DON LORENZO MILANI E LA SCUOLA
«IL SANTO PARROCO CHE SFASCIÒ L’ISTRUZIONE»?

di Anna Marina Storoni

In risposta a Marcello Veneziani


Quando venivo a conoscenza dei recenti provvedimenti del ministro Gelmini (voto in condotta, grembiule nero, maestro unico ecc.) avvertivo un certo disagio: capivo che non si trattava di dettagli formali, ma di misure ispirate ad un principio che non riuscivo a mettere a fuoco. L’articolo di Marcello Veneziani uscito il 25 settembre, su Libero, mi ha aiutato a individuare quel principio. Il giornalista si accanisce contro Don Lorenzo Milani, responsabile, a suo parere, dello sfascio dell’istruzione italiana nato nel ’68.

Al parroco di Barbiana, Veneziani rimprovera, innanzitutto, il disconoscimento della meritocrazia che definisce “l’unica arma di chi non ha protettori”. Il giornalista non tiene conto che una meritocrazia “giusta” presuppone che tutti i ragazzi partano dallo stesso livello di potenzialità: stessa salute, stesso carattere, stesso grado di benessere, stessa serenità familiare, stesse possibilità di dedicare allo studio tempo e concentrazione, stesso aiuto, da parte dei familiari, in libri, consigli, strumenti didattici. Nulla è più lontano dalla realtà: arrivano alle elementari bambini provenienti dagli ambienti più disparati e disastrati, bambini che, in casa, non sentono altro che un becero scambio di volgarità, bambini che assistono quotidianamente a scene di odio, disperazione, e degrado morale, bambini che portano dentro le ferite di questi insulti nella forma di timidezze estreme, dislessie, disturbi caratteriali, balbuzie, bulimie ecc. ecc. Vogliamo metterli in gara con i rari bambini sani e ben nutriti (sia di pane che di affetti) e, così facendo, pretendiamo pure di dire che questi ultimi non hanno “protettori”?
Ha perfettamente ragione don Milani a dire che, nella scuola dell’obbligo, non dovrebbero esserci i voti, perché i voti inevitabilmente puniscono i bambini che partono male e premiano quelli che sono favoriti dall’ambiente familiare. La brutta pagella, molto più dello scapaccione, stabilisce un’intesa tra insegnanti e genitori, di fronte alla quale il ragazzo non trova via d’uscita, una tenaglia inesorabile dalla quale nessuno lo difende. I voti ampliano il divario, anziché colmarlo e possono provocare ulteriori sofferenze, come attestano i numerosi suicidi causati da cattivi voti. Nessuno sa quanti ragazzi, senza arrivare al suicidio, soffrono enormemente per i loro insuccessi scolastici, e magari reagiscono nei modi più autolesionisti (fuga, assunzione di droga o altro). La scuola deve costituire un porto, offrire un aiuto, non una ulteriore punizione. Si legge in “Lettera a una professoressa”: “Chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti” (pag. 12).

Si dirà che il voto è il riconoscimento di un merito e che l’agonismo è il lievito del progresso. È indubbio che il desiderio di primeggiare costituisca una molla fortissima per i ragazzi, che non smettono mai di gareggiare tra loro, ma siamo sicuri che questa molla si fondi sugli aspetti migliori dell’animo umano? Scrive don Milani: “Io non riesco a vedere nell’agonismo altro fascino che la gioia del vincitore di avere umiliato gli altri, oppure quella di stimarsi qualcosa”. Non è meglio insegnare ai ragazzi che gli uomini sono diversi tra loro e che ciascuno può dare il meglio di sé a suo modo? Veneziani dimentica che il merito vero non si identifica con il riconoscimento degli altri, ma col progresso che ciascuno capisce di avere compiuto: ieri non ero in grado di fare questo, oggi sono riuscito a farlo, bravo me lo dico da solo, non mi interessa che me lo dica tu, maestro o genitore che sia. Vogliamo forse affermare che coloro che, nella società attuale hanno avuto più successo, sono anche coloro che valgono di più? Mi sentirei quasi di poter affermare il contrario: i veri bravi non li conosce nessuno, la televisione non li ha scovati, muoiono senza riconoscimenti.

