Riflessione
Le parole e le cose

di Giulio Vittorangeli

[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per questo intervento]


Per decenni ci hanno bombardato con la crisi delle ideologie, poi - rimasti ormai senza piu’ nessuna ideologia - si sono fregati le parole. O meglio, hanno appiccicato alcune parole sulle ideologie loro. Cosi’ le parole che abbiamo ricevuto in eredita’ dal Novecento (guerra, stato, lavoro, ecc.) hanno cambiato totalmente il loro significato, diventando "parole valigia" che contengo in se’ tutto e il contrario di tutto.

Precariato e lavoro flessifibile sono le nuove forme dell’occupazione; morire sul lavoro e’ un accidente non lo sfruttamento terminale; le discriminazioni di genere non esistono; il razzismo e’ "la giusta e sacrosanta difesa" verso le invasione dei "nuovi barbari"; la guerra e’ la pace; il controllo dei media e’ l’informazione; l’omologazione omogeneizzata e’ la liberta’ individuale... non ne possiamo piu’.

Non c’e’ spazio per i fatti, ma solo per la loro rappresentazione; il livello di menzogna che e’ una delle principali caratteristiche del nostro attuale modo di vita e’ cosi’ cresciuto che e’ vicino il momento in cui sara’ difficile o impossibile discernere tra la menzogna e la verita’, seguito dal momento in cui la menzogna sara’ creduta come verita’.

Emblematica, in questo senso, la vicenda dei rom, con i quali questo paese ha sempre convissuto attraverso un sistema di relazioni fondato sulla realta’ di scambi che di volta in volta ti mettevano in contatto con commercianti di cavalli, fabbri, indovini, mendicanti, giostrai, artigiani e maniscalchi. Ora, tutte queste figure sono precipitate nello stereotipo del diverso e del delinquente, identificato non piu’ nella materialita’ e nella concretezza dei rapporti diretti ma nei segni del corpo, nei simboli che si addensano sui suoi vestiti, sui suoi monili, sui suoi modi di vivere.

E lo sradicamento sociale diventa fatto criminale. Per cui su un dato reale - il fastidio, l’insofferenza e la paura suscitate dal confronto quotidiano con la microcriminalita’ - si e’ innestato un armamentario propagandistico (appunto le "parole valigia") che enfatizza gli stereotipi, rifiuta ogni argomentazione che non sia un randello da calare sulla testa delle opinioni diverse.

Lo stesso meccanismo fa si’ che i miliardi spesi per la guerra - che ci dissangueranno per i prossimi decenni - per i nostri bellissimi carri armati, per le nostre belle navi con tanto di missili, aerei e siluri, per l’addestramento efficiente per i 10.000 soldati impegnati per le missioni all’estero, sono spesi ufficialmente per la pace.

Per non parlare del lavoro, dove le famose trasformazioni del capitalismo hanno posto fine allo sfruttamento, secondo quando sostengono gli autorevoli rappresentanti della teologia universale capitalista. Quelli che, secondo una felice definizione di Riccardo Petrella, hanno fatto del capitale (il Padre), dell’impresa privata (il Figlio) e del mercato (lo Spirito Santo), i soggetti fondatori del potere nell’economia delle societa’ contemporanee. Per cui il solo valore che conta e’ la creazione di ricchezza, cioe’ piu’ capitale, per i detentori di capitale. Salvo poi, davanti alla devastante crisi attuale che ha attaccato uno dei suoi organi vitali, la finanza, chiedere l’intervento del tanto disprezzato Stato.

Non facciamoci pero’ illusioni, perche’ questa crisi finanziaria che autonomamente si moltiplica e ricade sull’economia reale, non produce il fallimento del capitalismo, ma piuttosto riduce ulteriormente la democrazia e la liberta’. E’ la storia nota del neoliberismo, meglio: della globalizzazione capitalista, che ha visto nell’industria culturale e in molti economisti dei sostenitori accaniti.

Ha scritto Mario Tronti: "Che fare con lo sfruttamento del lavoro? Ce lo teniamo, nascondendolo come la polvere sotto il tappeto delle buone maniere, o ricominciamo a denunciarlo, dimostrando che e’ questo che riunifica oggettivamente, materialmente, la forma attuale del lavoro in frantumi? O non e’ vero che la figura sociale di sfruttato accomuna adesso l’operaio della grande fabbrica, il lavoratore della piccola azienda di servizi, il giovane precario del call center, la ragazza laureata che fa la baby sitter, la maestra o la professoressa pendolare in attesa di stabilizzazione, l’occupato a rischio vita nelle mille ditte appaltatrici, l’immigrato aiutomanovale del muratore, il tecnico ricercatore a tempo e il docente contrattista scandalosamente sottopagato, o addirittura non pagato, fino all’autonomo con partita Iva, che ha, rispetto agli altri, il privilegio di sfruttare se stesso? E si potrebbe continuare a lungo".

Questa e’ la realta’. Da qui l’urgenza di tornare ai fatti, di ristabilire il primato della realta’ sulla finzione, smettendola di fare i mascalzoni con le parole. Perche’ le parole sono pietre e il linguaggio non e’ neutrale.



Venerd́, 14 novembre 2008