Preti sposati
«...forse ho ancora un filo di speranza.»

di Alessandro Pasquinelli

Una vicenda amara e per certi versi sconvolgente ma non nuova di un prete ora felicemente sposato e con un figlio.


Abbiamo ricevuto questa lettera da Alessandro Pasquinelli, pretesposato che racconta la sua lunga e dolorosa vicenda. Essendo la sua vicenda non ancora conclusa da un punto di vista giudiziario e non conoscendo nel dettaglio la vicenda narrata ci asteniamo da giudizi e valutazioni. Abbiamo deciso per la pubblicazione di questa testimonianza per il fatto che la sua vicenda è di dominio pubblico e ci è sembrato giusto dare a lui la parola affinché possa raccontare la sua terribile storia, per come l’ha vissuta. Siamo ovviamente disponibili a concedere il diritto di replica a quanti lui accusa. Chi vuole può esprimere i propri commenti usando gli appositi link in fondo alla presente pagina.


Mi chiamo Alessandro Pasquinelli, 37 anni, sacerdote da 12. Sono stato parroco in due diverse comunità cristiane della provincia di Pistoia e di Lucca. Vivo in una profonda crisi  per un imbarazzante e spiacevole incidente accaduto più di quattro anni fa, ma che ha prodotto i suoi primi risvolti preoccupanti e drammatici già nella parrocchia di Monsummano Terme di cui sono stato parroco dall’anno 1998. L’incidente giudiziario risale al 2002, mentre ero responsabile di una struttura per minori da 0 a 6 anni da me progettata e costruita con tutte le autorizzazioni previste dal codice di diritto canonico e civile.  A questa struttura ho dedicato il mio tempo e le mie energie, sentendola come una mia creatura.

Raccontare la vicenda giudiziaria che mi ha travolto non è semplice perché è come riviverla. Tra denuncie, perizie, avvocati e giudici, sono anni di Calvario, al quale sono stato condannato gratuitamente. Il mio superiore ha cercato di convincermi in ogni modo, che quanto mi stava accadendo era un privilegio che Dio regala alle persone che ama e che la mia ribellione faceva di me un egoista e un ingrato. Ho provato con tutto me stesso di far mia questa “spiegazione spirituale” per accettare, con totale fiducia nella Provvidenza, il male ingiusto che mi travolgeva. Sfortunatamente, vuoi per la mia fede fragile, vuoi per un’idea un po’ personale di Dio, sono giunto a dire al dio del mio superiore di non voler essere amato da lui. Capivo, infatti, che la chiesa voleva salvare la faccia e coprire altri scandali, senza schierarsi dalla parte della verità e della giustizia. Questa scoperta mi ha causato tanta sofferenza e delusione. È difficile accettare che a farti del male siano proprio quei compagni di viaggio con i quali hai combattuto le più dure battaglie. Solo la scelta di amare una donna, Manuela, oggi mia moglie e madre di mio figlio, mi ha consentito di salvare la mia fede, anche se tra tanti dubbi.

Tutto ebbe inizio la vigilia di Natale di cinque anni fa, mentre svolgevo, felice e sereno, il ministero nella mia prima parrocchia fondata da appena vent’anni ai piedi di una vecchia cava. La nomina mi era giunta dopo un anno dall’ordinazione, trascorso nella più totale emarginazione, al servizio di una parrocchia senza incarico ufficiale né considerazione alcuna da parte dei superiori. In questo periodo iniziai a temere di dover vivere un sacerdozio a titolo personale, svincolato da una comunità ecclesiale per fare il tappabuchi della diocesi.      

La nomina a parroco giunse pochi giorni dopo aver chiesto di dedicarmi ad altri servizi propostimi in Vaticano. Il vescovo ritenne che ero troppo giovane per accettarli e che, prima di prendere il volo, dovevo farmi le ossa attraverso il lavoro pastorale.

      Il nuovo incarico mi riempì di felicità e di soddisfazione anche se la realtà che mi attendeva non era certo come la immaginavo nella mi fantasia di giovane inesperto e un po’ immaturo.

