Preti cattolici senza obbligo di celibato. col nulla osta ecclesiastico. Chi sono, come, dove e perché

da Agenzia Adista n. 25 del 1 aprile 2000

30305. ROMA-ADISTA. Non in tutta la Chiesa cattolica essere prete sposato significa contravvenire alle leggi ecclesiastiche come nella Chiesa di Roma, che più esattamente andrebbe definita "latina" o "di rito latino". Nelle Chiese cattoliche orientali (v. scheda nella notizia successiva) è lecito e legittimo. Una differenza canonica, questa, che solleva non pochi interrogativi e sulla quale ha voluto indagare, nella sua tesi in giurisprudenza (Università di Siena), Stefano Sodaro, redattore di "Mosaico di pace", il mensile promosso da Pax Christi. La tesi, discussa nell’ottobre scorso (relatore Giovanni Minnucci), è diventata un libro, "Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale" (con prefazione di p. Dimitri Salachas, docente di diritto canonico presso il Pontificio Istituto Orientale e consultore della Congregazione vaticana per le Chiese orientali), edito da FPE - Franco Puzzo Editore di Trieste. Trieste è la città dove Sodaro vive, impegnato nel Consiglio pastorale diocesano e nella Commissione diocesana Giustizia e Pace. Gli abbiamo rivolto alcune domande. Di seguito l’intervista.


Come mai ha scelto di laurearsi con una tesi in diritto canonico sui preti sposati nelle Chiese Cattoliche d’Oriente?
Ho sempre coltivato un interesse molto vivo verso questa realtà così poco conosciuta, eppure presente e vitale all’interno proprio della Chiesa cattolica che sembra poter disporre, ma è appunto mera apparenza, di un clero esclusivamente celibe. I preti sposati cattolici delle Chiese orientali invece ci sono e meritano, secondo me, una considerazione nuova.
Le Chiese cattoliche d’Oriente non sono però numericamente così consistenti.
A parte il fatto che non sono d’accordo su un’impostazione di tipo "quantitativo" nei confronti di un problema, che non è semplicemente di natura pastorale, ma anche, e direi soprattutto, di natura ecclesiologica, vi è poi un dato che soltanto ora sembra venire alla luce nella sua pienezza seppure con mille avvertenze e prudenze.
 
Vale a dire?
Anche qui vorrei permettermi una duplice riflessione: intanto la vitalità delle Chiese orientali cattoliche è davvero stupefacente agli occhi di un osservatore non distratto, basti pensare ai formidabili interventi al Vaticano II del Patriarca cattolico melkita Massimo IV e poi nella stessa Chiesa latina, la Chiesa cattolica occidentale cioè che più ci è familiare, già da circa trent’anni esistono i diaconi permanenti, che sono spesso persone sposate. La vocazione al diaconato appare l’unica in costante e forte crescita. D’altra parte, dopo i fermenti del Concilio, l’identità dei diaconi è stata poco approfondita sul piano teologico - parlo da un punto di vista generale - e, dal punto di vista pastorale, la figura dei diaconi ha conosciuto una considerazione ambigua: nella peggiore delle ipotesi, i diaconi sono diventati una specie di "chierichetti adulti", e, nella migliore, dei semplici "supplenti" dei preti, bloccando in questo modo una riflessione approfondita sulla loro specificità di persone che hanno ricevuto un’ordinazione sacramentale. Dal punto di vista del diritto canonico le cose poi sono ancora più sfumate, ed anche se alcuni studiosi, come ad esempio il padre Beyer, rifiutano l’attribuzione di una natura sacramentale al diaconato, vi è il consenso dello stesso magistero sulla configurazione del diaconato conferito anche ad uomini sposati quale sacramento. Dunque l’Ordine Sacro accessibile anche a persone sposate è una realtà, non un’ipotesi o semplicemente - e riduttivamente - un problema controverso. Di ciò bisognerebbe cominciare a tener conto.
 
