Dopo sessanta anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini
A sessant’anni di distanza dal colpo di Stato che porṭ al potere il partito comunista, ricostruiamo la tragica vicenda della morte del ministro degli esteri cecoslovacco.
Sono le 14.30 del 9 marzo 1948, dopo una colazione con i coniugiBeneš nella residenza di Sezimovo Usti ove si è recato per assistere alla consegna delle credenziali da parte del nuovo ambasciatore polacco, Jan Masaryk rientra al Palazzo Czernin di Praga, sede del ministero degli esteri, nell’appartamento che gli è riservato al secondo piano. Al capo ispettore di polizia e sua guardia del corpo, Willem Vysin, che lo accompagna fino alla porta della camera da letto, dice:
“Non mi occorre più il suo aiuto per oggi. Starò a casa, a letto. Mi chiami domani mattina verso le 9.00.”
È da tempo che Masaryk soffre di cuore. Il capo ispettore Vysin, quel pomeriggio, lo ricorda stanco, ma di buon umore, “insomma completamente normale”. Masaryk si corica, dorme fino alle 15.15, ora in cui riceve, standosene a letto, il suo segretario personale Joseph Kubin, che ritorna da lui alle 18.30, per correggere le bozze di un discorso che il ministro dovrebbe pronunciare l’indomani, davanti all’Associazione per l’amicizia ceco-polacca.
Alle 17.00, Masaryk vede Pavel Kavan, primo segretario dell’ambasciata cecoslovacca a Londra. I due parlano delle reazioni inglesi alla decisione di Masaryk di aderire al nuovo governo comunista formato da Clement Gottwald, dopo il colpo di Stato di febbraio. Scrive Kavan:
“Il ministro mi augurò buon viaggio e mi chiese di tenerlo informato. Mi sembrò normale, disteso e di buon umore. Non mi consegnò nessuna lettera per il nostro ambasciatore a Londra.”
Poco dopo le 20.00 il maggiordomo, Bohumil Prihoda, gli porta il pranzo. Ricorda quest’ultimo:
“Mangiò tutto di buon appetito. Come al solito lasciai sul suo comodino una bottiglia di birra, due di acqua minerale e le pillole che prendeva per addormentarsi.
“Grazie Prihoda”,
mi disse,
“non credo di avere ancora bisogno di te per oggi. Domattina alle 8.30 ho una riunione con il nuovo governo.”
Quando lascia la sua camera da letto erano circa le 21.00. il ministro sembrava normale, disteso e di buon umore. Non ho notato in lui niente di diverso dal solito.”
Le affermazioni di Visyn, Kavan e Prihoda contrastano, tuttavia, con quella del presidente Beneš, che quel giorno, a Sezimovo Usti, lo trova abbattuto, con i nervi a pezzi. Fischl, uno dei più stretti collaboratori di Masaryk, lo ricorda anch’egli “fisicamente cambiato, paralizzato dall’angoscia, controllava in continuazione se qualcuno ascoltava alle porte, sospettava di tutti”. Un diplomatico francese che l’ha incontrato, il 4 marzo, lo descrive pessimista, depresso, ossessionato dall’idea che la guerra tra russi e americani possa scoppiare da un momento all’altro.
Il 7 marzo, giorno anniversario della nascita del padre, fondatore della Repubblica cecoslovacca, Jan Masaryk è andato a raccogliersi sulla tomba dei genitori: l’ha fatto per chiedere consiglio ai Mani paterni?
Un suo amico, che abbandonerà la Cecoslovacchia sul finire di marzo per non servire il regime comunista, afferma che Masaryk non dormiva più, si imbottiva di sonniferi. La stessa fonte aggiunge che anche Masaryk pensava alla soluzione dell’esilio. È questa la chiave per spiegare la tragica fine?
Può darsi.
La notte dal 9 al 10 marzo al ministero degli esteri sono in servizio l’ispettore Joseph Klapka, con i sergenti Emanuel Jindracek e Filipovsky, le guardie Stanek e Sedm. Verso mezzanotte la guardia Sedm accusa un forte mal di denti e chiede di lasciare il servizio. Alle 0.30 Filipovsky nota che la luce della stanza da letto di Masaryk è ancora accesa; ma verso l’una e trenta tutto è buio nell’appartamento. Tocca a Karel Maxbauer, fuochista dei termosifoni al Palazzo Czernin, che verso le 5.00 è salito sul tetto, con il cognato Pomezny, per ritirare la bandiera che era là dal giorno prima per la celebrazione della Giornata nazionale polacca, di scorgere da una finestra il corpo di Jan Masaryk disteso nel cortile. Il ministro indossa un pigiama a righe.