Fu dopo alcune difficoltà e incomprensioni con un gruppo di parrocchiani molto legati ai miei predecessori che scelsi di vivere un sacerdozio in una dimensione più sociale, cercando di “farmi prossimo” di chi aveva bisogno. Ero stanco dei cristiani petulanti impegnati a vivere una fede vuota e senza senso. Questa per me era una novità. Ero sempre stato il classico pretino ordinato e dedito alle liturgie. Lo scontro con la dura realtà del mondo, lontano dalla protezione del seminario, stravolse la mia vocazione. Decisi, quindi, di abbracciare una dimensione più vera e più congeniale. Mi lanciai così in un’opera di accoglienza per i minori a rischio affidandola all’impegno e alla generosità della comunità cristiana che presiedevo come parroco. Volevo vivere non “per” ma “con” la mia gente, unendo alla preghiera e alla pratica liturgica una concreta esperienza di carità. Il mio intento era di imparare dagli ultimi, insieme con i miei parrocchiani, ciò che le belle cerimonie né i corsi di teologia ci possono trasmettere.

      La mia scelta non fu apprezzata dai superiori, che volevano un prete più “liturgico”, dedito unicamente ai sacramenti e alla liturgia. Il lavoro sociale poteva essere portato avanti da un laico e – a loro modo di vedere – mi portava lontano dalla mia vocazione. Questi rimproveri mi causavano tanto dolore e altrettanto smarrimento. Mi dicevo: «questo credo che sia il mio talento; perché i miei superiori non lo capiscono?».  Guardandomi attorno trovavo nelle facce dei giovani tanta felicità per l’opera che assieme portiamo avanti. Stretto tra due fuochi – da una parte la soddisfazione della mia gente e dall’altra l’inquietudine di un prelato disturbato per le mie scelte – decisi di procedere, convinto che prima o poi avrei trovato la collaborazione e la comprensione della chiesa locale.

      La casa di accoglienza iniziò senza la benedizione dei superiori, attraversando mille difficoltà, anni di duro lavoro e di crescita per me e per tutte le persone impegnate in questo progetto.

I problemi – mi riferisco a quelli giudiziari - ebbero inizio il 27 dicembre 2002 quando fui convocato, con il consiglio d’amministrazione – la casa famiglia era gestita da una O.n.l.u.s – dalla Azienda Sanitaria, con la quale avevamo una regolare convenzione. Seduta stante fui costretto alle dimissioni senza che fossero prodotte le motivazioni, facendo leva sulla mia condizione di sacerdote, sotto gli occhi attoniti di alcuni membri del consiglio d’amministrazione. Mi fu promesso di rivelarmi il perché in seguito. L’alternativa era la chiusura immediata della struttura e il trasferimento dei minori in altra sede.

        Nella stessa mattinata ricorsi al mio superiore per avere appoggio e consiglio. Le mie aspettative andarono deluse. In un stato d’animo terribile rassegnai le dimissioni dalla parrocchia. Fui raggiunto da una lettera dove, nonostante la mia dichiarata innocenza, ma in forza della mia promessa di obbedienza, mi si sconsigliava di non pensare ad alcuna azione legale, perché «andava a scapito della Diocesi, della parrocchia e della casa famiglia». Un sacerdote è legato ai propri superiori dalla promessa di obbedienza e non può disattendere “un loro consiglio”.

    Con la stessa lettera, il 4 gennaio 2003 – tre giorni dopo le mie dimissioni – mi veniva comunicata la mia nomina a parroco della comunità di Marginone, fissando la data del mio ingresso il 2 febbraio. Non ho mai avuto modo di parlare, sia pur superficialmente, di una mia eventuale innocenza o responsabilità inerente alle accuse che mi venivano mosse. Ho avvertito, in quel momento, l’intenzione dei superiori di chiudere nel più breve tempo possibile e con il minor scandalo l’intera vicenda. Venivo accusato di maltrattamenti verso i minori residenti nella struttura e, fatto ancor più esecrabile, di pedofilia.

