Celibato di Cristo
“IL CODICE DA VINCI”: UN FALSO PROBLEMA

di p. Ortensio da Spinetoli

Il noto biblista, p. Ortensio da Spinetoli, partendo da un commento al famoso testo di Dan Brown, interviene autorevolmente su una questione d’attualità: “Il problema della famiglia di Gesù, dato abitualmente per risolto, potrebbe darsi che sia da considerare ancora aperto”.


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Premessa
Il libro di Dan Brown è uno scritto a tesi, che si propone di mettere in luce, o meglio, sotto accusa la struttura quasi imperialistica, che ha preso la Chiesa cattolica e continua a mantenere, soprattutto tramite certe istituzioni privilegiate, come l’Opus Dei..In particolare, l’autore cerca di avanzare delle riserve sul suo apparato teologico, più propriamente cristologico, che registrerebbe un allontanamento dagli intenti originari di Gesù di Nazaret. Un cambiamento di rotta dovuto soprattutto all’opera o all’ingerenza di Costantino nella storia cristiana. “Ottimo uomo di affari” (277), l’imperatore si trovò “a puntare sul cavallo (al momento) più favorito”, il cristianesimo, per consolidare l’unità dell’impero. “Noi diciamo solo che Costantino ha approfittato dell’influenza e dell’importanza raggiunta da Cristo e, così facendo, ha dato al cristianesimo il volto, che noi oggi conosciamo” (274).
1. Il “Cristo costantiniano”
Secondo Dan Brown, Costantino si sarebbe astutamente inserito nelle dispute cristologiche della Chiesa del suo tempo, optando, contro Ario e i suoi seguaci, per la filiazione divina di Gesù. Era un passo arduo, ma più confacente con il culto al dio Sole (Sol invictus), che si celebrava a Roma e nell’impero. Si può anche parlare di una scelta più vicina alla dea Iside, “che allattava il figlio Horus, divinamente concepito” (272) e nello stesso tempo al “dio precristiano Mitra, chiamato (in Asia) figlio di Dio e luce del mondo” e che, “quando morì, fu sepolto in una tomba nella roccia e poi risorse dopo tre giorni” (273). In questo contesto religioso sincretistico, incline alla trascendenza e portato verso la soprannatura, l’immagine di Gesù “figlio di Dio” calzava perfettamente. A questo scopo “convocò una famosa riunione ecumenica, nota come il Concilio di Nicea” (273), che sancì “lo statuto di Gesù come Figlio di Dio”. Egli, che “era visto dai suoi (primi) seguaci come un profeta mortale, un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo” (273), si trovò “trasformato in una divinità, che esiste al di fuori del mondo”, in pratica in “un’entità il cui potere non si poteva più controllare. Questo non solo impediva ulteriori sfide del paganesimo al cristianesimo, ma adesso i seguaci di Cristo potevano salvarsi solo attraverso la via che era stata stabilita come sacra: la Chiesa cattolica romana”. “Comunque, stabilire la divinità di Cristo fu un passo cruciale per l’ulteriore unificazione tra l’impero romano e il nuovo potere con sede nel Vaticano” (274). Costantino, evidentemente in combutta con la gerarchia (i vescovi), l’elite cioè della Chiesa, “rubava” la vera immagine di Gesù ai seguaci di allora e di sempre, sottraendogli il suo messaggio umano e “avvolgendolo in un’impenetrabile manto di divinità” “per aumentare (così) il suo potere” (274). Questa operazione teologica ne comportò un’altra di carattere storico-letterario nei riguardi delle fonti cristiane, i Vangeli. L’impresa che si preparò così a compiere, coincide con “il momento più importante della storia cristiana”. “Commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludesse i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Cristo e infiorava i vangeli, che ne esaltavano gli aspetti divini. I vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati”. E chi si ostinava a