Spazio aperto
Qual è il destino dell’anima?

di Gloria Capuano

Dialogo immaginario con Vito Mancuso


Non è certo una recensione, ci vuol altro per il libro “L’anima e il suo destino” del teologo Mancuso, così ponderoso e denso di citazioni. E neppure c’è da chiedersi quali gli elettivi destinatari. Se è vero che il lettore non addetto ai lavori si potrebbe già bloccare alla dizione “natura-physis” oppure al termine “logos”, è anche vero che il libro non può essere precluso a nessuno o quasi perché a tutti o quasi sta a cuore o  interessa o incuriosisce il destino dell’anima. Tuttavia l’A. precisa che vede sua prescelta interlocutrice la coscienza laica, anche se poi il suo vivace spirito critico si appunta sull’apparato della Chiesa Cristiana Cattolica.

Ciò detto, avendo letto il testo una sola volta le mie oltre che opinioni sono spesso soprattutto  impressioni, espresse a briglia sciolta per l’appunto in una sorta di dialogo immaginario, in perfetta solitudine.

Uno dei tanti pregi del lavoro è quello di dichiarare a chiare lettere tutto quello che molta gente da tempo pensa della religione Cristiana Cattolica se non anche di tutte le altre religioni. Si tratta della demolizione di gran parte dell’impalcatura dogmatica e delle rappresentazioni rituali di una Chiesa ora implicitamente ora dichiaratamente dall’A. ben distinta dalla vera essenza religiosa che per lui poco o nulla potrebbe differire da una giusta coscienza laica, quella tesa alla verità e alla giustizia.

Questo perché secondo l’A. il creato è naturalmente proiettato al giusto e al bene così che secondo tale ottica in alcun modo inciderebbero le convinzioni personali sull’origine della vita, dell’intero universo e sull’esistenza di un Dio. Per spiegare questo concetto Egli compie una sintesi fisica e spirituale della realtà in virtù della quale opera una netta distinzione tra la “natura” da noi genericamente intesa come l’ambiente che ci circonda e la “natura-physis”,  cioè la natura dell’Ordine superiore che regola l’Universo con fondante riferimento al concetto scientifico di Energia, considerata motore dell’intero Creato  così voluto e realizzato da Dio.

Tutto dunque è energia il creato è energia e da ciò discende la contrapposizione tra una Chiesa che considera la natura come una compiutezza da difendere e la teologia del Mancuso che considera la realtà un continuo divenire proprio per il surplus di energia da impiegare in un ininterrotto lavorio teso alla perfezione divina. Da questa impostazione categorica egli rimette in discussione coraggiosamente i capisaldi del Cristianesimo ancorati a invecchiati e statici precetti, dal peccato originale perfino alla funzione -se così è possibile dire- di Dio.

Dio assume una valenza superiore impersonale che guarda all’Universo e non al nostro piccolo mondo. Non avrebbe bisogno d’intermediari che siano essi Santi o la stessa Madonna e finanche (se ho capito bene) il Cristo, in veste di presunto trionfatore sulla morte.

E’ evidente che tutto questo già creerebbe problemi alla religiosità popolare e li crea ai tanti dell’apparato ecclesiale che si attengono rigidamente e fedelmente, da doverosi osservanti, ai dettami ufficiali quand’anche non condividendoli, sulle orme di Ignazio di Loyola. Ma il Mancuso non solo non se ne fa un problema anzi esce del tutto allo scoperto stigmatizzando l’apparato gerarchico della Chiesa quando mantiene in vita e asseconda la passiva statica credulità popolare.

Alla mia sensibilità è risultato bene accetto il concetto di una configurazione essenziale del rapporto umano con un Dio che supera e di molto il rapporto tradizionale Uomo-Dio, anche se però, questa innovatrice configurazione mi porta a leggere nell’intera economia della logica dell’A. una contraddizione.

