Preti sposati - dibattito
La parrocchia: comunità di fede, nonostante i «banchi pieni ed gli altari vuoti».

di p. Nadir Giuseppe Perin

Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. p. Nadir Giuseppe Perin è dottore in Teologia dogmatica presso l’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all’Università Lateranense - Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychiatric Nursing presso la Mental Health Division di Toronto; specializzato in scienze psicopedagogiche presso l’Università di magistero dell’Aquila. Per contatti: nadirgiuseppe@alice.it )


Nell’antichità, la chiesa universale non era un’identità al di sopra delle altre comunità locali. Inizialmente non esisteva neanche un’organizzazione sovra regionale, anche se ben presto sorsero patriarcati,chiese metropolitane, nelle quali - in seguito - le varie comunità locali furono unite in unità sovra urbane.

Oggi, si parla delle chiese particolari come di unità pastorali, delle quali è costituita la chiesa cattolica ed ogni parrocchia, per quanto piccola, è una comunità di fede. In molte di queste comunità i “banchi sono pieni, mentre gli altari sono vuoti” perché non c’è un prete che celebri l’Eucaristia.Come si può immaginare, allora, l’esistenza di una comunità cristiana senza la celebrazione dell’Eucaristia dal momento che esiste un legame essenziale tra comunità ecclesiale  e l’Eucaristia?

Gesù nella sinagoga di Cafarnao disse: “Se non mangiate la mia carne…non avrete la vita. Se mangerete avrete la vita! Solamente l’accoglienza della vita che viene da Dio è vita. Vita è capacità di convivenza, amore, donazione, responsabilità verso il mondo, affinità con la vita di Gesù perché Egli è colui che accoglie pienamente in tutto se stesso  la vita che viene dal Padre.

Nella chiesa prenicena vigeva la norma –evidentemente basata su modelli ebraici – che ove fossero riuniti almeno dodici capifamiglia (dunque 12 famiglie) essi avevano diritto ad un presidente e quindi anche ad uno che presiedesse alla celebrazione eucaristica. Per le comunità minori non urbane, il capo comunità, originariamente, era un vescovo che era considerato un capo presbiterale.

Nella concezione della chiesa antica, pertanto, una carenza di preti era impossibile da un punto di vista ecclesiale. Ciò significa che le cause di tale carenza affondano le loro radici in una  concezione sacrale del ministero, che ha preso piede nel corso della storia della Chiesa.

In questo momento storico, la concezione sacrale del ministero presbiterale ridicolizza fondamentalmente il senso cristiano ed ecclesiale della comunità e dell’eucaristia, dal momento che esiste un’abbondanza di operatori pastorali, uomini e donne, che si dedicano pienamente alla comunità, prendendosi cura pastoralmente della stessa, ma ai quali si nega l’inserimento liturgico del loro ministero, per motivi estrinseci all’essenza del ministero ecclesiale, negando così alla comunità la possibilità di avere un presbitero che presieda all’eucaristia ed al servizio della riconciliazione.

Di fronte a queste situazioni, le domande che mi faccio, come prete-sposato, sono molte: “Dove sono i preti? …perché  molti altari rimangono vuoti ?  Forse, perchè molti preti  - me compreso - hanno lasciato il ministero per sposarsi o per altri motivi ?  Perché non c’è più il ricambio generazionale, dal momento che sono sempre meno i giovani che  - pur chiamati da Dio al servizio presbiterale – preferiscono seguire un’altra strada?...Perché i giovani non rispondono alla vocazione presbiterale?

Le motivazioni possono essere tante!

La carenza di presbiteri in molte comunità di fede (= parrocchie) indica che, di fatto, l’ordinamento riguardante il presbiterato e le condizioni per potervi accedere e svolgere il ministero - emanato da coloro che nella chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale - si è fissato in una ideologia che - in molte circostanze - impedisce che il fine primario della Chiesa stessa - che è “ la salvezza delle anime” – si possa attuare sempre, dovunque e comunque.