Un nutrito gruppo di parrocchiani chiese udienza al vescovo, auspicando il suo intervento in mia difesa, per scongiurare una tale ingiustizia e la propagazione di una accusa ancor più grave: la pedofilia. I superiori risposero che non mi avrebbero difeso, perché «…non potevano, non conoscendo i fatti a fondo». Molti sospettarono che ero stato dimesso perché pedofilo; il motivo di queste malignità mi era ignoto. Sono convinto che, sia le mie dimissioni caldeggiate dal Superiore, che l’assenza di serie indagini, contribuirono a confermare nella mente della gente la veridicità di certe accuse. Solo pochi mesi prima alla mia vicenda, infatti, la medesima accusa aveva colpito ben due sacerdoti (vera in quei casi) della mia piccola diocesi. Uno di questi preti non ha avuto alcun processo presso il giudice statuale italiano.

     I Superiori, nello stesso tempo, ricevettero anche una telefonata dal Tribunale dei minorenni di Firenze, per chiedere delucidazioni sul mio presunto reato. Le loro parole rassicurarono il Magistrato, sostenendo che alla base delle mie dimissioni c’era soltanto una “inopportuna” gestione della struttura e dei minori che gli era stata comunicata dal servizio sociale e non confermata da coloro che collaboravano con me. Telefonarono anche a me per trovare rassicurazione circa la mia versione dei fatti e la mia estraneità alla violenza sessuale. Rimasi sbalordito che si potesse parlare di un simile argomento per telefono e in pochi minuti mentre camminavo per strada. Di questo argomento, da quel giorno, non se n’è più parlato. In una lettera mi  dichiaravano: «non è certo con piacere che  si veda prospettarsi questa possibilità di una indagine…mi è sufficiente sulle accuse che ti sono state rivolte, che tu abbia professato la tua estraneità».

      Feci ingresso nella nuova parrocchia con la morte nel cuore costretto a convivere con l’ingiusta accusa del peggiore dei reati. Più volte e in più modi chiesi ai superiori : «Mi si accusi di tutto ma non permetta che la gente pensi a me come ad un pedofilo perché non lo sono». Mi sentivo un sopravvissuto risucchiato dal vortice della sofferenza. Costretto all’esilio di me stesso, mi pareva di essere sottoposto a un martirio dell’anima. Dio quanto ho sofferto!  

      Nei due anni seguenti tentai ancora di captare l’attenzione del superiore sulla vicenda giudiziaria che stava per esplodere, nella speranza di ottenere il permesso di procedere ad azioni legali che avrebbero consentito alla verità di venire a galla. Tutto fu inutile. Ogni volta mi veniva ricordato l’ordine di tacere con le minacce più assurde. Mi veniva concesso solo di attendere e temporeggiare, fingendo, con la gente, che tutto andava bene.   Mi sentivo un verme!

Ogni giorno venivo assillato da un interrogativo: «Ma se fossi realmente un pedofilo come è possibile trasferirmi in un’altra comunità di cristiani a contatto con altri minori, senza nemmeno svolgere delle indagini, fidando unicamente sulla mia parola? E se i genitori di questi bambini che frequentano il catechismo sapessero, cosa potrebbero dire? Non è forse giusto informarli lasciando loro la possibilità di fidarsi del loro parroco?». I superiori non volevano nemmeno sentirli i miei interrogativi che definivano dei veri e propri deliri! Mi dicevano: «sei malato…curati!».

Essendo innocente non facevo che domandarmi, all’opposto, perché permettere che un incolpevole subisca tali affronti così passivamente. Nessuno dei miei superiori, invero, prese mai in considerazione la possibilità di una mia difesa attraverso denuncie e processi.  