Se il Mancuso finalizza il lavorio intenso e ininterrotto che l’uomo dovrebbe compiere su se stesso per raggiungere a sua volta una essenza divina, quella cioè degna del Paradiso, ciò ristabilirebbe il rapporto settoriale privilegiato Uomo-Dio che mi sembra declassare l’assunto del carattere universale della creazione. Carattere peraltro ben precisato dall’A. votato alla perfezione totale dell’universo anche a prezzo di gravi e dolorose penalizzazioni dei singoli. Intendendosi per singoli esclusivamente - così mi è parso - gli abitanti della terra, visto che non si fa cenno di un eventuale prezzo pagato da altri (o da altro) costituenti l’Universo.

Né mi pare coerente giustificare questo spesso dolorosissimo prezzo grazie al dono della libertà concessa agli esseri umani, diventati così titolari del loro destino, in quanto liberi di scegliere tra l’errore e la giustizia.

Ammessa e non concessa eguale per tutti la pienezza del libero arbitrio, allora che cosa rimane della citata impersonalità di un Dio che essendo perfetto non può creare che perfezione, quella che infatti regolerebbe l’armonia complessa presente nell’Universo, se si fa eccezione nel  concedere una totale autonomia agli abitanti della terra? Quale la ragione di questo trasferimento di responsabilità? Perché scrollarsi dalla sua stessa essenza di perfezione nei confronti degli errori dell’uomo (il peccato) e della stessa natura (la crudeltà del creato, le malattie genetiche, le calamità naturali)?

Non c’è una ricaduta antropocentrica che con l’Universo ha poco a che fare? E non si riaffaccia l’umano sospetto di una misteriosa responsabilità divina nei confronti delle sciagure umane, che può suggerire l’idea di una insensibilità inconcepibile riferita a un potere  divino che non può avere limiti.?

La risposta dell’A è quanto mai chiara: Perché Dio avrebbe creato l’uomo molto più che a Sua immagine e somiglianza, tale cioè da essere in grado di raggiungere la Sua stessa perfezione e così guadagnarsi la beatitudine eterna.

Qui entra in gioco il peccato originale quello per il quale l’uomo avrebbe perso la sua originaria perfezione. Ecco perché Dio gli avrebbe concesso il grande dono della libertà, per dargli la possibilità di redimersi e riacquistare la sua essenza divina .

Ma il Mancuso non crede nel peccato originale, crede nell’innocenza umana, solo che egualmente ritiene l’uomo arbitro del destino della sua stessa anima attraverso la giusta utilizzazione della libertà donatagli da Dio.

Torna quindi a spiegare l’A. che non essendo il mondo un’entità statica sviluppando esso energia a iosa da impiegare liberamente per dono privilegiato all’uomo, questi attraverso un intenso lavoro compiuto su se stesso e sulla  realtà che lo circonda, può giungere non solo a evitare gli  errori ma anche a eliminare tante storture naturali e a ristabilire nel pianeta la giustizia, il bene e l’amore per la vita, oggi particolarmente in pericolo.

Lungo la lettura non mi è però riuscito chiaro il passaggio tra la negazione del peccato originale e il dono della libertà che potrebbe essere letto come una grande e dolorosa fatica da affrontare..

Mi sono chiesta perché l’A. non ci abbia illuminati su questa sua teologia spiegandoci la  ragione per la quale avendo già realizzato la perfezione dell’Universo anch’esso però in un continuo divenire, Dio solo agli abitanti della terra abbia delegato il compito di raggiungere con le proprie forze la stessa perfezione già in atto nell’ininterrotto dinamismo dell’Universo (così come sembra essere testimoniato dall’astrofisica.)

Non escludo affatto che questo interrogativo inquietante forse scaturisca  soltanto dai miei limiti.

