto di parlare prima di me perché era ansioso di tornare subito a casa. Avevo appena cominciato la mia relazione e lui passando mi mise una mano sulla spalla. Chiesi all’uditorio che mi lasciassero salutare Primo, perché non potevo non salutare un amico come lui. Mi girai, lo abbracciai e gli dissi: "Ricordati che ti vogliamo bene!" e fummo applauditi.

Quasi un presentimento!

Ci eravamo conosciuti qui a Torino in una memorabile serata, nel 1960, a parlare, in un teatro, ad una folla di giovani (e non più giovani) della deportazione. Mi colpì in quella prima volta (e da allora tutte le volte che ci trovammo insieme a parlare) la chiarezza della sua esposizione, la semplicità del suo stile, l’assenza di risentimento personale, ma anche l’estrema nettezza, senza compromessi, o mascheramenti, della sua posizione.

Il male di Auschwitz, aveva scritto in Se questo é un uomo, ha contaminato gli uomini e si é diffuso come una pestilenza e il contagio é inarrestabile se non lo si fronteggia con energia. Forse il titolo del volume che seguì a Se questo é un uomo, La tregua, voleva proprio riferirsi ad un esito, che poteva essere provvisorio. A Torino nel 1983, in uno di quei convegni internazionali, che sono divenuti una preziosa occasione d’incontro, egli parlò della "memoria dell’offesa", argomento che riprese e allargò più tardi, "strumento meraviglioso ma fallace" perché "i ricordi che giacciono in noi, non sono incisi nella pietra", ma al tempo stesso ribadiva la perennità e la necessità del ricordo e citava le parole di Jean Amery: "Chi é stato torturato rimane torturato", e anche, "l’abominio dell’annullamento non si estingue mai".

Primo Levi commentava: "L’oppressore resta tale, e così la vittima; il primo é da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la seconda é da compiangere e da aiutare", "ma entrambi davanti alla realtà bruta del fatto che é stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e di difesa". Al tempo stesso si indignava per le dichiarazioni di Darquier de Pellepoix all’"Express" e, soprattutto, lamentava la maggiore facilità di diffusione che sembra avere la menzogna.

Nella prefazione a La vita offesa, di Anna Bravo e Daniele Jalla, tornava a parlare del male oscuro di Auschwitz (non più circoscrivibile in una denominazione geografica) perché, egli diceva, "la deportazione politica di massa, associata alla volontà della strage ed al ripristino dell’economia schiavistica, é centrale nella storia del nostro secolo".

Egli vedeva nell’esperienza del lager la riduzione dell’uomo alla "pura istintualità" e l’adattamento ad un livello di vita subumano, ma anche il ravvivarsi di "una forza superstite" e una "volontà non domata di proseguire la lotta", di sopravvivere per raccontare agli altri la minaccia terribile e inaudita fatta all’uomo: "se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l’uomo é stato capace, di che cosa é tuttora capace".

Da questa ansia nasce il suo impulso a raccontare: "Considerate se questo é un uomo (...) Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. (...) Meditate che questo é stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore". Un impegno a ricordare, detto con accento biblico: "Ricorda che cosa ti ha fatto Amalek". Ma anche il ricordo di chi é "restato uomo" anche in Auschwitz, dove il meccanismo razionale, non folle, ma lucido, tendeva alla totale spersonalizzazione.

L’ex sottufficiale austriaco Steinlauf invita Primo Levi a non lasciarsi abbrutire, perché questo é quello che "loro" vogliono, e che "noi" abbiamo la libertà di negare. Questa é la suprema libertà di chi tutto ha perduto. Ricordo ancora la bellissima pagina de I sommersi e i salvati, improntata al racconto biblico che narra di Gedeone, che sceglie i guerrieri guardando come bevono l’acqua del fiume, riversi sulla spiaggia e lambendola, o in ginocchio, o in piedi, recandola alla bocca nel palmo della mano. Questa ultima libertà di restare uomo e di negare il consenso, dice l’altro grande deportato Viktor E. Frankl, é un patrimonio interiore, che si può ancora contendere a "loro".

Ricordate la figura del rabbino Wachsmann reso diafano dalla fatica e dalla fame, ma dal cui volto traspare una incomparabile forza spirituale e, perciò, é ancora vivo? E al tempo stesso il rifiuto di una sorta di "provvidenzialità" intesa, direi, materialisticamente, espresso in quella sconcertante pagina dello scampato, per quella volta, alla selezione, che prega ringraziando, e del giovane greco, che l’indomani andrà in fumo e che guarda fisso il soffitto della baracca. "Se fossi Dio", esclama Primo Levi, "sputerei a terra la preghiera di Kuhn".