“Sembrava”, ricorda Maxbauer, “un fantoccio dai fili spezzati.”
Sono passate da poco le 5.30, Maxbauer avverte l’ispettore Klapka che si precipita nel cortile per constatare che Masaryk è morto. L’ispettore dà ordine di coprire con una coperta il cadavere, ma di non toccarlo e corre al telefono per avvertire i suoi superiori. Mezz’ora dopo, mentre Praga è ancora avvolta nel sonno di un’alba grigiastra, a metà strada tra inverno e primavera, giungono funzionari, medici.
Dirà il verdetto dell’autopsia:
“Cuore lacerato, danni all’aorta, fegato e vescica spezzati a metà, costole e colonna vertebrale rotte, bacino fracassato, intestini pieni di sangue, gambe e caviglie rotte. Morte istantanea.”
L’uomo pieno di tatto, di profonda sensibilità, forse, debole come sostengono alcuni, più artista che politico, che ha affascinato i salotti di Londra, amico personale di Churchill e di Roosevelt, e che, adesso, in uno dei momenti più tragici della storia cecoslovacca, rappresentava la continuità democratica del regime comunista, non è più.
Gottwald ai funerali parla di stanchezza, aggiungendo:
“Una campagna organizzata in occidente ha portato il nostro caro Jan al suicidio.”
L’emozione è enorme. Ma come è morto Masaryk?
Suicidio, incidente o assassinio politico?
La guerra fredda batte il suo pieno in Europa; lo speciale momento favorisce tutti e tre gli interrogativi.
Figlio del primo presidente della Repubblica cecoslovacca e di un’americana, Charlotte Guarrighe, Jan Masaryk è nato a Praga nel 1886, nell’atmosfera un po’ decadente dell’impero austro-ungarico in decomposizione. L’ammirazione per il padre non lo trattiene nel Vecchio Continente, e così, a venti anni, appena ottenuta la laurea all’Università di Praga, fugge negli Stati Uniti dove, per vivere, si adatta a suonare il piano in un piccolo cinema di quartiere, cosa che gli consentirà un giorno, a Londra, dove si è recato come rappresentante diplomatico del suo paese, di venir considerato come “il miglior pianista tra gli ambasciatori” presenti alla Corte di San Giacomo.
La Prima Guerra Mondiale lo trova in Austria, costretto a indossare l’uniforme austro-ungarica, come tanti altri tra i suoi connazionali, del resto. A guerra finita, nata la Repubblica cecoslovacca, torna negli Stati Uniti, ma questa volta come incaricato d’affari. Londra è la sua seconda tappa, come ambasciatore. I salotti della migliore società londinese si aprono volentieri davanti a questo elegante diplomatico dotato di un buon umore tutto anglosassone, oltre che di un invidiabile senso degli affari. Il ricordo di quegli anni a Londra rimarrà sempre vivo, in lui. Anche per questo motivo, dopo gli accordi di Monaco e l’invasione hitleriana della Cecoslovacchia, si rifugia a Londra, con Beneš, in attesa di giorni migliori. La guerra consente a Beneš e a Masaryk di mettere in piedi un governo cecoslovacco in esilio, la cui esistenza viene riconosciuta, nel 1941, da Inghilterra, Stati Uniti e Urss.
Il ritorno in patria di questo strenuo combattente per la libertà è trionfale. Gli eserciti sovietici, a mano a mano che penetrano nel territorio cecoslovacco, rimettono alle autorità civili il controllo delle province liberate. Il 5 aprile 1945, con Beneš quale presidente della Repubblica, viene costituito un nuovo governo diretto dall’ex-ambasciatore cecoslovacco a Mosca, Fierlinger. La sede provvisoria a Bratislava, in attesa del ritorno a Praga. Le prime elezioni si tengono nel giugno del 1946. i comunisti ottengono la maggioranza relativa e il diritto di esprimere il capo del governo, con Clement Gottwald alla testa di una compagine di unione nazionale. Gottwald, come già Fierlinger, offre a Masaryk il ministero degli esteri. È, forse, il periodo migliore della sua attività di governo.