Una volta responsabilizzata l’umanità è agevole supporre ch’essa debba rendere conto all’Ente  Supremo - identificabile con la perfezione della natura intesa come “natura-phisys” che essendo creata da Dio non può non essere perfetta -  debba rendere conto dell’uso fatto del dono della libertà.  Da qui è sorta la mastodontica ipotesi (o certezza?), di un giudizio universale e quindi di una radicale distinzione e destinazione ultraterrena tra chi avrà  lavorato per la verità e la giustizia e chi avrà ceduto al disordine, cioè al male, quindi al peccato.

A questo punto si entra nel tema della fatica del Mancuso, quello del destino dell’anima.

Il testo ora si circoscrive e impegna a fondo la sua attenzione sul dibattito secolare intorno al Paradiso al Purgatorio e soprattutto all’Inferno, che ha coinvolto non soltanto il Cristianesimo.

Mi preme dichiarare che non condivido affatto l’importanza di tale dibattito se non come narrazione storica, mi pare assai meno interessante, quasi ozioso a fronte della ragion d’essere degli umani. L’A. era tuttavia obbligato a trattarlo proprio dal tema prescelto riguardante il destino dell’anima.

Ma era veramente necessario che riempisse pagine su pagine per riferire e argomentare Lui stesso mediante una copiosissima documentazione storica  i fiumi di energie intellettuali spese sull’argomento? In sostanza poi per arrivare a concepire il Paradiso una condizione di beatitudine di cui godrebbero i giusti, atemporale, senza alcuna collocazione spaziale, come sarebbe stato ovvio supporre trattandosi dell’elevazione dell’essere umano allo stesso livello di Dio quale Principio Ordinatore dell’Universo quindi senza un inizio né una fine né destinazione circoscritta di sorta?

Forse l’A. era tenuto a farlo, ripeto, perché questo era il materiale teologico assai controverso che gli s’imponeva circa il destino dell’anima. Destino ancora di più intellettualmente sofferto quanto alle teorie intorno all’Inferno dove entrano in ballo principalmente la crudeltà cui sono sottoposti i dannati e la durata della pena.

Prima di parlarne mi preme riprendere l’avvio iniziale per registrare quanto si è maturato a questo punto ai miei occhi: esattamente un qualche cosa che sembra adombrare una specie d’idolatria della natura per l’ insistenza nel definire la natura “natura -.physis”, la quale per essere stata creata da Dio non poteva ovviamente che essere perfetta o comunque preludere alla perfezione dunque a sua volta divina. Ma la natura è stata sin dai primordi idolatrata non certo per la sua perfezione ma per scongiurare i gravi rischi che essa comportava.

Qui l’A. dimostra una notevole dimestichezza con le leggi fisiche che interpretano la nascita dell’Universo, dall’astrofisica all’infinitamente piccolo, e in questo panorama pur attribuendo pari dignità a tutto il creato indica però l’Uomo quale vivente “ontologicamente” privilegiato (forse l’A. intendeva dire filogeneticamente, dato il lungo processo evolutivo fino all’homo sapiens?) idoneo e destinato alla perfezione cioè al carattere che contraddistingue il divino. Solo che l’Uomo deve conquistarsi – è l’A. a ribadirlo più e più volte con grande e ben motivata compenetrazione - con un lavorio ininterrotto su se stesso teso alla verità, al bene e alla giustizia questa divinizzazione  grazie all’ attributo concessogli in esclusiva nel creato,  quello nientemeno della libertà. In altre parole il libero arbitrio.

Da ciò non era difficile, come ho già detto, contemplare l’esistenza di un giudizio divino e quindi l’attendibilità di un Paradiso, di un Purgatorio e di un Inferno, oltre al Limbo che grazie a Dio la Chiesa da tempo non prende più in considerazione fino ad averlo abolito.

Tutto questo mi mette a disagio anche solo per l’accostamento dei tre termini sopra citati, che la mia (forse fallace) percezione ritiene del tutto tra essi estranei quanto a significati o categorie: la verità, la giustizia, il bene.