Però i diaconi non sono preti.
Sì, questo è vero, ma la condizione di coniugati dei diaconi ci permette di cominciare almeno a parlare della compresenza in un’unica persona delle due identità, ministro ordinato e coniuge. Certo, anche a mio parere, il "non-essere-preti" dei diaconi crea una situazione difficile da comprendere, poiché se è vero che una definizione "per via negativa" del diacono non è accettabile, nemmeno mi sembra chiara una sua delineazione "per via positiva".
 
Eppure, anche se lei afferma che l’identità diaconale è ancora piuttosto sfumata, non manca occasione ormai in cui non venga ribadito che il diacono è il segno del servizio, della "diaconia" di Cristo e della Chiesa.
Ma questo che cosa significa? La domanda su che cosa i diaconi possano o non possano fare viene quasi sempre liquidata sostenendo che in tal modo si contribuisce a mantenere una concezione di Chiesa basata sul "potere sacro" piuttosto che sulla comunione, sulla corresponsabilità, sulla partecipazione. Posso anche essere d’accordo, ma è proprio l’insegnamento della Chiesa cattolica ad avvertirci che solo il prete è il ministro dei sacramenti in cui il fedele ha un contatto personale, immediato e frequente con il Signore, tra cui l’Eucarestia e la Riconciliazione. Senza Eucarestia non può vivere una comunità, ma d’altra parte senza il prete - dice la Chiesa cattolica - non è assicurata la presenza eucaristica. Allora dal dilemma non si esce ed è per questo che alcuni hanno messo in discussione la valorizzazione puramente pastorale del diaconato, senza implicazioni dogmatiche, ed è anche per questo che ho preferito, nella mia tesi, dedicarmi alla figura del prete sposato orientale, piuttosto che a quella del diacono permanente occidentale. Il fatto che il prete orientale sia sposato crea indubbiamente un forte problema di comprensione nella Chiesa Latina, ma il fatto che sia prete rende la sua identità di ministro sacro immediatamente comprensibile: se è prete, capiamo tutti quale sia il suo ruolo nella comunità.
 
Sembra che così venga riproposto il tema del celibato dei preti.
Non vorrei apparire un diplomatico che evita il nocciolo dei problemi, ma desidererei rispondere che, tutto sommato, il celibato appare un aspetto secondario anche alla luce dei miei studi. Intendiamoci, non mi sottraggo ad un’analisi critica del dato storico in base al quale, ad un certo punto della sua storia, la Chiesa d’Occidente ha unito indissolubilmente sacerdozio e celibato, ma la mia formazione è giuridica, non teologica, per cui, da parte mia, posso - e devo - soltanto registrare che gli sviluppi disciplinari sono stati diversi in Oriente ed in Occidente. Non me la sento di dire, in una maniera che sarebbe francamente troppo semplicistica, che in Oriente le cose sono andate meglio. Un carissimo amico vescovo armeno mi diceva qualche giorno fa che, pur avendo la Chiesa armena cattolica recentemente ripristinato l’antica disciplina sulla possibilità di ordinare preti gli uomini sposati, non per questo c’è la fila di candidati fuori del suo seminario.
 
Basta però un approccio giuridico a questi temi?
Certo che non basta e sono pienamente convinto di questo. Credo però, d’altra parte, che alla riflessione giuridica all’interno della Chiesa gioverebbe un confronto con il pensiero giuridico laico.
 
Che intende dire?
La Chiesa Latina dovrebbe finalmente avere coscienza di essere soltanto "una" delle tante Chiese cattoliche. Il suo diritto non è il "diritto universale" della Chiesa che in quanto tale possa affermarsi su ogni altra tradizione canonica. Questo era il vecchio concetto della praestantia iuris latini, ma esso è stato completamente abbandonato dal Concilio ed ormai anche la prassi concreta della vita ecclesiale dovrebbe recepire l’acquisizione conciliare così importante. Bisogna, a mio parere, avere chiaro - ed in questo può essere d’aiuto la metodologia del diritto civile moderno - che i canoni della Chiesa latina configurano un ordinamento ecclesiastico all’interno della Chiesa cattolica, uno soltanto: accanto ad esso possono coesistere altri ordinamenti, diversi eppure appartenenti alla medesima comunione ecclesiale. La comunione non è primariamente un dato giuridico, bensì può essere il substrato che permette la vita di diversi ordinamenti canonici.
 
