Spazio aperto
Non è un racconto di fantasia

di Giovanni Carbone

Era un giorno dei primi d’agosto del 2000. Nella sala d’attesa erano in tanti ad aspettare il proprio turno. La porta d’ingresso era aperta per creare un’incerta corrente d’aria. Il titolare dello studio medico era assente per il periodo di vacanza estiva. La sostituta dottoressa vestiva larghi pantaloni e camicia di garza turchese, anche i suoi occhi erano celesti incastonati in un abbronzato volto rincuorante e coperto da una composta chioma bionda.
“Educatore presso un Centro di Giustizia Minorile? Un’interessante attività!” “Potrebbe! Svolta all’interno di un’Istituzione non interattiva con le altre disseminate sul territorio, la funzione educativa si manifesta improduttiva. L’Istituzione a servizio dell’utente, a mio avviso, è un’espressione populistica. Più reale è sostenere che, non importa quale, le Istituzioni pensano a se stesse, si comportano come caste spesso inaccessibili. Esse conservano il potere e sempre più spesso delegano le proprie funzioni ai privati. Uno specchio più si frantuma e meno riflette le immagini regolari. Mi sento più utile nella missione da me condotta in un paese dell’Africa Occidentale”. “Ho intenzione di aderire al suo progetto. Sono interessata a adottare un bambino sostenuto dalla sua associazione”.
A metà dicembre, prossimo a partire per il Togo, ritornai dalla dottoressa per avere conferma della sua spontanea intenzione di sostenere un bambino a distanza. Mi rassicurò e m’invitò a farle visita al mio rientro. All’inizio di febbraio del 2001 le portai le foto della bambina e una sua lettera. La cardiologa fu contenta di poterle mostrare ai suoi figli che da quel giorno potevano dire di avere una sorellina lontano.
Il pomeriggio di sabato 17 marzo feci visita a mia madre. Mi confessò di essere infastidita da una dissenteria almeno da quindici giorni, che le cure ricevute non emergevano soddisfacenti e neanche i suoi antichi rimedi davano segni di guarigione. Tanto mi raccontava con un fare insolito quasi sfuggente e alquanto misterioso. Mi misi in contatto con le mie sorelle: “Mamma, con l’età, desidera essere un po’ più in vista, ha bisogno di qualche coccola in più. Pensa! Proprio in questi giorni ha selezionato delle sue foto per noi con la raccomandazione di duplicarle per tutti i figli”. Questa fu la loro impressione.
Del 1914, vedova dall’ottantadue, mia madre raramente era stata malata, forse d’influenza. Di dieci gravidanze ne portò avanti sette. In possesso dell’elementare titolo di studio, fu una convinta e fiera casalinga. Amò la famiglia come non meglio. Investì le sue energie sui figli, rispettosa in ogni caso delle scelte e della loro personalità. Il focolare fu il suo laboratorio. Era felice di preparare manicaretti d’ogni sorta per ciascun palato.
Nel mondo animale il compito principale dei genitori è dare cibo alla propria prole. Il cibo è vita. Maestra in cucina, lei ci ha pure insegnato con proprietà ad essere puliti decenti degni. Ci ha insegnato ad essere riguardosi corretti giusti. Era presente in ogni occasione e rappresentava per noi un valido punto di riferimento. Noi suoi figli siamo stati orgogliosi di non aver vissuto periodi della nostra infanzia con figure sostitutive a quella genitoriale. Non abbiamo avuto balie né nonni morbosi e plagianti, bisognosi dell’affetto dei nipoti. Abbiamo avuto un padre e una madre, grazie a Dio, certamente non santi, ed uniti regolarmente tra gli alti e bassi del quotidiano.
Non s’immagini però la nostra famiglia come un nucleo chiuso agli altri. La porta di casa era aperta a tutti. La tavola imbandita contava sempre qualche coperto in più. Dalle scale era possibile capire l’appetitoso intingolo da consumare per l’occasione insieme. In casa si respirava aria rassicurante e benevolo calore. La famiglia ha cominciato a vacillare, a sfaldarsi con l’arrivo della consumistica cultura dominante sessantottina già inquinata ed inquinante e l’inevitabile ingresso di parenti acquisiti. Parenti, serpenti!
Il lunedì, 19 marzo, mia madre, com’era suo solito fare in ogni ricorrenza, impastò l’ultima pizza piena per mio fratello Giuseppe che festeggiava il suo onomastico. Invitò suo figlio Gaetano a ritirarla e portarla a casa del padre. Gaetano aprì la pizza appena lì giunto intorno alle otto di sera.