Inoltre, moltissime  famiglie che formano la comunità parrocchiale sono state svuotate nel tempo da ogni senso di responsabilità nei confronti della comunità di appartenenza perché non sono state aiutate dai loro pastori a crescere verso una fede matura e responsabile. Conoscete forse qualche comunità parrocchiale dove le famiglie si facciano carico della formazione  umana, cristiana dei suoi preti ? Di coloro che, un domani, saranno chiamati a guidarla pastoralmente ?

Per questo ci sono i seminari !

Agli inizi della vita della chiesa non era così ! Era la comunità stessa che sceglieva i suoi ministri e la scelta del ministro non era condizionata dal suo stato civile (celibe o sposato). Il ministro era scelto perché fosse guida della comunità e rendesse presente alla comunità l’Eucaristia.  

La comunità si comportava così perché si sentiva abitata dal logos cristiano, cioè dalla apostolicità

La comunità aveva coscienza di essere una comunità che “discendeva” dagli apostoli. Questo era il logos cristiano che dava “autorità” ad una determinata prassi della comunità cristiana – vecchia o nuova che fosse.

Oggi, invece, il popolo di Dio è stato svuotato da ogni apostolicità.

Giuridicamente, infatti, l’apostolicità è stata ristretta ai soli vescovi, in quanto successori degli apostoli. Eppure nel credo continuamo a dire che crediamo in una chiesa (cioè in una comunità) apostolica (cioè che discende dagli apostoli).

Allora mi chiedo : Come si può dire che la chiesa è apostolica se l’apostolicità viene ristretta ai soli vescovi in quanto successori degli apostoli, e se  il termine “Chiesa” non indica solo il papa, i vescovi ed  i preti, ma tutti i battezzati? 

A mio modesto parere si dovrebbe definire “comunità apostolica” quella nella quale ogni persona che ne fa parte, ha accolto la “buona notizia” che Gesù aveva affidato agli Apostoli mandandoli ad ammaestrare tutte le nazioni.

“Allora Gesù disse loro: Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra. Andate, dunque ed ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”. (Matt 28,18-20).  “E dove due o tre sono riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro”

Anche il papa, i vescovi, i preti - in quanto battezzati - fanno parte di questa comunità apostolica dei discepoli di Cristo, ma non possono restringere a sé stessi, in maniera esclusiva, il significato del termine “chiesa” né quello della apostolicità. Da questa comunità apostolica di credenti essi sono stati chiamati da Dio per “pascere” la comunità stessa; non comportandosi come fossero i padroni del gregge, ma mettendosi, invece, al servizio del gregge. 

“ Pascete il gregge di Dio a voi affidato,sorvegliandolo non perché costretti, ma di cuore secondo Dio, non per avidità di denaro, ma con dedizione, neppure come padroni delle persone affidate ma facendovi modello del gregge” (1Pt 5, 2-3).

Invece, buona parte del clero, ancora oggi, si comporta  come “ il padrone delle persone a loro affidate”. Ogni giudizio morale sull’agire cristiano (buono/cattivo) basato sull’osservanza o meno della legge per “meritarsi l’amore di Dio” è stato concentrato nelle mani del clero, per cui il cristiano comune non può “muovere foglia che il clero non voglia”.

Il “chi, dove, quando, come, perché” di ogni agire morale lo deve stabilire il clero, mentre il cristiano laico (non ordinato) deve solo obbedire !

Un clero che ancora oggi continua a porsi nella vecchia maniera del “fate così perché lo diciamo noi” non svolge la sua missione perché non aiuta le persone a crescere interiormente. Si circonderà di persone immature che preferiscono una fede infantile, dove conta il miracolo, la gestualità scaramantica, l’aver assolto il precetto, dove si confessano i peccati senza aver capito bene perché sono peccati. Infatti, moltissimi cristiani ritengono che il peccato sia essenzialmente la trasgressione di una legge. Pochissimi cristiani ritengono che il peccato sia, invece, il rifiuto della vita, un arresto nella crescita, a volte definitivo. Sviluppati di fuori, possiamo essere dentro degli aborti, non cresciuti.

Noi “siamo peccatori” non perché abbiamo violato la legge, ma perché siamo incapaci di accogliere in noi la pienezza della vita; perché ci poniamo in atteggiamento di rifiuto della vita !