Tutto sembrava tacere fino al maggio 2003; in quel periodo ricevetti la visita di un’educatrice della casa famiglia assunta durante la mia gestione, in compagnia di una sua collega, a me sconosciuta e anch’essa educatrice. Le due donne mi informavano di una macchinazione in atto ai miei danni: mi si accusava di violenza su un minore di anni 12, ospite della struttura. Due persone, succedutemi a seguito delle mie dimissioni, avevano dato vita a certi sospetti su di me, lasciando intravedere la possibilità che fossi un pedofilo e tentavano di insinuare presunte avances al figlio della cuoca di anni 16. La sig.ra lamentava di essere importunata dalla due colleghe con pressioni tese ad affermare cose non vere sul mio conto. Ciò che più le dava fastidio era che, a metterla in un simile imbarazzo, erano le minacce della perdita del lavoro. Con cattive intenzioni, le due donne, andavano tessendo, ai miei danni, la fantasiosa accusa di violenza sessuale su di un minore aggiungendovene un secondo per rafforzare l’accusa.

Dall’ascolto di questo racconto presi occasione per indirizzare le due educatrici dal mio Superiore, al fine di ottenere un suo immediato intervento. Qualche giorno dopo ebbi un secondo incontro con entrambe; fu allora che scorsi in loro un certo scoramento; anche stavolta il superiore non poteva fare niente, sostenendo che simili fatti possono accadere solo nelle telenovelas sud-americane (sic!). Lo sgomento delle due donne era evidente e non poteva che sposarsi con il mio. Fu allora che chiesi consiglio personalmente ai superiori sul da farsi. La risposta di disarmante: «viviamo alla giornata, non cominciare a pensare ad alcuna azione legale, stai nella tua parrocchia e fa il tuo lavoro, vedrai…».

Dunque: mi si accusa di aver violentato un minore. E il vescovo sceglieva lo stesso atteggiamento assunto di fronte alle accuse di violenza sessuale, che coinvolgono diversi preti in molte parti del mondo: coprire, rimuovere, dimenticare. Ancora oggi stento a crederlo…

     Nonostante il divieto decisi di dar inizio ad una serie di  azioni legali, tra le quali: il riconoscimento di una retribuzione al lavoro che avevo svolto come responsabile della struttura (il denaro mi sarebbe servito per pagarmi un legale, visto che la chiesa non mi avrebbe dato una lira);  alcune denuncie verso coloro che si erano fatti delatori preso la Asl di calunnie nei miei riguardi. Quando il Superiore fu messo al corrente di queste mie iniziative ebbe per me parole offensive e assai dure. Voleva impedire ad ogni costo la propagazione della mia vicenda giudiziaria.

Nel giugno dello stesso anno seppi che le mie accusatrici erano state costrette alle dimissioni dalla Asl,  la medesima che era stata, pochi mesi prima, all’origine del mio allontanamento. Le motivazioni erano le loro arbitrarie investigazioni. Il minore che aveva subito la presunta violenza era stato sottoposto a delle perizie mediche all’insaputa dei servizi sociali affidatari, i quali, venuti a conoscenza di certi sotterfugi, avevano denunciato le due donne al loro diretto superiore.

      Resi note queste notizie al Superiore, che rispose: «Chi di spada ferisce, di spada perisce». Con questo detto pensava di mettere fine alla vicenda. Non fu così. 

Fino a quel punto mi ero attenuto – non potevo far altro se volevo continuare a fare il prete – ai suggerimenti dei superiori: temporeggiare, non prendere provvedimenti per il bene della mia chiesa locale e il buon nome dei sacerdoti. In realtà solo ora, mio malgrado, mi rendo conto quanto quel consiglio ha finito per aggravare la situazione.

