Il relativismo e la mondializzazione.

di Rosario Amico Roxas

L’insediamento alla Presidenza della camera dell’on Fini ha evidenziato l’ aspetto del politico, chiamato a sostenere valori di circostanza pur senza rinunciare alla propria identità e accettando per buone le contraddizioni del suo raggruppamento che condizionano pesantemente quei tanto vantati “valori non trattabili”.

Tutte le affermazioni paciose, concilianti, buoniste, rientrano nel copione prevedibile; si tratta di quelle affermazioni che gli analisti politici, quelli pronti a sostenere e confortare il vincitore, hanno preferito evidenziare.

-         Pacificazione (ma chi ha portato avanti lo scontro ?),

-         dialogo (ma chi ha sostenuto che, disponendo di una vasta maggioranza, non serve alcuna forma di dialogo ?),

-         solidarietà (ma chi continua a minacciare il ricorso ai fantomatici 300.000 fucili ?),

-         onore alla bandiera  (ma  chi  lo  ha rintuzzato sostenendo  di  avere  già  un’altra  bandiera che non è il tricolore ?),

questi i temi elargiti dallo scranno più alto della camera.

Ma queste contraddizioni appaiono troppo evidenti per farne motivo di riscontro; l’aspetto che mi pare più significativo è il riferimento al relativismo, inglobando insieme quello etico e quello culturale, pretendendo di identificarli in una sorta di anarchia senza doveri, con diritti pretesi senza corrispettivi. Un relativismo identificato come il male del secolo che impedirebbe la consacrazione dei valori cristiani come i soli meritevoli di universalità.

Leggo nel suo curriculum che ha fatto studi di psicologia, quindi anche di psicologia sociale, sociologia, antropologia, per cui mi meravigliano  molto  le sue affermazioni, che diventano politiche, lontanissimo dall’essere scientifiche.

La sociologia e l’antropologia, per entrare nel novero delle scienze possibili, hanno fatto del relativismo la prova di rigore scientifico; relativismo inteso nel vero senso della parola e non in quello alterato da motivazioni politiche. Il relativismo, lungi dall’essere una proposta politica e/o sociale, è un metodo di approccio alla realtà, che consente al ricercatore di analizzare le diverse culture scevro di valori precostruiti, in modo da potere esprimere una analisi obiettiva, è l’approccio ad altre culture innanzitutto per conoscerle. La valutazione di merito è il momento successivo, quando si verifica che talune consuetudini stridono con il senso comune e impediscono l’integrazione e l’assimilazione con altre culture.

La globalizzazione, che sarebbe più corretto in questo caso chiamare “mondializzazione” ha ristretto i confini del pianeta e posto in essere una dinamica di incontro incontrollata e incontrollabile, foriera più di scontri che di incontri se non affrontata con metodi scientifici e non politico-polupisti.

Il relativismo coincide con la democrazia, con il rispetto degli altri, esclude la prepotenza del più forte che vuole imporre il proprio modello di vita, di cultura e, adesso, anche di religione, come se le esperienze del resto del mondo fossero solo delle manifestazioni antropologiche non inserite profondamente nella cultura. Mettere poi insieme in un discorso pseudo scientifica il relativismo etico e il relativismo culturale rappresenta un errore scientifico di impostazione; si tratta di due campi di esplorazione assolutamente staccati l’uno dall’altro che non possono avere un trait-d’union solo nella critica che vuole imporre (o esportare) un certo modello.

Il relativismo è dentro la mentalità occidentale, perché  ritiene superiore i propri modelli culturali superiori a quelli degli altri, per cui non avviene una analisi corretta, ma un rifiuto a-priori con annessa valutazione negativa. Ma all’interno del suo sistema, e qui devo fare riferimento proprio all’intervento di Fini nell’insediamento alla presidenza della camera,  è proprio il relativismo che la fa da padrone, specialmente quando l’ipotesi relativista si scontra  con l’individualismo libertario.

Così i valori non trattabili vengono identificati come momenti di certezza raggiunta che diventa sistema imposto.



Relativismo etico: i valori non trattabili



  • Il valore della famiglia viene inteso come valore non trattabile, sancito nel matrimonio e codificato nella sua indissolubilità, ma si accetta il relativismo quando gli stessi propugnatori di tali valori risultano essere colori i quali della propria famiglia hanno fatto scempio.
  • La sacralità della vita, dal concepimento alla sua fine naturale è un altro valore non trattabile, tranne a tacere, nel meschino tentativo di nasconderlo, che il più visibile propugnatore di tale valore ha fatto abortire la moglie alla 28° settimana, perché, come ha dichiarato la stessa signora, il bambino non sarebbe stato sano, ragione per la quale ha preferito lasciare “libertà di coscienza” per non cadere nelle più plateali delle smentite; quindi il valore non trattabile ha dei margini di trattativa quando riguarda l’individualismo egoistico.


Relativismo antropologico-culturale



In questo campo accoglienza alle eccezioni si fa molto più insistente, anche perché non si tratta di valori non trattabili da esibire, per dimostrare un neo-nato spiritualismo politico, utile a cattivarsi consensi nei momenti di necessità.

La cultura rappresenta l’identità di un popolo, con la sua lingua, i suoi costumi, la sua religione; è omogenea quando si analizza il medesimo popolo identificato in una nazione o anche in una etnia.

Analoga cultura e, quindi analoghi norme comportamentali, analoghe leggi, parità di diritti e doveri uguali per tutti.

Ma quando si comincia a fare dei distinguo all’interno del medesimo gruppo e della medesima cultura, ecco che si cade in quel relativismo che si vorrebbe contrastare.