 Ma questo è un argomento nell’argomento che non è il caso (o lo dovrebbe essere?) tirare in campo in questo insieme di riflessioni, perciò lo liquido con poche battute.

“ La verità”, quale? Siamo sicuri che la verità sia sempre reperibile e incontrovertibile?

“ La giustizia”, quale, quella umana? Cioè la giustizia che prende in considerazione quasi sempre la verità dimostrabile spesso lontana dalla verità reale, quella giustizia che essendo un progetto profano prescinde totalmente dal bene essendo il bene un valore proprio del sentimento spirituale a essa totalmente estraneo?

E il “bene”? E’ mia opinione che il bene supera di molto le ragioni di parte ( dalle quali hanno origine le passioni estreme) perciò  ritengo folle puntare alla verità e alla giustizia, l’uomo può dominare la sua negatività (la violenza) soltanto quando capirà e si convincerà a  adoperarsi esclusivamente per il bene (la pace). E’ quello che cerco di dimostrare con il mio Giornalismo di Pace.

Chiusa la digressione osserviamo ora che l’A. si tuffa letteralmente in un fortemente documentato dibattito tra teologi, filosofi, celebri scrittori, e celebratissimi Santi sulla durata eterna o non della dannazione,  della sua modalità, cioè  delle regole (leggi torture) in atto durante la permanenza dei dannati nell’Inferno.

A questo confronto non sono state estranee le altre religioni, ma non so se solo quelle -se ho ben capito- del libro (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo).

Il dibattito è stato all’ultimo sangue, protagonista il fuoco, quasi che Dio potesse compiacersi della sofferenza dei dannati perché peccatori ( anche questa tesi presa in seria considerazione). Al punto che ad esempio, secondo l’Islam ai dannati veniva ricostituita la pelle divorata dal fuoco così che il fuoco potesse continuare la sua opera di distruzione all’infinito ( non so l’Islam attuale che cosa ne pensa).

Sono veramente troppe le pagine dedicate all’Inferno e confesso di aver sofferto molta delusa meraviglia nel constatare che intelligenze tanto celebrate si siano attardate in un quesito che forse solo ora appare al limite del ridicolo. Di conseguenza da donna mi sono molto compiaciuta di apprendere che chi ha messo in risalto l’insussistenza di un Inferno eterno e crudele inconciliabile con la vera spiritualità cristiana siano state per prime alcune donne e non solo ora (Metilde di Hackeborn, Angela da Foligno, Giuliana di Norwich, Caterina da Siena, Maria Maddalena de’ Pazzi, Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux).

Tra di loro c’è anche chi ha dichiarato di voler piuttosto condividere la sorte dei dannati anzi che accettare passivamente di perdere per sempre dei fratelli.

La deduzione ultima del Mancuso sull’Inferno ondeggia incerta tra un destino di annichilazione e quello  inverso di reintegrazione (apocatastasi, salvezza universale). E questa incertezza che mi stupisce in Mancuso, la dice lunga sul potere di suggestione delle religioni. Da questo potere sprigiona il fondamentalismo.

Ricapitolando, la tesi portante del Mancuso è dunque l’assioma che la natura-physis è perfetta perché perfetto è chi l’ha creata, e che gli errori e le imperfezioni sono accidenti insignificanti a petto della perfezione globale, e che l’Uomo è il prediletto dotato della libertà di cedere e indulgere negli errori,  o di guadagnarsi la perfezione..

Sono probabilmente i miei limiti a portarmi ad accusare un senso di vuoto in questa sia pure interessante e a volte anche convincente visione della realtà per la scarsa o assente attenzione dell’A. sul dato dolore. Questo protagonismo del peccato a fronte del dolore mi sconcerta. Non saprei conciliare o motivare questo contrasto, cerco di spiegarlo a me stessa supponendo che forse l’A. pur non avendo chiarito la cosa, dia per scontato che il dolore lo si combatte con l’amore, ch’Egli infatti indica a conclusione del libro quale elemento elettivo cui l’uomo può accedere in senso assoluto essendo egli destinato al bene oltre che alla giustizia.