Una domenica mattina – era il 27 settembre 2004 – mentre mi accingevo a celebrare la messa, fui raggiunto da un avviso di garanzia: mi si comunicava di essere stato sottoposto ad indagine per il reato di pedofilia. Sprofondai nella disperazione come in un gorgo. Informai subito il superiore. Anche questa volta lo zelo per prevenire lo scandalo ebbe il sopravvento sull’amore  e la comprensione che mi aspetto. Mi rimproverava che non avrei mai dovuto aprire la casa di accoglienza, ma fare come altri confratelli, che avevano aperto e dato in gestione le loro strutture garantendo alla diocesi ricchi guadagni e zero rischi. «Ora, per colpa tua, siamo tutti nei pasticci». Scoprii, infatti, che il mio caso non era l’unico. Altri sacerdoti piovuti da fuori diocesi stavano per subire la mia stessa sorte.

In questo grave frangente, mi trovai di nuovo da solo a fronteggiare la situazione con i superiori preoccupati di prevenire uno scandalo di grandi proporzioni. Il loro comportamento era a dir poco ambiguo: prima mi consigliavano di andare in giudizio poi, auspicavano, tramite persone amiche, il patteggiamento per chiudere la vicenda. A mia madre ebbero la faccia tosta di dirgli che il patteggiamento sarebbe stato il male minore:  «Non importa che suo figlio sia innocente …in ogni modo è ormai rovinato ed è bene che chiuda la vicenda al più presto se vuole fare ancora il prete». Espressioni simili furono usate anche con altre persone, tra cui il parroco a cui sono succeduto nell’attuale parrocchia e con lui anche  altri parrocchiani. Fu proprio a due donne della parrocchia che i superiori diedero l’incarico di convincermi ad optare per un patteggiamento.

Le procedura mi si diceva essere suggerita dal Vaticano  per contenere un eventuale scandalo. Ricevevo anche l’ordine perentorio di non fare cenno a nessuno dell’accaduto con la minaccia della riduzione allo stato laicale. Non ricevetti mai una parola di incoraggiamento e di comprensione per la sofferenza che mi era stata imposta. Nonostante la mia obbedienza cieca, per l’intimidazione subita, il superiore tentò di convincermi che ero matto e che avevo bisogno di cure. Temevano, invero, una mia ribellione e il ricorso ad azioni legali di denuncia contro i miei delatori. Le accuse, senza alcun fondamento, secondo i superiori,  erano il risultato di un mio disturbo mentale che necessitava di un supporto psicologico. In tutta la vicenda non ho mai visto nemmeno un tentennamento della loro coscienza. Quando penso a queste cose rimango impressionato e mi domando come ho potuto far parte della chiesa per più di diciotto anni.

Esiste una testimonianza scritta inviata al Prefetto della dottrina della Fede – all’ora era ancora il card. Ratzinger – dove vengono narrate le macchinazioni per nascondere quanto mi stava accadendo con un patteggiamento.

«Eminenza Reverendissima,

     Sono una parrocchiana della comunità di…, della quale è stato parroco, per soli due anni, don Alessandro.

     Sono venuta a conoscenza della denuncia a don Alessandro per abusi sessuali su un minore dalla madre del sacerdote che, in un momento di disperazione, si era confidata con me narrandomi quanto stava accadendo. La donna era disperata non sapeva come aiutare il figlio. La situazione in quel momento era particolarmente grave soprattutto per lo stato di salute precario del sacerdote, il quale mostrava i segni di un esaurimento. Infatti, Don Alessandro, in quei momenti, eravamo in prossimità delle Feste Natalizie, cercava di portare avanti la parrocchia, i suoi studi a Roma e la vicenda giudiziaria. Tutta la comunità essendo molto legata al suo sacerdote si era prodigata per stargli vicino offrendo aiuto ad ogni livello. Ma certamente il problema in se stesso rimaneva con tutta la sua gravità.

     Assieme ad una mia amica, che vuole rimanere anonima, decidemmo di rivolgerci ai Superiori del sacerdote, nella speranza di ottenere un po’ si sensibilità e attenzione. Già altre persone della parrocchia vi si erano recate, tra queste il medico di don Alessandro, per far presente la necessità di un allontanamento del sacerdote dalla parrocchia a motivo di un sempre più precario stato di salute. Fu la mia amica a cercare un contatto con i Superiori chiedendo con insistenza un appuntamento che, non volevano concederci, portando a fondamento del loro rifiuto i molti impegni.