Jan Masaryk ha in comune con Beneš la profonda convinzione che l’interesse della Cecoslovacchia, la sua indipendenza, il regime pluralistico, dipendono dai buoni rapporti sia con l’est sia con l’ovest. Bisogna, quindi, star lontani dai conflitti tra i grandi, “prendere il meglio e trarre il massimo di profitto dai due mondi”. In visita negli Stati Uniti sul finire dell’ottobre 1947, spiega al vicesegretario di Stato americano, Lovett, che i cecoslovacchi sono sempre”stati indigesti a qualsiasi potenza li voglia inghiottire”.
Gran borghese di origine, ma sensibile alle idee progressiste, Masaryk è attratto dalla potenza dell’Urss e dalle capacità organizzative del PC cecoslovacco, pur disapprovandone le tecniche del modello sovietico. Sogna, per il suo paese, “un socialismo per tutti e con tutti”, cioè la reciproca tolleranza, la concordia nazionale, il compromesso, un sistema, insomma, dove possano facilmente risolversi le discordie tra i partiti. Tanto più duramente contrasto con questa sua visione del mondo il colpo di Stato del febbraio del 1948.
Gottwald non si accontenta della maggioranza relativa, della posizione dominante nel governo. Pretende il potere assoluto e lo ottiene, obbligando alle dimissioni i rappresentanti degli altri partiti, scatenando per strada le milizie popolari.
Che fa Masaryk?
Non può, né vuole abbandonare Beneš. O, forse, spera di salvare il salvabile. Così finisce per coprire con il suo prestigio di democratico l’operato di Gottwald, accettando la proposta di Beneš di entrare, sempre come ministro degli esteri, nel nuovo governo.
Ma, non sembra del tutto fiero di sé. Quando gli presentano la lista dei diplomatici da epurare, in un primo momento rifiuta. Poi, firma, dopo aver ricevuto l’assicurazione che verrà rispettato il termine di due mesi per congedarli. Confessa a Fischl:
“Durante la guerra ho consigliato agli amici della resistenza interna di comportarsi come il soldato Schweik, in altri termini, di piegarsi sotto la tempesta. Ora sono io che mi trovo ridotto a sostenere quella parte.”
Il 27 febbraio, durante un incontro con l’ambasciatore americano, così si giustifica: rimane solo provvisoriamente al governo, per limitare i danni. In tal modo ha, già, potuto salvare duecentocinquanta persone. In effetti, l’anticamera del suo ufficio è tutta un affollarsi di persone, soprattutto, vecchi social-democratici, che lo supplicano di intervenire in loro favore. Intanto, sul suo tavolo si accumulano le lettere che gli giungono dall’emigrazione cecoslovacca, soprattutto, dagli Stati Uniti, che lo bollano come “traditore”. Ancora a Fischl confida:
“Avevo previsto che sarebbe stato duro, ma è terribile, è peggio di quanto avessi pensato. È un inferno.”
La morte pone termine a queste angosce, non alle domande su come può essere avvenuta.
La versione ufficiale, come si è detto, fu quella del suicidio. Diceva un comunicato governativo:
“Il dottor Jan Masaryk, sfinito per il lavoro dedicato alla patria e alla nazione, si è tolto volontariamente la vita. A causa della sua malattia e della sua insonnia, ha, evidentemente, deciso, in un momento di esaurimento nervoso, di uccidersi, gettandosi dalla finestra del suo appartamento ufficiale nel cortile di Palazzo Czernin.”
Ma non mancavano, fin dagli inizi, i sospetti, le prove contrarie. Nella camera da letto vi era un grande disordine; così nella stanza da bagno dove gli oggetti da toletta di Masaryk erano tutti sul pavimento e alcuni, di vetro, rotti. Era anche strano che Masaryk fosse caduto in piedi, come dimostravano la posizione del cadavere e le gambe fracassate, mentre, di solito, i suicidi si gettano con il viso rivolto verso il vuoto. Le perdite di sostanze organiche, trovate sul pigiama e sul davanzale della finestra, facevano pensare che Masaryk al momento di morire fosse terrorizzato o avesse sostenuto una lotta prima di precipitare.
Infine vi era la mancanza di un messaggio qualsiasi, una lettera o altro, che, di solito, i suicidi lasciano dietro di sé per chiarire i motivi della decisione presa.
Naturalmente non si poteva neppure escludere che si fosse trattato di un incidente. Masaryk, sedutosi sul davanzale della finestra in preda all’insonnia, o per respirare un po’ d’aria, avrebbe potuto precipitare inavvertitamente nel vuoto, forse per un capogiro. Ma anche questa versione contrastava con altri aspetti oscuri della vicenda, tra cui la sorte toccata a molti tra i testimoni della morte di Masaryk.