Quel che l’A. non ha neppure adombrato è la patologia psichiatrica, che di molto ridimensiona l’idea di colpa quindi di peccato, patologia che a me appare di dimensione mastodontica specie se la consideriamo nel suo aspetto di malattia anche politica e sociale, vedasi in particolare la persistenza delle guerre (e l’attuale escalation delle droghe e del terrorismo). Eppure il Mancuso ha messo in evidenza che la politica è strettamente connessa alle religioni, concetto che esigeva chiarimenti e precisazioni viceversa del tutto assenti. Anche io sarei tenuta a dare spiegazioni sull’idea che la politica spesso degenera in una malattia psichiatrica, ma non è questa la sede.

 Intanto non so grazie a quale accostamento, nel mio retropensiero si è affacciato un altro quesito: “siamo certi che Dio abbia bisogno d’essere adorato dagli uomini e non piuttosto che gli uomini abbiano un disperato bisogno di Dio (quand’anche ne neghino l’esistenza)?”

Penso che all’A. resti ancora molto lavoro da svolgere, di grande utilità per tutti (così come il testo attuale), cosa del resto da Lui chiaramente enunciata nel considerare la realtà, che sia o non sia contemplata dalla religione, un continuo divenire, un incessante nascere e un apparente morire.

Tanto considerata apparente la morte da essere vista come un’ambita amica da non pochi e di diverso credo, e la vita null’altro che una sofferta ininterrotta scuola per imparare a morire serenamente consci di liberare l’anima dal suo troppo spesso difficile e ingombrante supporto materiale. E a questo concetto sento di aderire totalmente.

Dove non mi sento di condividere l’A. è la sua predilezione per la musica ch’egli assimila elettivamente al divino come idea propria e non come immagine tradizionale riguardante un Paradiso esaltato da musiche celestiali. Eppure chiunque può constatare che la musica celebra il celestiale così come esprime l’orrido e il diabolico o le imprese micidiali dei grandi condottieri o le retoriche nazionaliste e ideologiche oltre ad attardarsi nel descrivere la violenza  (quelle che chiamai protesi a sostegno delle carenze delle immagini o a loro enfasi, si pensi alle colonne sonore di certi film o di certe fiction doveomicidi e sevizie e stupri fanno da odierni  modelli di vita).

 In complesso l’A. mi sembra considerare assai vicina al divino l’arte in genere e la scienza, e francamente mi sconcerta. La divinità non può essere un fatto elitario, non solo, la mia conclusiva opinione è che la cultura ha più da farsi perdonare che osannare. Ma anche questo è argomento a parte.

Potrebbe essere più vicino al divino lo sguardo del contadino rivolto dalla terra a contemplare per un attimo il cielo o una  preghiera d’intercessione o il gesto affettuoso a un estraneo abbandonato assetato d’amore. Gesto che discende da quel particolare sentimento a metà strada tra senso umanitario e spiritualità. In queste immagini però – una volta accantonata l’aristocrazia dell’arte, che a me sembra eccessivamente mitizzata - ci si ritrova dichiaratamente  anche Vito Mancuso.

Ma l’insistenza sulla maggiore tensione o essenza spirituale della musica che l’approssimerebbe più d’ogni altra espressione umana a Dio mi induce a insistere a mia volta sulle mie riserve dubitative. Se corrispondesse  al vero il Suo assunto, la musica dovrebbe avere se non un carattere universale almeno mondiale sì.

Qui s’imporrebbe una vasta riflessione che non sarei in grado di svolgere non solo e non del tutto per una questione d’incompetenza ma anche per una mia saturazione mnemonica che m’impedisce di utilizzare quel poco che ho cercato di capire in proposito. Tuttavia qualche annotazione che mira più a cointeressare un esperto per attenderci da lui almeno le più elementari delucidazioni che a esporre me stessa chissà a quante sacrosante critiche, mi azzardo a dirla.

