Il presbitero ed il sacramento del matrimonio.

 di Nadir Giuseppe Perin [1]

Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. p. Nadir Giuseppe Perin è dottore in Teologia dogmatica presso l’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all’Università Lateranense - Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychiatric Nursing presso la Mental Health Division di Toronto; specializzato in scienze psicopedagogiche presso l’Università di magistero dell’Aquila. Per contatti: nadirgiuseppe@alice.it )


Quando un prete matura nella sua coscienza, consapevolmente e responsabilmente, la certezza che Dio lo chiama, oltre che a svolgere il ministero sacerdotale, anche alla vita matrimoniale, per cui, dopo attenta e matura riflessione e dopo aver espletate tutte le formalità prescritte, accogliesse sacramentalmente, con pienezza di dono, la sua sposa per condividere assieme a lei  un progetto di vita secondo gli insegnamenti del Vangelo – i casi sono molti – quante persone si scandalizzerebbero per questo?

Penso che al giorno d’oggi  pochissimi sarebbero coloro che si “strapperebbero le vesti” in segno di scandalo o meraviglia. Ritengo, infatti, che sia una cosa buona ed utile il poter parlare serenamente, scambiare opinioni su temi importanti riguardanti la vita del Popolo di Dio, la figura e la persona del prete al quale è stata affidata una porzione del “gregge di Cristo”. Quando l’opinione pubblica s’interessa di questi temi e di queste realtà significa che la figura del prete e il ministero presbiterale appartengono anche ai tempi attuali. Se non fosse così vorrebbe dire che non suscitano né interesse, né amore e neppure odio. Farebbero la fine di un fossile di cui si parla solo nei trattati di geologia, ma difficilmente nelle conversazioni ordinarie di ogni giorno.

Qualche anno fa ho scritto e pubblicato un libro dal titolo:“uomini senza collare”- Sacerdoti senza ministero”[2], dedicato ai presbiteri sparsi nel mondo che, per ragioni diverse, non esercitano più il ministero pur continuando a recare in sé la speciale configurazione a Cristo, insita nel carattere indelebile dell’Ordine sacro e molti – anche da sposati, grazie al Rescritto di dispensa ricevuto - mantengono vivo l’impegno della coerenza cristiana e della comunione ecclesiale.

La domanda fondamentale del libro sopra citato, rivolta sia a coloro che nella Chiesa hanno l’autorità e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, che al Popolo di Dio, è: “che cosa si potrebbe fare di più e di meglio affinché anche “questi uomini senza collare, sparsi nella varie comunità diocesane e parrocchiali del mondo, non siano costretti a vivere ai margini della comunità ecclesiale, ma possano collaborare con i loro confratelli nel sacerdozio e partecipare attivamente alla vita del popolo di Dio? Affinché la loro presenza, da scomoda ed ingombrante per alcuni, possa diventare, invece, per tutti un dono prezioso di Dio da valorizzare a servizio dell’intera comunità ecclesiale diocesana e parrocchiale di cui fanno parte ?

Penso che sia una cosa buona, cominciare a discutere serenamente all’interno delle varie comunità della possibilità che un domani il ministero presbiterale possa essere esercitato anche da “uomini sposati” e da “preti sposati” e che il “celibato”, cioè scegliere di non sposarsi, per coloro che si sentono chiamati da Dio ad essere prete nella comunità degli uomini, non sia più imposto da una legge emanata dagli uomini, ma una libera risposta dell’uomo a questo dono (carisma) dello Spirito.

Tutti conosciamo che tra i motivi che hanno spinto coloro che nella chiesa hanno l’autorità e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale ad imporre il celibato a chi vuole “essere e fare il prete” è  quello diavere “il cuore indiviso”, di poter amare tutti e non una sola persona; di avere tempo per tutti e non pensare solo alla propria famiglia; di essere totalmente disponibile alle esigenze della sua comunità.