Un altro capo d’accusa mosso dal giornalista a don Milani è il preteso discredito della “cultura”. Il parroco di Barbiana sarebbe addirittura responsabile dell’ignoranza dei giovani d’oggi per aver screditato la cultura tradizionale, quella dei programmi ministeriali contenuta nei libri di testo, che prevedono lo studio di Dante e Leopardi, ma ignorano il tessuto sociale nel quale gli studenti vivono: le leggi, i contratti, le risorse mondiali oltre che la consapevolezza della propria realtà interiore. Il giornalista ritiene, insomma, che compito fondamentale della scuola sia quello di travasare un pacchetto di nozioni da una generazione all’altra. Egli dimentica che, prima dei contenuti, quello che va insegnato è il desiderio di sapere e capire oltre che il rispetto di sé e degli altri. La scuola deve innanzitutto risvegliare nei ragazzi il piacere di apprendere, l’interesse, la curiosità, in un clima di serenità e fiducia e non di terrore. È ovvio che questo interesse non può che partire dalla situazione nella quale i ragazzi vivono, dal loro habitat sociale, affettivo, politico. Se non partono da lì, se non si affacciano alla scuola in questo modo fin dai primi anni, poi non riusciranno più a porsi nei confronti della cultura in un atteggiamento attivo, saranno condannati ad accogliere passivamente quanto viene loro propinato. Questa è la grande scoperta di don Milani. Certo non disprezzava Dante e Leopardi, ma pensava che, a questo tipo di poesia i giovani dovessero arrivare per gradi, quando fossero giunti a saper godere di essa.
La cultura non è un bagaglio di nozioni, è un abito mentale che si riverbera anche nelle scelte più elementari: fast food o minestra cucinata in casa, jeans sdruciti o abiti eleganti. A questo proposito vorrei spendere una parola sul grembiule nero. Il modo di vestirsi per un bambino e un adolescente è qualcosa di molto importante: li fa sentire appartenenti al loro sesso, li aiuta ad esprimere a quale modello vorrebbero adeguarsi, permette loro di somigliare o distinguersi dagli altri. Perché reprimere queste esigenze livellandoli tutti (anzi, tutte, come se i maschi non avessero gli stessi problemi!) con un grembiule? Lasciamo piuttosto che si vestano come vogliono e aiutiamoli anche a trovare il proprio stile, a piacersi e a piacere somigliando non agli altri, ma a se stessi. Nella mia esperienza di insegnante ho visto allievi trasformarsi nel corso di un triennio, non per imposizione, ma per scelta. Se poi fin da bambini dovranno confrontarsi con più di un maestro, impareranno a capire che anche gli adulti sono diversi tra loro, parlano in modo diverso, si vestono in modo diverso.


Un’ulteriore accusa mossa da Veneziani a don Milani è quella di avere assecondato i “parolai presuntuosi” esaltando l’importanza di insegnare ai ragazzi l’uso della parola. Sul tema dell’insegnamento del linguaggio si è sempre discusso se a scuola si debba insegnare la lingua italiana “corretta” o si debba tollerare, se non addirittura incoraggiare, il dialetto. Quando fu fatta l’Italia, la scuola dell’obbligo svolse il compito sacrosanto e importantissimo di insegnare a tutti la lingua italiana, sì che piemontesi e siciliani potessero intendersi. Ma il punto di vista di don Milani è un altro: egli non vuole esaltare il dialetto a scapito della lingua corretta, vuole che i ragazzi imparino a esprimere a parole quello che veramente sentono e pensano. Vuole che essi scoprano l’importanza del linguaggio per comunicare, esprimersi, protestare, cantare, non solo per ripetere a pappagallo pensieri altrui. Quanti temini insulsi abbiamo dovuto scrivere nelle nostre esperienze scolastiche! Quanti pensierini, riassuntini, poesiole hanno riempito i nostri quaderni! Di tutta questa paccottiglia fa piazza pulita don Milani quando scrive: “A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo”. Chi può dargli torto? Se i ragazzi a casa sentono parlare una lingua diversissima da quella degli insegnanti, ovviamente si esprimeranno in quella lingua, anche se povera e scorretta: non interveniamo subito con la matita rossa e blu, ma pian piano, rispondendo in un italiano corretto, aiutiamoli a trovare le parole che ancora non conoscono, capiranno come parlare, così come apprendono come vestirsi.

Anna Marina Storoni
Piazza
Roma, 29 settembre 2008


Articolo tratto da:

FORUM (109) Koinonia

http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Venerdì, 03 ottobre 2008