ritenere veri “i vangeli proibiti, invece della versione imposta da Costantino, era definito eretico” (275). Ma l’operazione costantiniana, oltre che a salvaguardare la nuova immagine di Gesù, mirava a cancellare gli stessi suoi ideali o propositi. Gesù, infatti, “voleva che il futuro della Chiesa fosse nelle mani di una donna, in pratica di Maria Maddalena” (290). Perché la Maddalena? La domanda è cruciale e la risposta è scandalistica. “Perché era la sua moglie”. “Un matrimonio storicamente documentato” (288), si accontenta di dire per il momento. Un matrimonio non tanto spirituale ma reale, sancito persino da un figlio, il loro discendente. Per tale ragione “non soltanto Gesù era marito, ma anche padre”. E “Maria Maddalena era il Santo Vaso, il calice contenente il sangue reale di Cristo. Era il ventre che portava la discendenza, la vita da cui è nato il frutto sacro” (292). E non solo Gesù, che era notoriamente un davidide, di dinastia regale, ma anche la sua compagna, che “apparteneva alla tribù di Beniamino”, era (perché?) di “famiglia regale”. “Oltre che ad essere il braccio destro di Cristo era già di per sé una donna di grande potere” (291). E a lei Gesù, prevedendo la sua fine, aveva consegnato le sue ultime volontà, le necessarie “istruzioni su come guidare la Chiesa dopo la sua morte” (290). Stando così le cose, in base agli ipotetici documenti originari, Gesù era solo un uomo, “grande e potente”, se si vuole, ma non un essere divino. La Maddalena, sua sposa e madre per di più di un comune figlio, non poteva non fare ombra alla gerarchia, che a sua volta vantava di essere l’unica erede e continuatrice dell’opera di Cristo. Non fa meraviglia che questa si sia sentita obbligata a ricorrere ai rimedi, “etichettandola come una prostituta e cancellando le prove del suo matrimonio con Gesù” (297).
2. Una prima critica
Il lato debole del romanzo di Dan Brown è la scarsezza, la povertà, meglio la carenza di documentazione storica. Non si può negare l’ingerenza e persino l’interferenza di Costantino nella vita della Chiesa delle origini, in particolare nel Concilio di Nicea, ma arrivare a dire che “commissionò e finanziò una nuova Bibbia”, in cui trovassero accoglienza alcuni vangeli a preferenza di altri, che furono tassativamente esclusi (275) è del tutto gratuito e anacronistico, poiché l’elenco dei libri sacri (Canone) era già stato stabilizzato due, tre secoli prima di Costantino. E’ ancor più straordinaria l’affermazione che, quando Costantino cominciò la sua opera di revisione dell’immagine e dell’opera di Gesù, esistevano “migliaia di documenti (!), che parlavano della sua vita di uomo mortale” (275) e che siano stati fatti scomparire (!) e che, nonostante il gran numero, ne siano sopravvissuti solo “alcuni” (288). E vengono menzionati “I vangeli gnostici”, “I Rotoli di Nag-Hammadi”, “I Rotoli del Mar Morto” (288). Tutti documenti veri, ma non sufficienti a suffragare le tesi che l’autore ha in mente. Forse nemmeno pertinenti, a cominciare dai Rotoli del Mar Morto, che sono scritti di una comunità essena insediata nel deserto di Giuda e che, in occasione della “guerra giudaica” (68-70 d. C.), aveva nascosto i propri libri nelle grotte antistanti al lago e nel 1947 furono rinvenuti casualmente da alcuni pastori. Si continuò poi a cercare in tutta la zona e le grotte-nascondiglio risultarono circa dodici. In una di esse (la IV), si ritrovarono anche alcuni testi cristiani, cioè qualche riga del vangelo di Marco (ma ancora è da stabilire come sia finito lì dentro). Dan Brown fa riferimento anche alla scoperta (1945) dei “Rotoli copti di Nag-Hammadi” (alto Egitto, sede del primo monastero pacomiano). Uno dei vangeli non canonici qui rinvenuto è il “Vangelo di Tommaso”, che si intitola “Parole segrete (o nascoste), che Gesù, il vivente, ha detto e che ha trascritto Didimo Giuda Tommaso”. Si tratta di uno degli apocrifi più antichi; sembra dipendente dal “Vangelo secondo gli ebrei” e dal “Vangelo agli egiziani”, andati perduti. Proviene da circoli gnostici (gruppo di credenti che fanno affidamento sulla conoscenza, gnosi, di Dio, della verità che diventa possesso, garanzia di salvezza). Il Vangelo di Tommaso, però, non contiene narrazioni, ma solo detti, apoftegmi (massime), che in genere riportano, con qualche alterazione, i testi canonici. Di essi solo qualche detto non appare nei testi ufficiali, ma non c’è nulla che riguarda la vita privata di Gesù o i suoi particolari rapporti con la Maddalena. Mentre di questi si parla esplicitamente ne “Il Vangelo di Filippo”, dove la Maddalena è chiamata “koinonos” di Gesù, che significa “compagna”, “convivente”, “moglie”. A questo riguardo vedi il mio libro Gesù di Nazaret (La Meridiana 2006, II ed., 145, nota). Dan Brown cita il “Vangelo della Maddalena”, di cui riporta anche una conversazione tra Pietro e Levi sulla “donna” che “Gesù ha amato più degli stessi apostoli” e per questo suscita in essi una certa gelosia, più che venerazione e rispetto (290). Si tratta evidentemente di un testo antipetrino, di cui non è facile stabilire la portata, né la datazione. Da questi documenti, che fanno parte dello scarso numero di quei “vangeli che riusciranno a sopravvivere” (275) e che “non furono modificati” (da Costantino, 290), è arduo trarre le conclusioni che l’autore dà per scontate. Dan Brown ritiene che la Chiesa si è presa cura di nascondere, di far scomparire la storia di Gesù con la Maddalena (275-305) ma contemporaneamente afferma che “la sua storia e la sua importanza sono state trasmesse attraverso (altri) canali più discreti”. “Naturalmente tramite le arti”, che “insieme alla letteratura e alla musica ci raccontano segretamente la storia di Maria Maddalena e di Gesù” (305). In tutti i casi rivelano “il tentativo di ripristinare il femminino sacro”. Per questo la vera famiglia di Gesù, nonostante i tentativi compiuti da più parti in senso contrario, è stata cancellata. “I discendenti di sangue reale di Gesù Cristo sono stati esaurientemente descritti da decine di storici” (296). Non si dice quali, ma si fa egualmente riferimento a una “lunga fila di libri”, che documentano tale verità e a conferma si citano: “La donna dalla giara di alabastro, Maria Maddalena e il Santo Graal”; “La rivelazione dei Templari. Guardiani segreti della vera identità di Cristo”; “La dea nei vangeli. La rivelazione del femminino sacro” (296). Le affermazioni sono chiare, solo che neanche esse hanno evidenti, documentabili riscontri storici.
3. Un dato ineccepibile
Il merito fondamentale di Dan Brown è l’invito a confrontarsi con il Cristo della storia, prima che con quello della teologia. Un taglio che, nel mio recente volume Gesù di Nazaret, è in primo piano: “La predicazione cristiana è stata abitualmente panegiristica” nei confronti di Gesù, lasciando in secondo piano, dimenticando la sua vera identità umana (7-8). Il nuovo di Dan Brown, al pari o al seguito di Martin Scorzese (La tentazione di Gesù), è che la vita di Gesù è stata segnata o coronata da una scelta matrimoniale (cf cap. 55-61). Anche Gesù, come quasi tutti i profeti, aveva avuto una sposa e forse dei figli. Un’affermazione che ha messo in subbuglio buona parte dei credenti, soprattutto la gerarchia cattolica, che, in varie maniere, a voce e per scritto, ha mostrato il suo disappunto, pieno dissenso, totale rifiuto, per non dire rigetto dell’opera. “Brutto codice”, “da rifiutare” scrive Franco Gardini, professore di storia medioevale e critico cinematografico (Voce Francescana, 26, 