Sabra e Chatila: i campi della morte

di Carl Carlsson

Diciannove anni fa, a Beirut, avvenne un massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Circa duemila uomini, donne, vecchi e bambini furono vigliaccamente trucidati dalle milizie libanesi asservite a Israele. Di quasi mille corpi non si è saputo più nulla e ancora oggi, a diciannove anni dal massacro, esistono fosse comuni anonime, la principale delle quali è addirittura utilizzata come discarica di rifiuti: le vittime innocenti non hanno mai ricevuto una decorosa sepoltura, mentre i colpevoli non hanno ancora pagato per la strage.

Il 6 giugno 1982 ebbe inizio l’operazione "pace in Galilea". Obiettivo dichiarato da Israele: una fascia di 45 chilometri oltre il confine libanese. Ma da subito l’ordine all’esercito è di raggiungere Beirut. Dopo tre mesi di combattimenti, e una resistenza senza precedenti opposta sul campo dalle forze palestinesi assediate in Beirut ovest, il rappresentante statunitense Philip Habib inviato da Reagan aveva trovato una mediazione sulla base delle seguenti clausole: abbandono di Beirut da parte dei combattenti palestinesi e siriani, ritiro delle forze israeliane, assunzione del controllo della città da parte dell’esercito libanese. L’accordo garantiva che l’esercito israeliano non sarebbe entrato a Beirut ovest. Il governo israeliano si era anzi espressamente impegnato a rispettare i civili dei campi palestinesi. Una forza di circa 2.000 uomini composta da militari statunitensi, francesi e italiani fu messa a presidio di Beirut a partire dal 25 agosto. L’OLP e i Siriani (circa 15.000 uomini in tutto) si ritirarono ordinatamente, mentre i civili palestinesi, profughi a Beirut, restavano in città. Ecco però che tra il 10 e il 13 settembre la forza multinazionale lascia la città: è la vigilia della tragedia. Martedì 14 settembre alle 16,30 il neoeletto presidente libanese Bechir Gemayel salta in aria con un gruppo di seguaci nell’attentato che distrugge la sede del suo partito, il Kataeb ("Falange"). Qualche giorno prima aveva tenuto consultazioni segrete con il governo israeliano. Alle 19 il primo ministro israeliano Begin e il ministro della difesa Sharon decidono di far entrare il loro esercito a Beirut ovest. Alle 20 Sharon ordina al capo di stato maggiore Raful Eytan di inviare nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila i miliziani collaborazionisti del Kataeb. Nella notte su mercoledì 13 settembre s’incontrano responsabili militari israeliani e libanesi ai massimi livelli. Oggetto della riunione è la "ripulitura" dei campi profughi. Alle 5 del mattino gli aerei Phantom israeliani sorvolano Beirut in isfacciata violazione degli accordi Habib. Alle 7 le forze di terra iniziano a penetrare in Beirut ovest. Alle 18 i carri armati circondano i campi di Sabra e Chatila. Il comando israeliano si installa in un edificio di otto piani a cinquanta metri da questo campo. Giovedì 16 settembre a partire dalle 7 i mezzi corazzati israeliani si addentrano in città e la milizia nasseriana dei Murabitun, che non ha abbandonato il terreno, tenta di contrastarne l’avanzata. Si accendono violenti scontri. Durante la giornata i campi di Sabra e Chatila sono sotto il fuoco dell’artiglieria. Quattro anziani si recano in delegazione dagli Israeliani per confermare che nei campi non vi sono combattenti: i loro corpi saranno ritrovati alcuni giorni dopo presso l’ambasciata del Kuwait. Alle 20 i razzi israeliani illuminano a giorno i campi profughi e i sicari libanesi vi fanno irruzione. Si odono raffiche, ma si uccide anche senza rumore, con armi da taglio di vario genere. All’ospedale di Acca, annesso a Chatila, affluiscono i feriti che hanno potuto fuggire, molti muoiono. Nella notte circa duemila persone in preda al terrore si riversano nell’ospedale. Il massacro prosegue senza sosta. Venerdì 17 settembre alle 8 i medici stranieri sono cacciati dall’ospedale, quelli palestinesi uccisi insieme a numerosi feriti. Nei campi profughi le uccisioni continuano. Intere famiglie sono sterminate. Si stupra. Si saccheggia. Si rubano il denaro e i pochi oggetti preziosi. Ci si accanisce sadicamente sulle vittime indifese. E già entrano in azione i bulldozer: rimuovono mucchi di corpi e li scaraventano in fosse comuni, demoliscono le abitazioni e seppelliscono i morti tra le macerie. Alle 21 i macellai ricevono rinforzi, mentre gli Israeliani riprendono il lancio di razzi illuminanti per agevolarne il lavoro. E’ una seconda notte di orrore. Sabato 18 settembre di prima mattina i massacratori iniziano a lasciare i campi. Dopo qualche ora, quando se ne sono andati tutti, può iniziare la conta dei morti: più di mille sono rimasti sul terreno, a questi si devono aggiungere quelli già seppelliti. Due enormi fosse comuni, infatti, sono state riempite ai due lati della strada che taglia in due il campo di Chatila, vicino all’ambasciata del Kuwait, sotto gli occhi del comando israeliano. Vi è poi un alto numero di scomparsi, che non saranno più ritrovati. Nel pomeriggio arrivano i giornalisti, si svelano mostruosità indicibili: mutilazioni, scotennamenti, accecamenti, cadaveri tumefatti per i pestaggi. Persino i cavalli sono stati uccisi. Un’altra grande fossa comune viene scavata in fretta e i corpi vi sono interrati alla rinfusa.