Erano pronti per la cena, quando arrivò la telefonata di Nadia allarmata in seguito alla caduta di mia madre. L’ucraina aveva già avvisato le mie sorelle residenti a poca distanza. I miei cognati medici, accorsi tempestivamente, decisero per l’immediato ricovero. Mia madre Assunta restò sulla barella per l’intera notte nel reparto di rianimazione del Cardarelli. Il mattino seguente, appena le sette e qualcosa, accorsi al suo capezzale. Le era vicina Nadia che profittò della mia presenza per andare a riposare.
In certi momenti noi poveri uomini, falsi onnipotenti, siamo obbligati a riconoscere la nostra totale impotenza. Chissà se aveva l’interruttore della percezione spento mia madre! Aveva gli occhi chiusi e sembrava dormire. Due giorni dopo fu sistemata in una stanza a due. L’altra paziente era una donna di Monte di Procida garbatamente seguita da sua figlia.
Continuai ad esserle vicino di mattina. Davo il cambio a Nadia nell’attesa dell’arrivo di qualche mia sorella. Antonella, la figlia della signora accanto, mi suggeriva di restare fuori. Affermava d’essere disponibile a prestarsi per le necessarie attenzioni nei riguardi di entrambe. Forse s’accorgeva del mio imbarazzo e smarrimento.
Il primario del reparto era stato il cardiologo di fiducia di mia madre per molti anni. Un tipo accorto e severo. Nel reparto si poteva entrare dall’una alle tre del pomeriggio e dalle sei alle sette della sera. Di mattina i ricoverati potevano avvalersi della presenza di un sol familiare.
Quel sabato mattina ero più nervoso del solito. Desideravo sapere di quali sofferenze pativa mia madre da oramai cinque giorni. Vi erano stati diversi consulti. Le cure erano appropriate ed anche l’assistenza garantita. Avevo bisogno di sapere qualcosa aldilà della circostanza. Quel sabato mattina mi convinsi a chiamare la cardiologa, tutrice di una bambina del Togo. “Dottoressa si ricorda di me? Mio tramite Lei ha adottato a distanza”. “Certamente, diamoci del tu, mi chiamo Irma”. Le raccontai qualcosa. La dottoressa non si lasciò pregare. Mi raggiunse in ospedale intorno alle dieci, proveniente da casa, sita al centro di Napoli.
Il primario vietò l’ingresso di chicchessia perché era nelle corsie per ispezione. Irma poté leggere la cartella clinica di mia madre nella sala del caporeparto. Mi confidò le stesse cose fin allora note circa lo stato di salute di mia madre, colpita da embolia. Non attese il primario. Andò via promettendomi di soddisfare la mia richiesta nella serata. Intanto mia sorella, quella residente ai Colli Albani ed a Napoli per la contingenza, mi dette il cambio, non prima di avermi raccontato il sogno, forse premonitore, fatto dal figlio piuttosto sensibile. Aveva sognato la nonna che tagliava per tanta gente una gran torta ad una festa di famiglia.
Di sera puntuale mi telefonò la dottoressa. Si era rivolta a sua sorella che mi avvertiva di stare tranquillo. Non capii il motivo che la spinse a consultare la sorella né l’approccio m’interessò più di tanto. Mi richiamò il lunedì sera per annunciarmi che il messaggio era fin troppo chiaro. La sorella era capace della scrittura automatica. A suo dire mia madre, circondata almeno da tre anime da una ventina di giorni, non poteva trapassare. Prima doveva realizzarsi una sua grazia in cielo accolta: vedere l’intera famiglia unita e serena. Le stesse anime, una certamente sua madre, per rasserenarla perché terrorizzata dal trapasso, le avrebbero indicato il luogo di sua destinazione: l’arco del sole, una dimensione molto prossima al Supremo. La sua insopportabile sofferenza era di essere costretta a rimanere legata al corpo contro la sua volontà di raggiungere l’altro mondo. Io, scelto come gancio, avevo il compito d’informare i familiari del messaggio e prepararli di conseguenza.
“Giovanni, non conosciamo tua madre, ma molto probabilmente lei sarà stata davvero generosa e giusta in vita e fiduciosa dell’esistenza di un Creatore. Tua madre sapeva cosa l’aspettava a breve. A prova di tanto troverai un qualcosa a casa che autenticherà questo messaggio”. Fu la conclusione della telefonata intercorsa tra Irma e me.