2006, 110). I giudizi, sempre da parte cattolica, sono stati quasi unanimi ed egualmente categorici: un libro e un film costruiti sulla falsità e sulla malafede. Per la Chiesa, il torto di Dan Brown è di aver mescolato sacro e profano, di aver attribuito a Gesù, che essenzialmente è un essere divino, una condizione umana con tutte le più comuni, “basse” inclinazioni. L’enciclica di Benedetto XVI parla dell’eros di Dio (n. 9-10). Un’affermazione, oltre che ardita, di difficile interpretazione, ma non si è soliti parlare con la stessa disinvoltura di un eventuale eros in Gesù Cristo. La Chiesa ha fatto qualche passo avanti nei confronti della sessualità, ma non è arrivata a una visione del tutto libera, scevra dai preconcetti o pregiudizi tradizionali. Una volta accordava un posto speciale alle vergini, faceva del celibato uno stato di vita superiore, vicino a quella degli angeli di Dio, secondo un’affermazione presente nel vangelo di Luca (20,36). Attualmente eguale posto d’onore riserva al matrimonio, ma in entrambi i casi si tratta di svalutazioni o sopravvalutazioni relative, perché basate su contingenzialità fisiche o fisiopsicologiche estranee alla onorabilità, dignità di una persona, uomo o donna che sia. E’ stato abitualmente ripetuto nella comune predicazione, che Gesù si trova più a suo agio con i vergini che con gli sposati e che questi non si trovino in condizioni ideali di amore verso Dio, poiché il loro cuore, secondo Paolo (1 Cor 7,34), risulta “diviso”. Ma si tratta di supposizioni facenti parte dell’immaginario religioso, più che della realtà. Tutto nasce dalla pseudo-valutazione che, a seconda della propria impostazione culturale, gli uomini hanno della sessualità, chiamandola potenzialità divina da possedere gioiosamente o al contrario di forza diabolica, non solo da contenere, mortificare, ma quasi da distruggere, per rimanere protesi verso l’alto, verso il cielo (Col 3,1-3), dov’è la vera patria (Col 3,20) o dimora del cristiano (2 Cor 5,2). In quest’ottica la vitalità sessuale non è mai stata vista come “buona”, almeno come indifferente, ma sempre segnata e segnalata come una specie di fomite al male, troppo vicina se non identica al peccato. La “tentazione” più ricorrente che il cristiano ha davanti a sé è quella dell’impurità. La catechesi è sempre stata ed è su questa linea: resistere alla vasta gamma dei piaceri, in particolare a quelli erotici. Tutte le raccomandazioni fatte non solo ai seminaristi, ma a qualsiasi adolescente, è stato ed è “non commettere atti impuri”, traducendo un testo biblico, che in sé dice un’altra cosa: “Non fornicare”, ossia “non giocare con una donna già ipotecata (sposata) da un altro uomo” (cf Es 20,14; Dt 5,18). Se così stanno le cose, l’immagine del Cristo celibe, “agamos”, non è di per sé diversa o superiore a quella di un eventuale Cristo sposato. Ma la domanda che trenta, cinquant’anni fa era impossibile porsi, era persino assurda o blasfema, oggi potrebbe apparire meno ardua o irriverente. In realtà l’uomo sposato e l’uomo celibe in quanto tale non hanno un’identità o statura morale differenziata. Non si tratta di scelte di diverso valore, una superiore all’altra. Sono, solo e tutte, risposte che ognuno dà a seconda della sua propensione, inclinazione, tendenza, preferenza. In base al proprio carisma, direbbe Paolo, “chi in un modo, chi nell’altro” (1 Cor 7,7). Se il nuovo indirizzo socio-antropologico è legittimo non sembrano esserci valide ragioni per creare dibattiti, meno ancora polemiche per difendere il matrimonio o il celibato di Gesù Cristo. Sono contrapposizioni fittizie, immotivate. Una risposta o l’altra non viene a togliere né ad aggiungere nulla alla originaria immagine del “grande profeta” (Lc 7,16), che tutti ammirano.