Vaklav Sedm era il poliziotto che, nella notte tra il 9 e il 10 marzo ottenne di tornare a casa adducendo un mal di denti. Morì nello stesso 1948, a seguito di un incidente d’auto, e il suo corpo fu cremato. Jaroslav Teply era un medico della polizia e fu tra i primi a vedere il cadavere di Masaryk. Secondo notizie giunte in occidente avrebbe fatto sapere di aver notato segni di percosse sul corpo del ministro, e un minuscolo forellino sulla parte destra del cranio,forse, dovuto a una puntura. Ma anche Teply si uccise qualche mese dopo sbagliando, secondo un rapporto di polizia, “nel praticarsi un’iniezione”.
Il professor Joseph Hajek, insigne patologo dell’università di Praga, era stato chiamato ad assistere all’autopsia di Masaryk, anche se, pare, non fu concesso neppure a lui di avvicinarsi al cadavere. Morì anch’egli, qualche tempo dopo, per cause che non fu possibile stabilire. Zdenev Borgovec era un anziano funzionario di polizia che aveva svolto le prime indagini sulla morte di Masaryk. Coinvolto nel vortice elle purghe cecoslovacche, sparì in qualche prigione dimenticata e di lui non si seppe più nulla.
Josef Kadlec era un poliziotto che aveva fatto parte della guardia del corpo di Thomas Masaryk, padre di Jan, e che non convinto delle tesi del suicidio si era messo a indagare per conto proprio sulla morte del ministro. Licenziato dalla polizia, morì durante un interrogatorio nell’ufficio dei servizi di sicurezza. Questa serie di morti era troppo alta per apparire casuale; anche se d’altra parte, sul piano della logica, più che su quello dell’emotività, restava, a sostegno della tesi del suicidio, che né Gottwald né il suo regime avevano interesse a sopprimere l’uomo che accettando di collaborare aveva reso loro il più grande dei favori politici. Questo ragionamento blocca molti dei fautori della tesi dell’omicidio. Passeranno alcuni anni prima di veder giungere dalla Cecoslovacchia un’altra testimonianza, e dagli Stati Uniti un libro di Marcia Davemport, ad apportare nuovi elementi al quadro.
La testimonianza è quella di un impiegato dell’ufficio passaporti, Karel Straka, che la notte del 9 marzo era di servizio al ministero. Egli dichiara che quella sera, qualche tempo dopo il ritorno di Masaryk, sentì il rumore di alcune automobili che si fermavano davanti all’ingresso del palazzo. Passati alcuni minuti si accorse che i telefoni non funzionavano più e che la porta del suo ufficio era stata chiusa a chiave dall’esterno. Restò immobile finché, verso le 2,00, i telefoni ripresero a funzionare e udì le automobili ripartire.
Quando il silenzio fu tornato nel palazzo, riuscì ad aprire la porta del suo ufficio e fece un giro d’ispezione. Camminando per i corridoi, gettò uno sguardo nel cortile: sul selciato vi era il cadavere di Masaryk. Distolse gli occhi da quello spettacolo, poi li sollevò verso le finestre dell’appartamento del ministro: chiuse.
“Compresi allora”, commenta Straka, “che non si trattava né di un incidente né di un suicidio.”
Marcia Davemport era una scrittrice. Jan Masaryk l’aveva conosciuta all’Onu, stringendo con lei un legame sentimentale. La donna aveva, poi, seguito Masaryk a Praga; ed è qui, da Praga, secondo il racconto della Davemport, che il ministro la rimanda a Londra tre giorni prima del suicidio promettendole che la seguirà alla prima occasione possibile. Se, dunque, Masaryk progettava la fuga in Occidente, questa poteva essere una ragione sufficiente per ucciderlo.
Ma nutriva davvero Masaryk questa intenzione segreta?
Nella testimonianza di Straka, come nel libro della Davemport, vi è chi nota una certa confusione, qualche inesattezza, forse, il gusto di forzare le cose. Occorrerà giungere fino a Dubcek e alla Primavera praghese del 1968 perché gli stessi cecoslovacchi decidano di riaprire l’intero dossier.
È il filosofo Ivan Svitak a pubblicare sulla rivista Student una serie di articoli che ritornano sulla tesi dell’omicidio. Citando alcune testimonianze, Svitak fa anche il nome dell’assassino: quello di un poliziotto, un agente della NKVD sovietica infiltratosi nei servizi segreti cecoslovacchi, di nome Schram, ucciso a sua volta da uno studente, Miroslav Choc, convinto della sua colpevolezza. Le rivelazioni di Svitak suscitano viva emozione. La Procura di Praga viene incaricata di un’inchiestae, in poche settimane, il procuratore generale, Jiri Kotlar, e i suoi cinque assistenti riescono a raccogliere ben due casse di documenti contraddistinti dalle sigle VSTB 448891 e VSTB 458891.