E allora il primo quesito è, quale musica sarebbe più vicina al divino, quella occidentale? Se così fosse, perché?, e tra la musica occidentale quella sacra o non necessariamente?

Personalmente sento una grande differenza quanto a spessore spirituale tra la musica gregoriana e altra musica sacra. Ma intanto s’impone (ai miei occhi) la valenza fondamentale degli strumenti impegnati a esprimere la spiritualità. O  sarebbe più esatto chiedersi quali tra gli strumenti sarebbero i più idonei? L’organo presente in tutte o quasi le Chiese è davvero lo strumento più coinvolto a stabilire la connessione tra l’anima dell’uomo con Dio? Ne siamo certi? La mia impressione di sicuro almeno parzialmente errata è che viceversa l’organo rappresenti un Dio maestoso, potente, severo, quello cioè che avrebbe creato non solo il Paradiso ma anche l’Inferno. L’organo scatena una emotività sconvolgente, può renderci edotti della nostra pochezza ma anche farci tremare di paura (non per nulla sconsideratamente era detto nel Medioevo lo strumento del diavolo) in realtà l’organo dispiegava con la vastità e la forza del suo stupefacente spettro musicale la potenza della Chiesa.

Cosa ad esempio che una chitarra non potrebbe mai esprimere. E già questo mi rende perplessa perché mi parla di un destino ineluttabile degli strumenti musicali (tema vasto da competenti). (Doveroso inciso: l’organo esprime anche l’esatto contrario tanto è ricco di potenzialità musicale).

 Ma c’è di più, mi sconcerta il valore ambientale che incide sulla spiritualità della musica. Ad esempio, e rivado a una esperienza personale a proposito della differenza con la musica gregoriana sopra accennata.

 Entrata in una piccola chiesa ortodossa a Mosca ho avuto la fortuna di ascoltare un canto a dir poco paradisiaco, eppure era cantato da solo due giovani preti. Musica totalmente diversa da quella nostrana forse dovuta all’ampio respiro degli spazi immensi delle steppe.

.Ma allora quale tipo di musica e quali strumenti ci assimilerebbero più a Dio? E cosa succede se prendiamo in considerazione la musica araba o quella asiatica o quella africana?

Personalmente ne deduco che la musica è un portato culturale come tanti altri (poesia, scultura, pittura, etc.) di grande ma anche contraddittorio  godimento che l’uomo –more solito – è portato non so quanto a ragione, a mitizzare, non sapendo forse d’ esagerare quasi quanto alle partite di calcio.

Conclusione, mi dico che niente di culturale può vantare connotati superlativi nel rapporto Uomo-Dio, lo considero un’offesa all’anima popolare, che è quella veramente più vicina alla amorosa misericordia. Anche se è però la più proclive alla superstizione e alla aspettativa miracolistica, come del resto è razionalmente giustificabile data l’imperfezione della  natura ambiente, e il troppo dolore che affligge il mondo.

Però al mio assunto si oppone una critica forse più che ragionevole. Ogni civiltà ha un suo patrimonio sonoro, diciamo pure musicale, magari profano ma esprimente una grande spiritualità, dunque il linguaggio dell’anima, quello cioè affine alla incalcolabile dimensione divina. Un esperto potrebbe riempire pagine e pagine sulle tante forme musicali del tutto diverse tra di loro tipiche dei luoghi e della storia della loro gente. Quindi sarebbe smontato il requisito di mondialità della musica occidentale visto che questa ottica non è stata neppure adombrata dal Mancuso limitatosi a menzionare musica europea,  Bach, Beethoven, Brahms. E chi non conosce Bach, Beethoven e Brahms?