4. Un falso problema
C’è un equivoco nella tesi che attraversa tutto il libro di Dan Brown e contemporaneamente si ritrova nella critica, spesso aspra, dei suoi oppositori. Per gli uni Gesù è grande perché non sposato, per gli altri è tale perché sposato; ma né il celibato, né il matrimonio sono alla base della vera singolarità, incidenza missionaria di Gesù nella storia. Si tratta di dati solo secondari, irrilevanti, che non rientrano nel delineare la dimensione, la statura morale di un essere, uomo o donna che sia. Che cosa importa davanti alla realtà, alla verità socio-antropologica in sé, se uno è sposato o no, se è legato a una o più donne, se monogamico o libero amatore, se è etero o omosessuale? Il riferimento erotico non è certo un falso problema, è un problema vero, poiché la sua inconsistenza o inesistenza può mettere in crisi la sicurezza psichica di chi ne fosse colpito e più ancora può pregiudicare la continuità di una coppia, ma non intacca, meno ancora menoma l’identità dei due componenti, chi ne fosse carente o invece sovrabbondante. La Chiesa, che si è preoccupata di tenere intatta l’immagine del Cristo celibe, ha poi lasciato in secondo piano, anche se non l’ha dimenticata, la sua vera identità e la specificità della sua missione. Secondo Gesù non era importante il Tempio, il culto, i sacrifici poiché Dio non ne aveva alcun bisogno. Neanche il sesso. Era invece improrogabile liberare gli uomini dal terrore dell’Essere ultimo e dalla soggezione ai propri simili. Il “regno di Dio”, di cui annunciava e promuoveva l’instaurazione, consisteva non nel ristabilimento della signoria dell’Essere supremo, ma nella realizzazione sulla terra di una convivenza di uguali, di amici, di fratelli. Non c’era posto nella comunità che egli sognava, per le gerarchie, cioè i signori e i dominatori di qualsiasi denominazione fossero (cf Mc 10,41-45; Mt 20,24-28; Lc 22,24-27; Gv 13,1-15) ma solo per i “servi”, per quanti si sarebbero sentiti disposti a dare le proprie sostanze e le proprie forze per il bene di tutti, non per la propria promozione ed esaltazione sugli altri. Ecco perché la verginità, il celibato di Cristo, celebrato in tutte le maniere, ritratto in tutti i colori, ha tenuto nascosto quello che costituiva veramente il vero intento per cui Gesù è vissuto e morto. Dan Brown si è provato a rimettere in luce la vera storia di Gesù ma neanche lui sembra essersi dato cura di riscoprire la sua vera realtà, identità profetica, quella che veramente lo pone al centro della storia, al di sopra di tutti i profeti apparsi prima e dopo di lui. Il problema preso in esame è senz’altro un problema autentico. Gesù non è stato un uomo disincarnato, privo di pathos, di emotività, sensibilità, affettività propria di ogni essere umano. Si possono rileggere certe annotazioni del mio Gesù di Nazaret (145). Su questo piano (della integrità o integralità antropologica) si può ipotizzare quello che si vuole, anche una propria famiglia da parte di Gesù, ma non si può dimostrare molto, poiché le fonti evangeliche e quelle extraevangeliche, checché ne dica Dan Brown, non contengono affermazioni né in un senso (che Gesù sia stato sposato) né nell’altro (che sia rimasto “single”). Il problema della vita intima, dell’amore o degli amori di Gesù verso una donna o altre donne rimane senza risposta. Ed è una forzatura quella dell’autore di averla voluta trovare e soprattutto di averla reclamizzata con tanta enfasi. Ed è qui l’ambiguità del libro, la “suggestione” o l’equivoco che alla fine ingenera nel lettore, di aver dato una notizia clamorosa o sconvolgente, che invece è di poco o nessun conto. La vera originalità, l’eccezionalità di Gesù non sono i suoi amori con la donna di Magdala, ma la sua capacità ancora inedita di rapportarsi liberamente, ma sinceramente con chicchessia, di stringere a sé non tanto una donna, che non riesce difficile a nessuno, ma quanti possono aver bisogno di comprensione, perdono, amore anche se non lo meritano ma ne hanno egualmente bisogno. I riferimenti interpersonali di Gesù sono pienamente innovativi, contrari a tutte le tradizioni vigenti nel suo paese, dove il “saluto” e l’aiuto erano riservati ai propri “fratelli” (i connazionali), mentre egli si prova a estenderli a tutti, alla samaritana (Gv 4,7-26), all’anonima pubblica peccatrice (Lc 7,37), anche a un’adultera (Gv 8,1-11), persino ai pubblicani, ai peccatori (Mt 9,10-13; Lc 15,1-2; 15,30; 19,7) e alle stesse prostitute (Mt 21,31-32). Lo specifico, la novità assoluta del