Pare un’opinione un po’ ardita. Chi garantirebbe i requisiti minimi perché questi diversi ordinamenti possano essere considerati tutti appartenenti alla medesima Chiesa cattolica? Già la diversità sul celibato sembra altamente problematica.
In effetti siamo abituati a concepire il diritto canonico, ed a volte, purtroppo, la stessa vita della Chiesa, come un monolite immobile, come una realtà statica, mentre almeno l’orizzonte ecumenico dovrebbe indirizzarci verso acquisizioni nuove. Il Vaticano II - ed anche il Codice dei Canoni delle Chiese orientali - parla chiaramente dell’adozione del criterio della hierarchia veritatum, della "gerarchia delle verità di fede", che consentirebbe di aprire davvero in senso cattolico, cioè universale, l’abbraccio della Chiesa, che è una come uno solo è il Signore, a Chiese, quali le Chiese ortodosse, che condividono sostanzialmente tutte le verità dogmatiche considerate fondamentali dai cattolici, come la presenza eucaristica, la dottrina del sacerdozio ordinato, l’episcopato.
 
Ma gli ortodossi, come i protestanti, hanno pastori e preti sposati.
Non dovrebbe essere questo mai un motivo di raffreddamento dei rapporti ecumenici. Si tratta di una questione disciplinare, giuridica appunto. E, secondo me, bisognerebbe imparare a comprendere bene. Per le Chiese riformate il ministero del pastore non è un sacramento in senso cattolico. Per gli ortodossi sì. Nelle Chiese ortodosse, dunque, un uomo sposato può diventare prete, ma un prete, ordinato da celibe, non può più sposarsi dopo l’ordinazione. Nelle Chiese della Riforma ciò è possibile, a mio parere, proprio per la diversa concezione del ministero ordinato.
 
Non si rischia in questo modo di accentuare differenze piuttosto secondarie, invece che favorire la comprensione? Mi permetta, la sua stessa tesi di laurea si occupa delle Chiese orientali cattoliche: non teme che qualcuno possa reputarla un fautore dell’Uniatismo che tanti problemi crea con il mondo ortodosso?
Vorrei ribadire ancora che non sono un teologo, ma un semplice laureato in giurisprudenza e pertanto il mio approccio al tema è strettamente giuridico ed il diritto impone una severità d’approccio che, se risulta utile in ambito civile, mi pare francamente da tenere sotto controllo in ambito ecclesiale. Desidererei cioè che, a partire da una constatazione giuridica, senza la quale peraltro non si capisce neppure di che cosa stiamo parlando, si possa sviluppare una gamma molto più vasta di approfondimenti multidisciplinari su questo nodo irrisolto: preti sposati nella Chiesa cattolica ci sono e sono i preti di rito orientale. Come ci comportiamo di fronte a questa realtà? La ignoriamo? La confiniamo in un angolo? La nascondiamo? Oppure la affrontiamo a viso aperto e ne parliamo, senza pregiudizi e senza diatribe? Il mio approccio canonistico è partito proprio dalle Chiese cattoliche d’Oriente non per additarle come esempio a discapito delle altre Chiese, ma per mettere la presenza dei loro sacerdoti legittimamente sposati al centro della discussione all’interno stesso della Chiesa cattolica.

E per saperne qualcosa bisogna dunque richiedere una copia della sua tesi?
A Trieste, la città dove vivo e dove abbiamo ben due Chiese ortodosse di rito bizantino, una serba che è anche cattedrale, risedendovi il Metropolita Jovan, e l’altra greca, un giovane editore ha creduto che si potesse pensare alla pubblicazione della tesi, che è imminente. La casa editrice è la FPE - Franco Puzzo Editore ed il volume si intitolerà "Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale". Abbiamo chiesto a padre Dimitri Salachas, che è uno studioso di fama mondiale del diritto delle Chiese orientali cattoliche, di scrivere l’introduzione. Il volume sarà disponibile nelle librerie religiose, oppure mi si può contattare direttamente: dr. Stefano Sodaro - Via Rossetti 77, 34141 Trieste, tel. 040944105, fax 040948737, e-mail: drsodaro@twin.it.
 