Oltre all’ospedale di Acca anche quello di Gaza, che serviva Sabra, è completamente devastato. La strage di Sabra e Shatila provocò un’ondata di orrore e di indignazione. In Israele si svolsero manifestazioni di protesta e il 28 settembre 1982 fu costituita una commissione d’inchiesta governativa ("commissione Kahan"). Tale commissione presentò la propria relazione l’8 febbraio 1983 riconoscendo la determinante copertura logistica fornita dall’esercito ai massacratori e le "indirette" responsabilità di Sharon, oltre che quelle per "negligenza" di Begin, Shamir ed Eytan. Nessuno fu punito, né vi furono arresti, o processi. Sharon ed Eytan dovettero dimettersi dalle rispettive cariche, e fu tutto. Oggi il boia Sharon è capo del governo.

L’allora primo ministro Menachem Begin (1913-1983) era un terrorista. Non si tratta di un’accusa gratuita, è un dato di fatto. Dal 1943 al 1948 capo della banda Irgun, si macchiò di ignobili violenze e di atti di terrore contro gli occupanti inglesi e la popolazione civile palestinese. Uno tra tutti, l’attentato alla bomba contro l’hotel King David a Gerusalemme (22 luglio 1946): 91 morti e 45 feriti. L’allora ministro degli esteri Yitzhak Shamir (1915-) è un terrorista. Anche qui si tratta di un puro dato di fatto. Capo della banda Stern, detta anche Lehi, fu arrestato dagli Inglesi nel 1941 e nel 1947 per attività terroristiche. Fu protagonista delle molteplici atrocità commesse da estremisti ebrei contro Inglesi e civili palestinesi negli anni quaranta e responsabile dell’assassinio del conte svedese Folke Bernadotte, mediatore dell’ONU nel primo conflitto arabo-israeliano. L’uccisione di Bernadotte, avvenuta a Gerusalemme il 17 settembre 1948, fu premessa alla seconda fase della guerra che gli Israeliani scatenarono nell’ottobre-novembre 1948 per occupare il Negev. Nella storia dello Stato d’Israele vi sono stati comandanti militari valorosi, e leali per quanto sia concepibile esserlo nelle moderne guerre siriache: Moshe Dayan (1915-1981) e Yitzhak Rabin (1922-1995) furono tra questi. Non invece Ariel Sharon, un vecchio malvissuto la cui sola esistenza in vita e in libertà suona come patente insulto alla giustizia di guerra. E che a distanza di quasi vent’anni, coi comportamenti tenuti a partire dalla provocatoria passeggiata davanti alle moschee di Gerusalemme, che affossò il processo di pace allora in corso, prova come il tempo non l’abbia fatto ravvedere, ma incanaglito. Di fronte all’orribile massacro di Sabra e Chatila il primo ministro israeliano Begin dichiarò alla Knesset: "Dei non Ebrei hanno massacrato dei non Ebrei: perché questo dovrebbe riguardarci?" Questo infame intervento è in realtà rivelatore e significativo. Rivelatore, poiché costituisce una sorta di confessione, quasi una rivendicazione della strage. Per quanto si è detto, ciò è in perfetta sintonia col profilo del personaggio. Significativo, poiché