Ma anche in un libro non si può dire tutto. Io però persevero nella convinzione che la spiritualità non deve avere non può avere e non ha un presupposto culturale elitario (perlomeno come connotato imprescindibile).

Questa mia forse troppo prolissa digressione mi ha portata però a capire quanto altri sanno per competenza e cioè che è forse solo la musica europea ad essere un fatto elitario, mentre forse nel resto del mondo costituisce la più genuina spontanea espressione dell’anima popolare, rifugio troppo spesso di tanta sofferenza, per sua natura altrettanto vicina a Dio o ancora di più della musica dotta.

Argomento musicale a parte, il libro del Mancuso mi apparso d’ ininterrotto interesse, oltre che istruttivo, e soprattutto profondamente intriso d’amore per l’amore, nella visione di una vita senza soluzione di continuità con l’eterno, concetto scandito ripetutamente a giusta ragione. Percezione spirituale –anche io ritengo necessario ripeterlo- da Lui considerata alla portata di tutti, religiosi e non religiosi, non distinguendosi la natura-physis dal suo Creatore, quindi anch’essa perfetta nelle sue infinite interconnessioni, in continuo dinamismo eincessante rinascere nella sempre maggiore complessità e conoscenza scientifica. Un libro pieno di ottimistica speranza di salvezza per tutti.

Prima di chiudere e solo in base all’immediatezza di semplici impressioni, mi avventuro in alcune deduzioni, con gergo giornalistico, di “cristiana cattolica fai da te”.

Condivido soprattutto la parte critica svolta senza reticenze dal Mancuso, al punto che mi sarei spinta oltre toccando il tema spinoso della verginità di Maria. Spinoso non soltanto perché tocca un punto irrinunciabile dell’impalcatura teologica, ma spinoso femministicamente perché in essa potrebbe essere letta se non  l’origine della morale sessuale differenziata tra uomo e donna - che tanto ha danneggiato e danneggia i diritti umani di genere e la stessa essenza che considero sacrale della famiglia- di certo l’origine della ossessiva priorità valoriale della verginità esclusivamente femminile ( anche se non sancita dalla Chiesa) che subordina la donna a un connotato anatomico a petto del suo valore  e della sua dignità di persona.

Non per nulla e forse non  per questo, ma per tutto il male derivatone a spese  della donna,  il Papa polacco ebbe a dire “dobbiamo chiedere scusa alle donne” e Papa Luciani, suscitando non poco scalpore, pronunciò due parole quanto mai significative: “Dio madre”.

 Volendo poi fare l’avvocato del diavolo sarebbe possibile dire che la visione teologica del Mancuso, entusiastica e avvincente, se non apparisse frutto profondamente sincero e fortemente razionalmente motivato, potrebbe sembrare una esasperata quadratura del cerchio per attualizzare la religione ai nostri tempi. Cosa del resto sotto molti aspetti non solo auspicabile ma indispensabile ma con grande prudenza.

 Colgo ora una sintesi dell’A. che mi è sembrata azzardata, quella che secondo l’A. sostanzialmente la funzione di Dio è quella di procreare. Nonostante la coerenza dell’affermazione egualmente mi sono stupita  perché questo ruolo mi  è sembrato riduttivo, e mi sono anche impaurita perché mi sono vista rimandata alla antica idolatria della fertilità, e anche del fallo, quindi  a un trionfo senza via di scampo della biologia su ogni altro valore evolutivo.

  Tutto questo essendo la mia convinzione diametralmente opposta anche se disperatamente utopica e cioè che l’uomo per avvicinarsi a “Dio”  dovrebbe  puntare al superamento delle  regole e dei condizionamenti naturali quando contrari al diritto alla vita di tutto il creato.

Non vedo altra via per porre fine a questa orrenda mattanza tra esseri viventi così come all’esaltazione del sacrificio, inteso come vocazione ad offrire all’esercizio della crudeltà il proprio corpo.