     Riuscimmo a fissare l’udienza grazie alla nostra insistenza. I Superiori del sacerdote cominciarono il colloquio con dei giudizi sul medesimo, elencando i suoi difetti, tra i quali la disobbedienza; era la prima volta che mi recavo da queste persone e che avevo modo di parlare con loro. Fu sempre la mia amica, interrompendo il discorso – non era quello l’argomento che ci aveva spinto a chiedere un incontro, anche perché certi argomenti riguardavano il sacerdote e i suoi Superiori non certo noi laici – a metterlo al corrente di quanto conoscevamo della vicenda di don Alessandro per tentare di trovare una soluzione.

     Il discorso dei Superiori si indirizzò immediatamente sulla necessità di chiudere l’intera vicenda al più presto e senza troppi scandali, quale unica scelta utile per mettere tutto a tacere evitando uno scandalo di proporzioni immani. Sostenevano che il PM gli aveva assicurato di concludere l’intera faccenda a porte chiuse, nessuno avrebbe saputo niente, questo a prescindere dall’innocenza del sacerdote della quale i santi ecclesiastici si professavano fortemente convinti. Si professavano addirittura, dinanzi ad un nostro invito a rivolgersi ad uffici romani competenti, contrari circa un ricorso alla Congregazione per la dottrina della fede per non mettere in difficoltà il sacerdote che non aveva commesso il reato. Un eventuale processo avrebbe sparso per tutta la diocesi una fatto altamente scandaloso, questo era da evitare. Rimaneva il problema di don Alessandro che certamente non era assolutamente propenso ad una simile opzione e, nonostante il pericolo di un imminente arresto, era sempre ben intenzionato ad andare avanti. Ci offrimmo di svolgere noi un’opera di convincimento presso il sacerdote e i Superiori ne furono ben contenti, in quanto sostenevano che «come Superiori non potevano chiedere una cosa del genere ad un loro sacerdote, mentre noi…».  La mia amica offri davanti il legale della sua azienda, per portare a termine quanto avevamo deciso di fare, impegnandosi personalmente a coprire le spese legali. Sarebbe stato il suo avvocato a curare tutte le pratiche necessarie per giungere alla chiusura della vicenda nel modo più discreto e veloce possibile. La proposta di contattare questo nuovo legale per affidargli l’incarico di condurre, diciamolo pure a questo punto, il patteggiamento, piacque molto a Superiori del sacerdote, e ne ricevemmo da loro stessi debita autorizzazione.

      Fummo anche rassicurate che questa soluzione avrebbe certamente permesso al sacerdote di poter lasciare la parrocchia senza scandali dannosi a tutti. Le loro parole furono rassicuranti ed assieme alla mia amica, ci sentimmo sicure di fare il bene del sacerdote e della chiesa, queste erano certamente le nostre intenzioni.

     Fu così che la mattina seguente la mia amica condusse don Alessandro dall’Avvocato per un colloquio, era il 23 dicembre 2004. In quella circostanza fu deciso il patteggiamento. Al sacerdote la mia amica disse che sull’esempio di Cristo che ha subito molte ingiustizie, anche lui doveva accettare la stessa cosa.

     La firma del patteggiamento ha avuto luogo e la mia amica ha ricevuto e ne ha informato telefonicamente i Superiori del sacerdote».    

Dinanzi alle insistenze delle due donne inviatemi dai superiori, fu giocoforza cedere, credendo che il patteggiamento avrebbe finito per evitare un grosso scandalo. E poi, come avrei potuto ribellarmi, ormai era stato portato a compimento. Ricorsi ad un estremo consiglio del Superiore. Alla presenza di altri testimoni, mi ha risposto che questo, ormai, era un problema solo mio e che dovevo attendere di essere affidato ai servizi sociali con i quali avrei dovuto fingere di essere pedofilo ricevendo cure psicologiche di cui tutti abbiamo bisogno (sic!).