è impossibile non tracciare un’analogia con quei componenti delle forze combattenti e di polizia germaniche, che alla fine della guerra 1939-1945 furono processati, e appiccati, non per avere direttamente commesso crimini, ma per avere comandato o consentito ad altri, per esempio ai gruppi speciali formati da ucraini o da lituani, di commettere stragi di civili. Beninteso, se erano colpevoli fu una punizione meritata. Nessuno, però, poté obiettare "Dei non Germani hanno massacrato dei non Germani: perché questo dovrebbe riguardarci?". Per tale genere di delitti sono giudicati solo i vinti: altrimenti sarebbe ben ardua impresa, per Ariel Sharon, quella di scampare alla forca. In quest’epoca pervasivamente e strumentalmente informata dall’ideologia dei "diritti umani" e da quello che Noam Chomsky ha definito "il nuovo umanitarismo militare", nulla è cambiato a tale riguardo. Gli stessi che rapiscono e teatralmente "processano" l’ex-presidente della Federazione jugoslava, sostengono con fervore l’attuale primo ministro dello Stato d’Israele, che diversamente non durerebbe un solo minuto secondo, artatamente tacendo il fatto che si tratta di un macellaio, di un terrorista e di un assassino. In una concione tenuta la sera dell’11 settembre scorso, in occasione dei recenti attentati negli Stati Uniti il Sig. Ariel Sharon ha dichiarato: "La lotta contro il terrorismo è una lotta tra il bene e il male". Molto vero, ed è la sua stessa condanna. Egli è un terrorista, incarna il male, pertanto dev’essere estirpato.

Jean Genet (1910-1986), scrittore e commediografo francese, uomo discusso dalle esperienze le più varie, omosessuale dichiarato, vagabondo, fuggitivo, più volte carcerato, trasfigurato dall’incontro con Sartre, una specie di poeta scandaloso e maledetto, s’immerse nella vicenda palestinese forse più per attrazione romantica che per consapevole scelta politica. Domenica 19 settembre 1982, a poche ore dal massacro, egli era a Beirut e si recò per alcune ore al campo di Chatila, aggirandosi tra i cadaveri e l’odore di morte. Di quella visita Jean Genet lasciò un memorabile resoconto, pubblicato sulla Revue d’études palestiniennes nel numero sei dell’inverno 1983. Una narrazione senza sbavature, formidabile nella sua essenzialità, in continuo equilibrio tra la poesia e l’orrore, nella quale inevitabilmente prende corpo, pur senza mai involgarire, quella estetica della rivoluzione - e dei rivoluzionari - che Genet coltiva con le inelargibili sensibilità che appartengono al suo modo di essere. I morti di Sabra e Chatila non appartengono al nostro popolo, nondimeno, per ciò che essi rappresentano - ancora di più oggi - nelle circostanze e modalità emblematiche del loro massacro, dedichiamo alla loro memoria la ripubblicazione di questa epigrafe, nella traduzione a suo tempo curata da Paolo Brogi e da noi appena ritoccata.



Mercoledì, 23 giugno 2004