Credere o non credere? Era comodo fidarsi o stupido non prestar fede o che? In ogni caso mi sentii in breve più rilassato e anche più deciso. Finalmente si era accesa qualche lampadina. Finalmente un po’ di luce!
I miei vicini di casa tutti i giorni s’interessavano del caso. Quel lunedì sera rimasero stupiti a sapere delle condizioni stazionarie di madre e notare il mio evidente cambiamento in meglio. Ero preso da tante faccende che svolgevo accompagnato da un’allegra musica di sottofondo. Rincasarono pressoché preoccupati per me, mentre io andai a letto poco dopo sicuro di dormire bene. Di fatto mi svegliai a seguito di una sorta d’incubo intorno alle due di notte, ma ripresi a dormire presto fino al canto del gallo.
L’indomani mattina mi presentai in reparto con aria diversa. Nadia, prima di andare via, mi raccontò che intorno alle due di notte nonna Assunta era proprio come venuta meno. Spaventata, voleva chiamare tutti i figli. Antonella glielo aveva impedito. “E’ vero signor Giovanni. L’ho bloccata perché, deve sapere, io sono un po’ veggente e so che ancora non è il momento per sua madre. Devono ancora succedere alcuni fatti. Signor Giovanni sua madre è bene accompagnata. Vedo intorno a lei alcune anime pronte ad accoglierla convenientemente nell’aldilà”. Rabbrividii come non mai. Non persi tempo. Mi recai a casa delle mie sorelle. A loro esposi pedissequamente il mio recente vissuto, pregandole di adottare il passaparola. Poi corsi a casa di mia madre. Mi aprì Nadia appena svegliatasi. Erano intorno all’una e mezza.
Trafugai un po’ dappertutto in ciascuna stanza in cerca della prova a conferma del messaggio. Trovai la tenuta che mia madre aveva preparata in caso di suo decesso. Non era quella la prova. Convinto la recapitai a mia sorella che si preparava a trascorrere il pomeriggio in ospedale. Rimase sconcertata a vedere quei panni. “Nel caso saremo tutti uniti e sereni, anche questa sera mamma potrebbe partire per il viaggio senza ritorno. Questa sera ci sarò anch’io speranzoso che quanto prevedo accada perché metta fine alle sue sofferenze terrene”, tenni a dirle. Sconvolta ma sempre più capacitata, mia sorella cercò le cassette registrate da mia madre per fargliele ascoltare. Nonna Assunta amava cantare le canzoni napoletane con giusto ritmo, voce e intonazione. Poi mia sorella si avviò meno depressa e più luminosa alla volta dell’ospedale.
Intorno alle sei pomeridiane noi figli ci ritrovammo nell’ingresso del reparto. Ci scrutammo gli uni con altri con lo scopo di esaminare la nostra serenità. Il trillo di un cellulare segnalò la telefonata di mio cognato che c’invitò a salire sopra per l’ultimo saluto da rivolgere a nonna Assunta pronta per essere portata all’obitorio. Qui mia sorella e mio cognato, a lei vicini nel pomeriggio, raccontarono che in quell’arco di tempo mia madre ascoltò le sue cassette attraverso l’auricolare. Poi d’improvviso s’issò al centro del letto come per miracolo, si girò intorno, versò una lagrima, fissò mia sorella e poi si accasciò.
Carico d’emozioni le più disparate feci ritorno a casa. In treno immaginai dei versi da dedicare alla donna che fu. I vicini di casa avvertirono il mio rientro. Mi bussarono per sapere. Ero veramente sereno. Dico di più: forse intimamente contento per l’insieme della vicenda. Avevo il televisore acceso ed anche il computer per scrivere i versi concepiti. “Mia madre è deceduta” dissi a loro. Lina e il marito si guardarono negli occhi esterrefatti. Pensarono che fossi stravolto per il troppo dolore. I versi vagheggiati in treno scomparvero dalla mia mente, come cancellati da un colpo di spugna. Allora lasciai il mio cuore come un cavallo a briglie sciolte.

Salve Mamma Regina,
il tuo regno è stato la cucina: graffe, pastiere, pizze piene,
castagne con fagioli, ricotta dorata e fritta, gateau di patate,
mille altri intingoli, da soddisfare ogni palato.
Chi non ha assaggiato il tuo limoncello?
Hai preparato da mangiare a tutti quelli che ti erano vicino.
Il cibo è vita. Tu hai trasmesso vitalità a grandi e piccoli, a snob e semplici.