  • Relativismo fiscale, quando una regione, sia pure temporaneamente e per motivi contingenti, si ritrova ad essere più produttiva di altre e pretende una sorta di isolazionismo che protegge la sua produzione, i suoi utili, il suo benessere, sottraendosi alla mutualità della quale nei periodi di magra hanno usufruito.
  • Relativismo giudiziario, quando si propugna la “tolleranza zero” per taluni reati, sia pure nefasti, e tolleranza massima per altri reati che colpiscono l’intera nazione con sottrazione di pubblico denaro, con privilegi ingiustificati, con perdoni giudiziari che sottraggono i responsabili alla giusta pena,  con condoni che regolarizzano per legge comportamenti che hanno oltraggiato la legge.
  • Relativismo lavorativo quando si nega il diritto al lavoro e alle sicurezze che il lavoro porta con sé in nome e per conto di precarietà senza garanzie che sottraggono i più deboli dalle difese della legge per scagliarli nel torrente tumultuoso dei più ignobili ricatti, per cui devono accettare quanto non basta per vivere per non rimanere totalmente privi di sostegno.
  • Relativismo sanitario, quando la gran parte di una nazione si vede costretta a lungaggini burocratiche per accertamenti salva-vita, non trovandosi nella condizione economica di pagare gli stessi accertamenti presso strutture speculative e private.
  • Relativismo istruttivo, quando non c’è parità ed equilibrio fra giovani egualmente dotati intellettualmente ma provenienti da famiglie economicamente diverse, per cui l’istruzione migliore spetta a chi può permettersi costi stellari, mentre altre intelligenze, spesso più brillanti devono sacrificare le loro potenzialità alla logica del possesso.

Annotazioni critiche



E’ diventata una moda rifiutare il relativismo, indicarlo come “il male assoluto”, metterlo all’indice per presupposte alterazioni al predominio della ragione. Ma nello stesso tempo viene usato il medesimo relativismo per elaborare le teorie anti-relativismo.
Non è un paradosso, bensì la realtà nella quale viviamo, anche se troppo distrattamente.
Il “relativismo” iniziò il suo itinerario ai tempi di Pericle, quando si sviluppò una nuova aristocrazia, quella dei mercanti, degli artigiani, degli usurai, cioè l’aristocrazia del denaro e del potere che il denaro porta con sé; fu la nuova aristocrazia che si sostituì alla precedente basata sulla proprietà terriera e, quindi, sull’economia del lavoro, per spostare l’interesse sull’economia delle capacità intellettuali dell’uomo. Il sistema democratico, che fu il primo della storia dell’uomo, divenne demagogia, dove veniva privilegiata la ricerca del piacere, del lusso, dell’edonismo e anche della cultura, ma non come conoscenza, bensì come mezzo per aggiungere al potere del denaro anche il prestigio della cultura.
Questa nuova prospettiva formò il terreno di coltura dei sofisti, abili parlatori che sostenevano la causa dei più forti, intesi come i più potenti.
Iniziò l’analisi circa la valutazione di ciò che è giusto, che avrebbe dovuto sostituire ciò che veniva indicato dalle leggi dello Stato con ciò che veniva universalmente accettato come legge di natura.
Il primo passo lo segnò Protagora, affermando: “L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono", dando inizio alla elaborazione di un quesito che dura da secoli: “La realtà è costituita dell’ ”essere” o dal “divenire” ?”
Le implicazioni divennero enormi, perché entrò in discussione la staticità della realtà o il suo sviluppo; nel secondo caso chi avrebbe dovuto e potuto interpretare “il giusto” nel tipo di evoluzione da sviluppare ?
Così il quesito si spostò sulla ricerca di un principio di validità universale:
Per natura è giusto ciò che piace”, ma questa affermazione scatenava l’individualismo e promuoveva l’affermazione “homo homini lupus”, trasformando la società in una grande giungla dove ogni individuo avrebbe cercato la propria affermazione.
Così l’affermazione d venne “E’ giusto ciò che piace al più forte”; ma cosa avrebbe identificato “il più forte” ? Giunse il chiarimento: “il più forte è colui che sa usare meglio la parola”, intesa come elemento di comunicazione.
A questo punto emerge plateale l’analogia con i nostri tempi, e l’emergere di un nuovo Gorgia.
Ci hanno regalato la democrazia, che è diventata demagogia, sostenuta dall’apparenza delle parole, mentre l’uso del linguaggio per comunicare è diventato monopolio dei detentori dei mezzi di comunicazione di massa, che riescono a farsi sentire, effettuando un costante lavaggio del cervello che arriva anche al convincimento subliminale.
- Anche i rapporti con lo Stato e le sue leggi subiscono una modificazione secondo l’indirizzo suggerito dal relativismo sofista: “Per prudenza e utilità bisogna rispettare la legge ma trasgredirla solo se conviene e modificarla quando si ha la forza per farlo.”
· Mi pare superfluo sottolineare le analogia con i nostri ultimissimi tempi, specialmente a fronte della visione della vita: “Di fronte al dramma della vita l’unica consolazione è la parola, che acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l’apparenza. La parola crea un mondo di sogno dov’è bello vivere.”(Le due citazioni sono recuperate da Gorgia: Sul non-essere e sulla natura”).
Così la verità assoluta non esiste, emergendo un relativismo che investe tutto lo scibile; per contrastare tale relativismo non resta che utilizzare il medesimo relativismo per affermare ciò che le parole sostengono e le apparenze dimostrano.
Basterebbe solo saper distinguere il relativismo etico dal relativismo culturale per dare spazio alla dialettica del divenire, che può essere unificabile solo nel profilo etico, universale e valido per tutti, escludendo ogni pretesa di primato per razza, religione, o cultura.

Rosario Amico Roxas



Lunedì, 05 maggio 2008