Non poco turbamento infatti ha prodotto in me in proposito la seguente frase di Papa  Benedetto XVI : “ si può essere portatori di salvezza solo offrendo la propria  carne”.

Non solo turbamento ma una miscela di ribellione scandalo e profonda mortificazione.

Quale il motivo di questa mia reazione? E’ materia di grande complessità che esige un proprio esclusivo spazio. Però posso dire fuggevolmente che l’offerta crea il carnefice e che la logica del sacrificio è una logica primitiva, riconfermarla vuol dire togliere speranza all’evoluzione dell’uomo. All’uomo evoluto attiene la dedizione anche totale, anche fino all’annullamento delle proprie ragioni pur di far trionfare la Pace, ma non più l’offerta della propria carne anche se la realtà lo sconfessa. Ma ripeto, è materia che coinvolgendo tutta la storia e l’attualità nient’affatto idilliaca del nostro mondo non può essere liquidata con poco più di una battuta, mi limito a dire che facendo le idee da battistrada alle azioni, si trasformino le parole di Papa Benedetto in “si può essere portatori di salvezza solo comunicando conoscenza comprensione e amore”.

Ora una domanda a margine: nel mondo islamico sarebbe possibile parlare della religione con la stessa sincerità e libertà?

Forse sarebbe più pertinente chiederlo alle diverse e numerosissime anime  islamiche. In modo particolare ha destato il mio interesse (e la mia speranza) il pensiero degli Aleviti, detti anche Bektashiti dal nome di un santo d’origine turca, i Sufi più noti dello Sciismo, che “inglobano elementi di buddismo, cristianesimo, ebraismo e sciamanesimo perché se Dio è uno solo è lo stesso che ha parlato a tutti i profeti e da tutti c’è da imparare”.(Abbas Loris Fiore). Non per nulla gli Aleviti sono  perseguitati dai fondamentalisti.

Ma avventurarsi nel mondo musulmano è impossibile per noi occidentali - a parte forse gli specialisti - data la sua estrema complessità e, purtroppo, una sostanziale chiusura a una libera comunicazione di massa. Quello che filtra attraverso uno stento e sofferto e non so quanto libero giornalismo è troppo poco per confrontarsi costruttivamente.

Da qui dovremmo con amore e modestia iniziare a conoscerci perché è anche o forse soprattutto dalle religioni che si può dare l’avvio a un percorso di Pace. O almeno attendersi da esse di non costituire ostacolo e impedimento.

Spesso mi viene fatto di confermarmi che le religioni (mi scuso per la generalizzazione) abbiano sfruttato e sfruttino ancora il bisogno di Dio dell’uomo e la sua speranza di salvezza trasformando la predicazione della fede in una violenta imposizione di potere anche politico che non lascia spazio alla maturazione autonoma delle coscienze.

L’amore per tutti e tra tutti auspicato dall’A. (che mi sembra assai lontano da venire) a conclusione della sua fatica è da Lui ritenuto ineludibile e di sicura realizzazione perché connaturato all’uomo e al suo destino di perfezione che lo renderebbe uguale a Dio.

 Personalmente mi limito a ritenere possibile una graduale crescita in civiltà e con l’A. convengo sia sull’immane lavoro che ognuno può (dovrebbe) fare su se stesso sia nel considerare idonei e attivi interlocutori in questa titanica conquista tutti, assolutamente tutti, laici o atei compresi, in totale sintonia con l’insegnamento cristiano che ognuno ha nella propria coscienza il più idoneo giudice (e guida) del suo stesso comportamento, così da potersi guadagnare il regno dei cieli al pari dei credenti.

Ringrazio l’A. per aver indicato una nuova visione di salvezza che considero ottimo spunto di riflessione e per aver offerto un’immagine di libertà di pensiero e d’espressione rara specie nell’ambito religioso.

Settembre 2008



Lunedì, 01 settembre 2008