 

Quando, allora, una comunità potrà dirsi “matura nella fede” ?  Quando non avrà al suo interno dei “noi” e dei “loro”, ma avrà solo un grande “noi” dai confini imprecisi, all’interno del quale sarà capace di ospitare anche posizioni diverse, persone scomode, tradizioni pratiche del vangelo contrastanti tra loro.

Sono d’accordo con Mauro Borghesi quando afferma che oggi, la maggior parte del popolo di Dio ha perso il senso d’appartenenza ad una comunità ecclesiale perché tutto ciò che riguarda questa comunità è stato rapportato al clero. Nella mente della gente, sono loro a formare la “chiesa” , mentre noi, i laici, invece, siamo il “popolino”. I chierici legano e sciolgono e noi  laici ci limitiamo a commentare tali decisioni. I chierici, in definitiva, dal momento che si ritengono gli “uomini del sacro”, sono gli unici ad essere in contatto con Dio, mentre noi laici stiamo al di qua della “balaustra”, cioè fuori “dal recinto sacro”.

Questa dicotomia  o separazioni in classi ( chierici – laici) del popolo di Dio è stato e continua ad essere un grande errore che impedisce ogni crescita del cristiano nella sua comunità.

Il Concilio ha cercato di porre rimedio a questa dicotomia sottolineando come tutti i battezzati formino un popolo di sacerdoti; come noi tutti siamo chiesa e nessuno da solo possa pretendere di “essere la chiesa”, neanche il papa, né l’intero Vaticano. La dicotomia noi-loro è un reflusso del passato, che probabilmente, a suo tempo, è servita, ma che oggi rischia di essere controproducente.

Questo modo di fare del clero ha creato nel “Popolo di Dio” la mentalità che la chiesa sia quella che sta in Vaticano dalla quale perciò ciascuno può dissociarsi e dire che, di fronte a certe scelte, chi ha sbagliato sono loro oppure che di fronte ad altre scelte per le quali non si riesce a trovare una spiegazione, affermare che “se le cose stanno così è perché  “loro” hanno  scelto “…

Credo, invece, che la vera Chiesa di Cristo sia quella in cui nessuno può dirsi “la verità”; quella in cui nessuno può dire la parola definitiva. Questo non significa cadere nel relativismo, ma significa credere che  in questa comunità di credenti solo Gesù può dire di se stesso: “io sono la verità, la via e la vita”.

Quando, allora, una comunità parrocchiale, anche se piccola,  si può ritenere una vera “comunità di fede”? 

E’ quella in cui ogni singolo io che la costituisce si sente Chiesa. Questo significa che quando “leggo” sui giornali o sento alla TV che la “chiesa”  fa o non fa, dice o non dice, ho la coscienza che si sta parlando di me, perché mi sento coinvolto in prima persona. Dal momento che anch’io sono “chiesa” : sono io che faccio o non faccio, sono io che dico o non dico, con lei.

Questa presa di coscienza da parte di ciascuno che forma il popolo di Dio dovrebbe fa sì che il “clero” smetta di parlare a nome della chiesa senza avere prima consultato il “Popolo di Dio”. Perché, da un punto di vista educativo, è il “coinvolgimento” quello che responsabilizza le persone!

Se la chiesa prega, sono io che prego, se festeggia sono io che faccio festa. Se la chiesa chiede perdono dei peccati del passato sono io che,assieme a lei, chiedo perdono dei peccati del passato e mi interrogo sulle ragioni di quei peccati. Se la chiesa compie degli errori o tace quando non dovrebbe o non chiede perdono per le colpe di oggi, sono sempre ancora io che, in quanto parte di lei, sento il bisogno di dirglielo, di scuoterla e di cambiarla, perché “la chiesa non è altro da me”.