I superiori mi informarono del patteggiamento senza giri di parole: «Tre anni di reclusione. Sarai assegnato ai servizi sociali». Il loro piano era andato a segno: «Lo scandalo deve essere contenuto a tutti i costi». Che senso aveva fare ancora il parroco? La gente era incuriosita e preoccupata per la mia salute: pesavo appena 56 Kg.! Nella testa mi rimbombava come un’ossessione quella terribile frase dei superiori: «fingi di essere pedofilo e approfitta delle cure psicologiche…».

Fui così rimosso dalla parrocchia assieme alla nonna ottantaduenne, che da dieci anni stava con me; entrambe finimmo in mezzo alla strada. A tempo di record, due settimane, dovetti trovare casa, traslocare, sparire. Mi fu, addirittura, proibito di mettere il mio nome sul campanello dell’abitazione !!

Lontano dalle assurde pressioni dei superiori ritrovai la mia serenità e un maggior coraggio, per respingere il patteggiamento con un ricorso in cassazione e per depositare quattro denunce nei confronti di coloro che hanno rilasciato al sig. Pm false testimonianze. Queste persone attualmente, dopo essere state iscritte nel registro delle persone indaga ero certo così di fare il bene mio e della chiesa.

A seguito di questa decisione i Superiori mi inviarono un provvedimento disciplinare di difficile classificazione giuridica, con il quale mi si comunicava che non avevo alcun diritto allo stipendio. Improvvisamente mi ritrovai senza casa, senza lavoro e senza un soldo. Per mangiare mi vidi costretto a  vendere la mia auto e quanto possedevo in beni mobili per racimolare il denaro utile a coprire le spese. Ma i costi dei legali e i miei bisogni primari facevano si che il denaro non bastava mai. Più volte sollecitai i Superiori a pagarmi lo stipendio – dal Vaticano la Congregazione per il Clero aveva fatto presente l’illegittimità di questo provvedimento – a darmi un aiuto economico senza ricevere mai alcuna risposta in merito. Giunsero a dirmi che mi avrebbero versato lo stipendio nel caso avessi chiesto la riduzione allo stato laicale.     

I superiori mi lasciarono solo, non si interessarono più a me, proprio come era successo  con gli altri sacerdoti incriminati, i quali, oggi, continuano a svolgere indisturbati il loro ministero, pur essendo stati riconosciuti colpevoli. Questi sacerdoti ricevano il loro sostentamento dai fondi dell’Otto per mille! La loro pena – almeno in un caso – si è ridotta a qualche rosario e ad una cura psicologica. Una domanda sorge spontanea: la pedofilia e la violenza sessuale, per la chiesa, è veramente un reato? Il card. Law in tribunale ha dichiarato: "Noi pensavamo che la pedofilia fosse un peccato, non un delitto".

La disperazione era tale che mi sentivo ossessionato dall’idea di buttarmi sotto al treno. Lo spirito vitale mi ripeteva che devo vivere ad ogni costo, che non potevo gettare sotto il treno anche la verità e la giustizia. Poi, vicino a me, c’era Manuela! Il mio stato psicologico, piano piano, incominciò a cambiare: Manuela era parte integrante della mia vita. Lei mi dava quella famiglia che la chiesa m’aveva promesso e non aveva saputo darmi. Mi aiutava a vincere la disperazione, mi trasmetteva la voglia di vivere, la gioia di amare e di essere amato. Sperimentavo una libertà nuova: mi sentivo accolto, per quello che sono, dall’amore di una donna. Quell’ universo di amore femminile mi era del tutto sconosciuto! Per diciotto anni avevo demandato ad altri le mie scelte, altri avevano deciso per me ed io, succube, avevo accettato il controllo totale sulla mia vita. Solo adesso, tutto mi pare così ridicolo, inimmaginabile!