Ti sei sacrificata per dare amore!
Io ti ho amata, e ti confesso che ti ho, per brevi e - per fortuna -
rari momenti, odiata. Ma sono fatto di carne e d’ossa.
Su questa terra c’è, in tutte le cose, il più e il meno, il bianco e il nero.
Così che l’amore assoluto è impossibile da professare.
Mamma, hai lasciato un vuoto in me, in tutti. Resta il tuo insegnamento:
Amare incondizionatamente e ad ogni occasione.
Oggi voglio riscattare i miei torti con la preghiera,
con la promessa di amarti nella maniera più autentica possibile.
Mamma ti dedico l’iniziativa da me già adottata
da qualche tempo, relativa al progetto “30 bambini da scolarizzare”
in un villaggio dell’Africa centro occidentale.
Da te mi aspetto la forza per sostenerla.
Vorrò riuscirci per starti vicino nel mondo della beatitudine
per la vita eterna. Amen. Tuo figlio Gianni. Mar. 29 marzo 2001

L’indomani mattina ritornai in obitorio dove, oltre all’intera mia famiglia c’erano anche parenti ed amici. Ero appena stato in Chiesa a programmare con il parroco la funzione funebre per il giovedì mattino. Partecipai l’iniziativa ai miei fratelli. Proposi poi ad un mio nipote, abbastanza riservato, di accompagnarmi di soppiatto a Castelvolturno. Lì avevo svolto per diverso tempo attività di volontariato. Conoscevo perciò molti ghanesi.
Richard era stato a Qualiano per qualche anno. Poi decise di ritornare in patria. Dopo circa un anno m’invitò a fargli visita. Mi organizzai e di lì a pochi mesi partii alla volta del Ghana. Richard viveva ad Accra in compagnia della sua nuova compagna e la loro figlia di qualche mese. Durante la mia vacanza morì un parente stretto di Richard. Volle che partecipassi al funerale. Ne fui sorpreso. Giungemmo in un ristorante. Ero sbigottito. Era possibile cantare, ballare, mangiare, bere. Una vera festa. Chiesi spiegazioni: i parenti del defunto festeggiano l’anima che va a miglior vita. Superato lo choc, condivisi il loro uso.
A Castelvolturno reclutai 4 percussionisti ghanesi in possesso dei tamburi originali africani lunghi ed affusolati, bravi a cantare brani per l’occorrenza. Mio nipote mi riportò a Napoli. Nel Borgo di S. Antonio comprai una bacheca che custodiva in ogni quadrato ceci, fagioli, tipi di pasta, riso, semi vari, un’altra conteneva in miniatura pentole e stoviglie. Acquistai qualche fascio di grano secco a simbolo delle pastiere, la leccornia di nonna Assunta, e tanti cioccolatini da riempire almeno 4 medi vassoi. A casa ebbi il tempo di prepararmi per il giorno dopo e … confortare i miei vicini sempre più meravigliati.
Il giovedì mattino raggiunsi con la mia macchina Castelvolturno. Caricai i tamburi ed anche i ghanesi. Giunsi nella Chiesa del Vomero Alto almeno tre quarti d’ora prima della cerimonia funebre. Perfezionai la funzione con il parroco complice. Intanto i ghanesi si esercitavano. I primi arrivati pensavano di aver sbagliato Chiesa di fronte allo spettacolo insolito. Poi vedendo me si rassicuravano e perplessi si accomodavano. Tutti erano all’oscuro di quest’atipico rito. Io ben vestito shampato e profumato imbracciavo la cinepresa attiva. La maggioranza rifiutò i cioccolatini durante l’offertorio. Sonori erano i ritmati canti degli africani. Il parroco recitò una breve omelia e dette il via alla lettura dei miei versi. I più pensavano che la mia fosse una forma d’esaltazione dovuta al troppo dolore. Finita la… festa certo molto apprezzata e desiderata dall’anima di mia madre, il corteo si sciolse tra lo sbalordimento dei presenti. La casa di mia madre fu in seguito modificata per essere adattata alle esigenze della famiglia di mio fratello che ne prendeva possesso. Tra alcune lenzuola fu trovata la lettera che mia madre aveva scritto per i figli prima del suo ricovero. Provava il suo presentimento ad essere prossima al viaggio di solo andata. Giovanni Carbone 08 dic. ’07


Giovanni Carbone
Torre del Greco(NA)



Lunedì, 10 dicembre 2007