Se ogni credente, che con il battesimo è entrato a far parte di questa comunità dei discepoli del Signore, per il quale non ci sono coloro che contano  e coloro che non contano, capisse questo e si comportasse di conseguenza, molte cose cambierebbero..Gesù ha detto irritato : “Conoscete i segni dei tempi!”. Sono i tempi che decisono quali sono le vere esigenze dell’uomo, oggi diverse da quelle di cinquant’anni fa.Quello che è eterno è la Parola di Dio che deve poter essere capita in corrispondenza alle esigenze dell’uomo. Il concetto di persona cinquant’anni fa era quello di Boezio ( “sostanza individua di natura razionale”) ,Oggi non più. L’uomo è uomo con l’altro. “Io sono gli altri” (Lacan). Il concetto di “alterità” è più vicino al Vangelo, se l’uomo sa che egli si realizza soltanto con gli altri, che non è una persona compiuta da solo. Questo concetto cambierebbe anche la coppia:nessuno impera sull’altro, ma ognuno si modifica verso l’altro.Tu non esisti come “io”, ma esisti con gli altri. Siamo nelle mani degli altri.

Il capire quanto sia importante e necessario l’altro per me, ci porterebbe a discutere di più, a dialogare, a non imporre ad altri le nostre scelte non condivise. Certamente, in questo modo, si farebbe molta più fatica a trovare un accordo e forse qualcuno comincerebbe a non capirci più niente. Ma, queste difficoltà non dovrebbero scoraggiare nessuno perché il provare la senzazione di impotenza e, ciò nonostante, avere il coraggio di discutere di determinate realtà che toccano la comunità è segno di crescita verso una fede matura.  Infatti, la mancanza di certezze, di documenti, di parole calate dall’alto, su cui basare il nostro agire, ci responsabilizza. Gesù stesso, del resto, traghettandoci dal mondo della religione al mondo della fede ci ha insegnato la strada da seguire !

Cominceremo a dire responsabilmente la nostra opinione, valutandone le conseguenze e non con la strafottenza di chi dice quello che gli pare, perché lui si ritiene fuori da questa comunità o estraneo alla medesima. In questo modo impareremo che “Il Vangelo” non è un libro di morale, né un codice di leggi da osservare, ma una proposta di vita che Dio ci fa, per mezzo di Gesù, in modo da poter “vivere felici”, insieme, fin da ora…. “Vivere il Vangelo”, significa “mettere il vino nuovo in otri nuove”, imparare a tenere conto del punto di vista gli uni degli altri; imparare ad aspettare; a convivere con il dubbio con questioni che non si risolvono con la bacchetta magica; imparare a pregare perché lo Spirito Santo ci illumini.

Mentre, oggi, chi dissente da quello che pensa il clero è silenziosamente invitato a smetterla o ad andarsene. Nella vera comunità apostolica di Gesù, invece, non dominata dal clero, ognuno si sente responsabile della felicità dell’altro, c’è spazio anche per il dissenso, perché ciò che ci tiene uniti non è una teoria, un documento, né le definizioni dogmatiche del magistero o del catechismo. Ciò che ci tiene uniti è la stessa fede in Gesù Cristo nato, morto e risorto : fatto sconvolgente e misterioso, ancora non del tutto compreso.

Alla fine, quello che conta non è tanto bussare alla porta del “clero” per ottenere qualcosa - come ad esempio che il celibato per l’esercizio del ministero presbiterale sia lasciato alla libera scelta della persona e non più uno stato di vita imposto per legge, per quanto giustificabili possano essere le ragioni che hanno spinto coloro che nella chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale ad imporlo - ma quello che conta è aver coscienza che quando parlo - per esempio con il vescovo o con il vicino di panca - parlo con una realtà che è parte di me, perché la chiesa non è il singolo vescovo, il singolo papa o il singolo fedele, ma “la chiesa” è soltanto l’insieme di tutti i credenti.

 Allora, come sono paziente con una parte del mio corpo che all’improvviso potrebbe ammalarsi o diventare più lenta delle altre, così lo sarò con i miei fratelli nella fede.

I nostri fratelli vescovi, come i fratelli preti più o meno celibi, anche loro devono riscoprire quanto sia grande, misteriosa ed aperta la chiesa (=la comunità apostolica dei credenti in Gesù) e quanto il loro compito diventi meno gravoso, più umile e cristiano se anziché parlare in nome di Dio, cominciassero a pensarsi come un pezzetto di un tutto ben più grande.

 

p.Giuseppe dall’Abruzzo.



Domenica, 13 gennaio 2008