La mia storia d’amore con  Manuela sbocciò grazie ad una di quelle lettere fredde e stereotipate dei superiori, che provocò in me il desiderio di una vita in compagnia di una persona che mi amava non a chiacchiere ma con i fatti. Per troppo tempo me ne ero privato e il cuore scoppiava. Rimanere nella chiesa significava trascorre il resto della vita con persone, che pretendevano di essere la mia famiglia senza farmi sentire la loro vicinanza, comprensione, accoglienza. Del resto mi chiedevo come era possibile che delle persone che non hanno famiglia avessero la presunzione di essere famiglia. Chiesi così a Manuela di uscire insieme. Un gesto spontaneo. I sentimenti che avevo sempre represso come qualche cosa di "proibito", all’improvviso mi apparivano il dono più bello che Dio ha fatto all’uomo e alla donna. Trovai il coraggio di dirmi: «Sono innamorato».

All’inizio non riuscivo a coniugare l’essere prete con le ragioni del cuore e Manuela fatica a vedermi come fidanzato dopo essere stato il suo parroco. Il nostro fu un amore clandestino, che rivelammo solo agli intimi. Ma per poco, perché non sopportavamo l’ipocrisia.

         Decisi di compiere un gesto di amore alla chiesa e alle sue norme, anche se il cuore mi diceva che Manuela non feriva la mia vocazione, chiedendo al Papa di sospendermi dal ministero. Avvertivo sempre più che l’amore mi completava come uomo e come prete. Improvvisamente mi scoprii arricchito di una nuova esperienza che mi realizzava e  mi faceva sentire in pace. 

Al Papa scrissi: «Beatissimo Padre, mi rivolgo a Lei nella speranza di porre fine ad una dolorosa situazione che si protrae da quattro anni e che, nonostante la mia buona volontà, non sono riuscito a concludere in modo da salvaguardare la mia reputazione e della Chiesa. Santità, la mia persona è rimasta schiacciata sotto la croce dell’ingiustizia inflittami nientemeno che per mano della mia chiesa locale. Sentendo il bisogno di rivedere la mia scelta di vita, chiedo la sospensione del servizio sacerdotale. Solitudine e disperazione sono l’esperienza più amara a cui mi ha condannato la mia diocesi. Oso ricordarLe: "Nemo ad impossibilia tenetur".

      In questi frangenti ho trovato la fiducia, conforto e accoglienza in una parrocchiana, con la quale ho iniziato un nuovo cammino interiore. Dentro di noi è sbocciato un amore sincero, meraviglioso, che ha dato il suo frutto più bello: un figlio.

Le accuse infamanti mi avevano gettato nella prostrazione più nera, fino alla bulimia e alla disperazione. E dove era quel mio superiore, che si fa chiamare "padre e pastore, angelo della diocesi"? Non intendo giudicarlo, non spetta a me. Però io ho vissuto nella mia carne l’isolamento, la solitudine, la condanna da parte sua. E’ forse fuori luogo chiedere giustizia in ultima istanza a chi altri se non al "padre di tutti"?».

Dopo diciotto anni, per la prima volta, una donna entrò nella mia intimità. L’universo femminile mi era stato messo sotto chiave dagli occhi vigili dei superiori e del padre spirituale. A nessuna donna avevo mai aperto la porta del cuore. Non perché non lo desiderassi ma perché avevo paura.

Per un istante sognai che le due realtà –  servizio sacerdotale ed amore per una donna –  erano conciliabili. Non è vero che la donna è “un pericolo”, “una tentazione”. Manuela varcava la mia soglia come "un dono di Dio", quel sostegno che solo Lui poteva inventare per fare piena la gioia di vivere di un uomo. Finalmente mi resi conto, che la mia vita imboccava una nuova strada. Con le sue sorprese, nuove speranze, altri sogni. Mi chiedevo come era possibile che per tutto questo tempo mi fossi privato di un amore autentico. Le prove non sono state sufficienti a distruggere la mia vita; forse ho ancora un filo di speranza.



Domenica, 16 settembre 2007