Che significa la parola "Keshi" che compare nel titolo?
La mia fidanzata, che è eritrea, mi ha spiegato che in lingua tigrina, la lingua proprio dell’Eritrea - un Paese africano di antichissima tradizione cristiana proprio seguendo il modello canonistico e liturgico orientale -, il "Keshi" è il sacerdote sposato, mentre l’"Abba" è il prete celibe. Il "Keshi" è primariamente il ministro dei sacramenti, colui di cui c’è bisogno perché la comunità abbia l’Eucarestia, mentre l’"Abba" è il prete monaco, quasi sempre membro di qualche comunità che vive fuori delle città, in luoghi di ritiro, eppure anche la sua ordinazione è - se mi posso esprimere così - "funzionale" alla vita sacramentale della comunità dove vive. In Oriente difficilmente c’è spazio per una concezione "privatistica" del sacerdozio.
 
In Italia ci sono preti cattolici orientali legittimamente coniugati?
Nelle due eparchie - le "diocesi" del diritto latino, per intenderci - di Lungro in Calabria e di Piana degli Albanesi in Sicilia mi risulta che ci siano presbiteri sposati.
 
Ma non potrebbe allora qualcuno pensare di farsi orientale e da sposato chiedere l’ordinazione?
Mi consenta di risponderle che la domanda è molto meno ingenua o banale di quanto potrebbe sembrare. La materia del passaggio di rito è uno dei temi cui mi sono dedicato con maggior attenzione, ritenendo proprio che possano configurarsi casi come quello indicato da lei. Bisogna allora dire che sì, è possibile ad un fedele latino sposato, in casi ben determinati e circoscritti, passare ad una delle Chiese orientali, ma l’ordinazione sembra essere problematica.
 
Vogliamo parlarne un po’?
I casi nei quali è consentita, a norma del Codice di Diritto Canonico, l’ascrizione ad una Chiesa rituale di diritto proprio - come vengono indicate "tecnicamente" le Chiese cattoliche orientali - sono sostanzialmente due: il matrimonio con una donna di rito orientale, anche ortodossa e dunque non cattolica, e l’appartenenza ad una diocesi latina che abbia la medesima estensione territoriale di una diocesi orientale, fatto frequentissimo in Medio Oriente soprattutto, ma anche nell’Europa dell’Est. A questi casi dobbiamo aggiungere l’eventualità di una domanda direttamente alla Santa Sede.
 
Perché l’ordinazione sarebbe problematica in caso di passaggio di rito?
Le difficoltà sono di duplice natura. Intanto è necessario considerare che il Codice orientale non a caso si intitola "Codice dei Canoni", quasi una specie di "legge quadro", dunque, che lascia poi ai diritti particolari delle singole Chiese la disciplina specifica di molti aspetti canonici quale proprio l’ordinazione sacerdotale degli uomini sposati. Sotto questo profilo, presso alcune Chiese orientali cattoliche l’antica tradizione di ordinare sacerdoti uomini sposati era quasi del tutto sparita ed è appena adesso riscoperta sulla scia del magistero conciliare, mentre presso altre Chiese non è stata mai abbandonata. Ora, non tutte le Chiese cattoliche orientali consentono che un fedele latino passato al rito orientale possa essere ordinato presbitero, considerando questa una specie di elusione della legge latina sul celibato. Vi è poi il caso in cui un fedele latino chieda direttamente alla Santa Sede l’indulto per passare ad un rito orientale: in tal caso, mi risulta che venga apposta la specifica clausola exceptis ordinibus, cioè il soggetto in questione può transitare al rito orientale, ma non può ricevere l’ordinazione.
 