Ritengo che il presbitero debba e possa essere  l’uomo di tutti - non perché celibe – ma perché è chiamato a svolgere un ministero che non può essere chiuso in recinti precostituiti. Non appartiene ad una casta che debba difendere i propri interessi ed il proprio prestigio, ma appartiene, invece, a tutta la comunità umana e non solo a quella ecclesiale. Esiste perché esiste una comunione di uomini, concretamente vivente in un periodo storico, con precise situazioni umane, culturali e religiose, con domande e difficoltà tipiche dell’epoca nella quale questa comunione umana vive e si sviluppa e alla quale deve portare “la Buona Notizia” di Cristo.

La vocazione presbiterale, infatti, è rivolta al culto divino ed al servizio religioso e pastorale del popolo di Dio. Il compito del presbitero nella comunità è quello di Annunciare la Parola di Dio e di nutrire la comunità ecclesiale con l’Eucaristia.

Ma, tale compito puòessere espletato in pienezza di dono anche dal prete sposato? Sono convinto di sì perché altrimenti non si capirebbe perché i preti della chiesa cattolica orientale possono esercitare il ministero pur essendo sposati. Non significa, forse, che il ministero presbiterale a vantaggio della comunità può essere esercitato in pienezza anche dal prete sposato?

D’altra parte lo stesso Concilio Vaticano II, riferendosi ai presbiteri della Chiesa orientale, riconobbe che coloro che avevano ricevuto il presbiterato, pur essendo sposati, oltre che perseverare nella santa vocazione matrimoniale, riescono anche a dedicare la propria vita, con pienezza e con generosità, ai fedeli che vengono affidati alle loro cure pastorali. Dunque, la vita matrimoniale, in sé, non impedisce che il prete-sposato possa “dedicare la propria vita, con pienezza e con generosità, ai fedeli che vengono affidati alle sue cure pastorali”!

In questo contesto ed in questa ottica anche il matrimonio di un prete può significare e mettere in risalto il grande valore teologico del matrimonio cristiano.

Nelle lettere del Corpus Paulinum, specialmente a 1Tm 3,2 ss e Tt 1,6,ss, emerge l’analogia posta da tali lettere tra il governo della casa e il governo della chiesa per sottolineare che una buona capacità coniugale e parentale è un buon indizio della capacità di governare la famiglia ecclesiale. Infatti, la logica delle lettere pastorali sembra voler sottolineare come la famiglia del prete-sposato sia un segno visibile del carattere familiare della comunità ecclesiale, al punto che un criterio di discernimento che le prime comunità cristiane, fondate dagli Apostoli, avevano per scegliere colui o coloro che dovevano guidarle pastoralmente era proprio la sua capacità di essere un buon marito e un buon padre, sia pure nei termini della cultura familiare del I sec. d.C.

Che cosa chiede Dio ai coniugi cristiani e di conseguenza anche al prete che si è sposato perché chiamato da Dio alla vita matrimoniale? Dio chiede a tutti i coniugi cristiani l’esemplarità della vita coniugale e l’esemplarità dell’amore coniugale. La castità coniugale, che viene vissuta e testimoniata con gioia anche dalla coppia cristiana e di cui si parla nel Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Humanae Vitae, nella Familiaris Consortio, non significa che i due sposi si debbano “astenere dal “fare l’amore”, ma significa che i due sposi cristiani devono mostrare e testimoniare la “verità dell’amore coniugale”in ogni suo aspetto, compreso il linguaggio fisico; il linguaggio dello scambio corporale che deve essere parte vera di questo amore coniugale.

Questa prospettiva riguarda anche la “coppia sacerdotale”. Ambedue sono chiamati non soltanto in termini morali, come ogni altra coppia cristiana, ma anche in termini deontologici, cioè comportamentali, al compito di amarsi in modo pieno e perfetto perché sono chiamati ad essere esemplari anche nell’amore coniugale.

Quando noi guardiamo al prete-sposato è falso pensare e ritenere che il prete perché sposato abbia rinnegato l’amore; invece, la famiglia del prete sposato sottolinea, la continuità, la crescita, la maturazione dell’amore stesso.