Una espressione dura, che può scandalizzare solo colui che non é aduso alla durezza del linguaggio della Bibbia, il linguaggio di Giobbe, che contrasta con Dio e si arrende solo alla fine, quando echeggiano le parole divine: "Chi sei tu, o uomo...", o il linguaggio degli ebrei dell’Esodo a Massa e Meriba: "Dio é con noi, sì o no". Il linguaggio e la speranza, dice Primo Levi, dei "salvamenti biblici". Non dimentichiamo che Primo Levi ha voluto mettere al primo posto nella raccolta antologica La ricerca delle radici (1981), proprio un brano di Giobbe, che può sorprendere, ripeto, solo chi é abituato a un linguaggio edulcorato (e perciò corrotto) del suo rapporto con Dio.

Anche per questo ieri abbiamo sentito con piacere Norberto Bobbio, maestro di tutti noi, anche di chi non é stato suo allievo, dire che c’é stata una frattura tra un tempo anteriore ad Auschwitz ed un tempo del dopo; quella frattura, che ha interessato concordemente (per la prima volta nella storia del mondo occidentale) teologi israeliti, cattolici e protestanti.

Chiedo scusa se mi sono lasciato andare ad una meditazione a voce alta sugli scritti di Primo Levi. Ma anche Guido Quazza ricordava che molte pagine di Primo Levi sono "semplici e incomprensibili"; cioé, se ho ben compreso, misteriose, come quelle della Bibbia. Urge dentro di noi tanta memoria e tanto rimpianto dell’amico lontano, ma non perduto, come ricordava quel grande rabbino della tradizione ebraica, il quale agli amici, che ne piangevano la partenza per una terra, che dicevano lontana, rispose: "Lontano da chi? Lontano da che cosa?".

Perché ha scritto Primo Levi in una poesia dedicata "Agli amici" nel 1985, "fra noi per almeno un momento / [é] stato teso un segmento / una corda ben definita", che neppure la separazione della morte può spezzare. Così intendo, ancora oggi, il mio legame con Primo Levi.

20. ET COETERA
Primo Levi é nato a Torino nel 1919, e qui é tragicamente scomparso nel 1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto, fu per il resto della sua vita uno dei più grandi testimoni della dignità umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l’orrore dei campi di sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti più alti dell’impegno civile in difesa dell’umanità. Opere di Primo Levi: fondamentali sono Se questo é un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La ricerca delle radici, L’altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 é apparso un volume di Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l’intera opera di Primo Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) é raccolta nei due volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti. Opere su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano 1991; AA. VV., Primo Levi: la dignità dell’uomo, Cittadella, Assisi 1994; Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini, Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992; Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino 1997; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo é un uomo" di Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano 1976. Bianca Guidetti Serra, impegnata nella Resistenza, avvocato, parlamentare. Una delle figure più autorevoli della vita democratica italiana. Opere di Bianca Guidetti Serra: Felicità nell’adozione, Ferro, Milano 1968; (con Francesco Santanera), Il paese dei Celestini, Einaudi, Torino 1973; Compagne, Einaudi, Torino 1977; Le schedature Fiat, Rosenberg & Sellier, Torino 1984; Storie di giustizia, ingiustizia e galera, Linea d’ombra, Milano 1994. Vittorio Emanuele Giuntella, nato nel 1913, dopo l’8 settembre 1943, tenente degli alpini, fu uno degli ufficiali italiani che rifiutarono di servire i nazifascisti e fu internato in Lager della Polonia e della Germania. Storico, docente di storia dell’età dell’illuminismo all’Università di Roma, costantemente impegnato per i diritti umani, é stato tra i più autorevoli rappresentanti dell’Opera Nomadi. E’ scomparso nel 1996. Opere di Vittorio Emanuele Giuntella: autorevolissimi i suoi studi sul ’700 e quelli sulle vicende della seconda guerra mondiale, della deportazione e della Resistenza; fondamentale é il suo volume Il nazismo e i Lager, Studium, Roma 1979.

==============================
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento settimanale del martedì de "La nonviolenza é
in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E,
01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 6 del 24 gennaio 2006

Per ricevere questo foglio é sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request@peacelink.it?subject=subscribe





Giovedì, 26 gennaio 2006