Allora non c’è, diciamo così, "via d’uscita"?
Il passaggio di rito non può e non deve assolutamente essere considerato una specie di stratagemma per vanificare la legge ecclesiastica latina. Nella rigorosità d’approccio che il sapere giuridico richiede, vi è anche la necessità di prendere molto sul serio quanto il dato normativo presenta (anche se, certo, la legge non salva…). Detto questo, rimango però molto perplesso sul voler attribuire rilevanza giuridica al modo con cui può essere definita l’appartenenza ad una Chiesa orientale: che essa sia conseguente al battesimo, od invece al matrimonio, o ad una diversa circostanza che merita però di essere considerata per la sua particolarità, che differenza fa? Dal punto di vista strettamente giuridico, mi pare nessuna. Ed infatti ho stentato, anzi non sono proprio riuscito ad individuare quale sia il fondamento normativo della clausola exceptis ordinibus. Evidentemente si tratta piuttosto di una preoccupazione pastorale, ma non potrebbe la pastorale delle nostre Chiese cominciare a confrontarsi serenamente con la realtà dei ministri ordinati coniugati?
 
Questa realtà, mi pare di capire dalla lettura della sua tesi, ha altri risvolti, di ordine piuttosto culturale.
Ho impostato il mio lavoro sull’analisi della diversa concezione esistenziale in Occidente ed in Oriente: noi siamo abituati ad assumere categorie escludenti, l’aut aut informa, plasma tutta la nostra cultura, l’Oriente invece, secondo me, ha come proprio paradigma di riferimento l’et et che, come afferma il teologo Paolo Suess, non esclude, ma combina assieme. Questa diversa concezione orientale permette, a mio modo di vedere, un’inedita possibilità di dialogo con i fermenti del pensiero post-moderno, certo più rilevanti a livello filosofico che giuridico, in cui il "frammento" acquista una centralità di considerazione tale per cui vi è il rischio di una dispersione, di una parcellizzazione incontrollabile. La teologia orientale può ricondurre ad armonia il molteplice senza omologarlo. Del resto, non è forse in qualche modo di questa natura l’ecclesiologia del "sobornost", che nemmeno si riesce a tradurre nella nostra lingua e che il termine di "sinodalità" riesce a rendere molto parzialmente?
 
In conclusione, che cosa pensa del celibato nella Chiesa d’Occidente?
Guardi, le risponderò con estrema franchezza: considero il celibato abbracciato come scelta volontaria un grande dono di Dio. Dilatare il proprio cuore fino a considerare ciascuno come propria carne, come proprio sposo, propria sposa, è una dimensione di sconvolgente bellezza. E questo fa il monachesimo cristiano di tutti i tempi e di tutte le latitudini, secondo il quale, come afferma Evagrio Pontico, "il monaco è separato da tutti ed unito a tutti". Se anche il celibato sacerdotale è vissuto così, non vedo quale sia il problema, anzi, ripeto, si tratta secondo me di una immensa ricchezza. Se però il celibato è soltanto obbedienza di tipo giuridico ad una norma canonica, allora esso inevitabilmente manifesterà i segni di una menomazione esistenziale che avrà terribili ricadute di ordine psicologico, sociologico e pastorale. Riconsegniamo allora il celibato alla sua matrice monastica, che è, a mio parere, la sua matrice più pura e consideriamo, proprio in quest’ottica, che le Chiese orientali ci presentano una duplice figura di presbitero: lo "ieromonaco", cioè il prete monaco, il prete celibe, che, in quanto celibe, ha compiuto appunto un’opzione monastica, ed il prete sposato, che ha intrapreso un’altra strada. Per quanto mi risulta non c’è polemica, in Oriente, sulla compresenza di queste figure sacerdotali. E poi, se posso permettermi, mi piacerebbe che si riscoprisse quanto insegna il Vaticano II, al n. 16 del Decreto Presbyterorum Ordinis: il celibato, sebbene risulti particolarmente confacente alla vita presbiterale di dedizione alla causa del Regno dei cieli - che è una causa rivoluzionaria, come ci insegnano i teologi del Sud del mondo -, "non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio, come dimostra la prassi della Chiesa primitiva e la tradizione delle Chiese orientali, presso le quali, accanto ai vescovi che sono tutti celibi, esistono eccellenti presbiteri coniugati". Questo è il Vaticano II, non il pamphlet di qualche polemista. Ma forse il Concilio conosce un periodo di indebita sottovalutazione: è compito di noi tutti ricollocarlo al centro della vita ecclesiale. Senza il Vaticano II, quale Chiesa avremmo oggi?

Lunedì, 14 aprile 2003