Nel passato era difficile dimostrare questo perché non c’era una teologia del matrimonio dal momento che questo era semplicemente un contratto tra un uomo ed una donna in ordine alla procreazione ed alla educazione della prole.

Oggi, invece, la teologia del matrimonio e della famiglia ci dice in maniera chiara come ci sia una continuità tra il sacramento del matrimonio ed il sacramento dell’ordine. La stessa “Familiaris Consortio” ci dà una immagine della famiglia che è in realtà concepita come realizzazione della comunione  ecclesiale, cioè della Chiesa che viene definita comunione (koinonia).

Nel rapporto coniugale, quando l’uomo e la donna diventano unidualità, essi, in forza del sacramento, sono il segno vivente della manifestazione della comunione feconda della Chiesa. La famiglia, infatti, è chiamata a vivere la stessa missione della Chiesa, ed è pienamente inserita nel ministero profetico, sacerdotale e regale di Cristo Signore.

In questa nuova prospettiva anche la coppia investita della chiamata presbiterale dell’uomo è in realtà nella continuità della vocazione coniugale e familiare e ne porta a pienezza il senso ecclesiale.

Nella lettera alle famiglie del 1994, Giovanni Paolo II, commentando Ef 5,32 affermava: “ Non si può comprendere la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, come segno dell’Alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al grande mistero congiunto alla creazione dell’uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all’amore coniugale, alla paternità ed alla maternità. Non esiste il grande mistero che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell’essere una sola carne, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio e come “chiesa domestica” essa è sposa di Cristo. La Chiesa universale ed in essa ogni chiesa particolare si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella chiesa domestica e nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni. L’amore umano è forse pensabile senza lo Sposo (Cristo) e senza l’amore con cui egli amò fino alla fine? Solo se gli sposi prendono parte a tale amore e a tale grande mistero, possono amare fino alla fine: o di esso diventano partecipi oppure non conoscono fino in fondo che cosa sia l’amore e quanto radicali ne siano le esigenze”[3].

Anche “la coppia sacerdotale”, cioè la famiglia del prete sposato è chiamata a diventare con la propria esistenza coniugale e sacerdotale l’immagine viva dell’unità profonda di questo grande mistero: sia in quanto matrimonio-famiglia sia in quanto comunità-chiesa. In realtà il prete sposato vive l’unità di questi due misteri in modo più profondo, perché nel “sacerdozio uxorato” non c’è soltanto il rinvio simbolico tra famiglia e comunità ecclesiale, ma c’è la coincidenza: la famiglia diventa in qualche modo comunità ecclesiale e viceversa.

Sono l’unica chiesa che si manifesta in due forme omologhe e concentriche. L’amore coniugale di colui che è chiamato al presbiterato nell’unidualità della comunione coniugale è destinato ad essere immagine viva di quell’amore dello sposo (Cristo) che pone la propria vita per la sua Chiesa (Sposa).

Il Clero uxorato mostra, quindi, con la sua esistenza la vocazione ecclesiale piena di ogni matrimonio cristiano e l’unità profonda della manifestazione del grande mistero della chiesa-domestica e della chiesa-comunità. Questo perché il matrimonio ed il presbiterato non sono in contrapposizione, ma in continuità ed unità tra loro e di conseguenza, il prete sposato è in piena fedeltà a Dio, alla sua famiglia ed alla comunità [4].



[1] Dottore in Teologia dogmatica e morale.

[2] Nadir Giuseppe Perin, Uomini senza collare –Sacerdoti senza ministero – Ed. EDUP, Roma 2005

[3] Cfr. Giovanni Paolo II,Lettera alle famiglie, 1994 - Supplemento all’Osservatore Romano, Tipografia Vaticana

[4] Cfr. Don Basilio Petrà, Clero uxorato: una ricchezza ecclesiale che si vuole occultata, in Adista  28 0ttobre 2006, p. 8-10



Lunedì, 05 novembre 2007