Anche in questa occasione, vi è chi non se la sente di affrontare l’inchiesta: come il maggiore Bedrich Pokorny, un ufficiale dei servizi segreti cecoslovacchi, che il 9 aprile 1968 viene trovato morto impiccato in un bosco vicino alla capitale. Kotlar continua, comunque, il proprio lavoro di ricerca; ma nell’estate le speranze sollevate dalla Primavera di Praga sono, invece, distrutte dall’intervento sovietico.
L’inchiesta della Procura viene chiusa il 17 settembre 1969 senza dare una risposta soddisfacente, affermando l’impossibilità di stabilire con certezza se si è trattato di un suicidio o di uno sfortunato incidente, e che non si è trovata nessuna prova a favore dell’ipotesi di omicidio. Masaryk, in preda all’insonnia, si sarebbe seduto all’alba sul davanzale della finestra. Allora, obbedendo a un impulso improvviso oppure, perdendo l’equilibrio, sarebbe caduto.
Non sono risolutive neppure le rivelazioni dello storico Karel Kaplan che, dopo aver abbandonato la Cecoslovacchia, ha affermato di aver visto negli archivi del Comitato Centrale del partito la copia di una lettera indirizzata da Masaryk a Stalin il 7 marzo dove era scritto:
“Quando leggerete queste righe io non sarò più qui.”
Kaplan ne deduce che il ministro meditava il suicidio; in realtà, quella frase potrebbe anche voler dire che Masaryk si apprestava a lasciare il paese, pur risultando curioso che abbia avuto l’ingenuità di farlo conoscere in anticipo a Stalin.
La sua morte, dunque, rimane ancora largamente avvolta nel mistero, in attesa che si aprano, chissà mai quando, gli archivi segreti cecoslovacchi e sovietici. Quel che è certo, è che Masaryk, in ogni caso, fu una vittima. Senza la fine della democrazia cecoslovacca, non vi sarebbe stata la sua fine oscura e terribile.
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I comitati armati danno il potere a Gottwald
Nelle elezioni del 1946 il PC cecoslovacco ottiene il 38% dei voti. Per questo motivo Gottwald viene incaricato di formare il governo, che comprende, oltre ai comunisti, anche i socialdemocratici e i rappresentanti dei partiti borghesi, cioè socialisti-nazionali e populisti. I comunisti nominano il primo ministro e hanno la maggioranza relativa dei dicasteri. La coabitazione non è facile. Nel febbraio 1948, poi, la situazione si radicalizza su due problemi: le nazionalizzazioni, che il leader sindacale Zapatocky vorrebbe ampliare e la penetrazione comunista nella polizia. Inutilmente i rappresentanti dei partiti borghesi chiedono a Gottwald soddisfazione; questi rifiuta, praticamente, obbligandoli alle dimissioni. Socialnazionali e populisti (li guidano il ministro della giustizia, Drtina, e monsignor Hala) giudicano, tuttavia che tutto non sia perduto. Sperano che Gottwald, che alcuni dipingono come un moderato, alla lunga faccia marcia indietro e che il presidente della Repubblica Beneš e i socialdemocratici li appoggino. È un errore, in primo luogo perché Gottwald non è solo, dietro di lui vi sono i duri del partito con il ministro degli interni, Nosek, e il vice-ministro degli esteri sovietico, Zorin, giunto a Praga quale inviato di Stalin. Quanto a Beneš e ai socialdemocratici non hanno la possibilità, né la volontà di resistere. Così quando Gottwald scatena per le strade la milizia popolare, che si dà a purghe, ad arresti indiscriminati, i socialdemocratici, con il loro leader, Lausman, si chiudono nel gioco dell’attesa, e Beneš, dopo una parvenza di resistenza, sanziona il colpo di Stato firmando la lista del nuovo governo dominato dai comunisti, salvo alcune poltrone riservate ai dissidenti degli altri partiti.
Il 28 febbraio a Praga, Gottwald passa in rivista 15.000 componenti della milizia popolare e i reparti della Sicurezza, ringraziandoli per l’aiuto prestato nella lotta contro i “nemici” interni.
Per la democrazia cecoslovacca è ormai la fine.
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Sabato 13 Giugno,2009 Ore: 18:30 |