profeta di Nazaret non è stata quella di aver avuto una moglie come in genere quasi tutti i profeti d’Israele avevano avuto, ma nell’aver aperto le braccia e più ancora il cuore a chiunque fosse in difficoltà e nel bisogno. Il “prossimo” non è più solo l’israelita ma ogni uomo in necessità (Mt 22,34-40; Lc 10,29-37). Tempo fa Adista (15.4.2006) presentando il mio Gesù di Nazaret, affermava nel titolo “Né prete, né celibe”, ma era solo una segnalazione giornalistica, in qualche modo anch’essa falsa. Il libro non si caratterizza per queste connotazioni. Il Gesù che cerca di far conoscere non ha sbalordito i suoi concittadini (Mc 6,10), i corregionali (i galilei) o gli abitanti della Giudea, perché è riuscito a cavarsela senza l’aiuto, la compagnia di una donna, ma per la singolarità della sua apertura d’animo, verso ebrei e non ebrei, amici e nemici (Mt 5,43-48; Lc 6,27-36). L’essere “prete” come l’essere “celibe” sono solo apparenti valori che di per sé non bastano ad elevare o ad esaltare chi non avesse fatto la scelta. Non è detto, infatti, che un “prete” o un “celibe”, in quanto tali, siano più “rispettabili”, più degni di onore e di considerazione di un comune “carpentiere” sposato. Dan Brown sembra ossessionato (passi il termine) dalla stessa sessuofobia della Chiesa, e alla fine appare come preso in senso inverso dalla stessa psicosi o patologia, poiché dà l’impressione di far consistere tutto il profilo storico-profetico di Gesù dalla sua relazione con una donna, un fatto importante ma sempre marginale. Si preoccupa poi di far notare, quasi ne fosse sorpreso o meravigliato, che “tra Gesù e la Maddalena c’era un affettuoso rapporto” (229). Ma non poteva essere diversamente. Sposato o celibe, Gesù si era rivelato una persona sensibile, attenta, tenera, amabile con tutti. D’altronde l’affettività non può essere segnalata come indice di debolezza, di incoerenza etica e un’eventuale affettività da parte di Gesù non potrebbe, non dovrebbe porre problemi per nessuno. Purtroppo la predicazione ascetica della Chiesa ha messo in guardia i fedeli dall’affettività quasi al pari che dalla sessualità; li ha invitati a distinguere le relazioni tra quelle innocue e quelle pericolose e morbose (“amicizia particolare”), capaci, queste, di travolgere l’equilibrio morale di chi le coltiva. Il vero cristiano si segnala per la sua riservatezza, senso di distacco, serietà o severità di comportamento. La vivacità, meno ancora l’estrosità, la gaiezza, la “disinvoltura”, la briosità non sono mai state riconosciute e raccomandate come virtù cristiane. San Francesco, che pure ha voluto che i suoi “frati” fossero “giullari di Dio”, è ricordato più per le sue macerazioni ascetiche che per la sua giovialità. Non fa meraviglia che anche l’immagine di Gesù sia stata tramandata in una cornice di severità e rigore. Troppo spesso è stato ripetuto e forse si continua a ripetere che egli “non ha mai sorriso”, neanche davanti alle uscite maldestre di Pietro e dei fratelli Giacomo e Giovanni (cf Gesù di Nazaret, 74-83). Se sono rimasti nell’ombra questi comuni, elementari tratti umani di Gesù, per lasciare inalterata la sua ipotetica ieraticità, non è inverosimile che qualche omissione, “cancellatura” possa essersi verificata per situazioni, problemi ben più gravi. Purtroppo la Chiesa, che Dan Brown chiama polemicamente in causa, si è trovata di frequente, se non da sempre, impegnata, come immersa in questioni spesso accademiche, di poca o di nessuna portata e incidenza pratica, trascurando quelle che per sua missione sarebbe stata più tenuta a ricordare. La Chiesa è stata tormentata e ha tormentato i suoi fedeli con troppi problemi, che, oltre tutto, esulavano dalla sua competenza e si è trovata impelagata in lotte improbe e insolvibili. Non si è mai proposta di attendere i risultati della ricerca (di Galilei, Darwin o Eistein). Si è subito schierata contro tutti coloro che non la pensavano come lei, non si sentivano di stare più alle sue proposte, che apparivano superate, da rivedere. Una volta era in lotta per la salvaguardia delle leggi cosmiche (determinismo creazionistico) che non conosceva, oggi per la conservazione del “diritto naturale” (ma chi lo conosce?), la legge della vita (ma qual’è?), la famiglia, per l’eterosessualità contro i gay, per la monogamia contro la poligamia (ma perché?). Un cumulo di verità, di problemi su cui nessuno è bene informato ed essa meno di altri. Se facesse qualche passo indietro, invece di farne qualcuno di troppo in avanti, sarebbe meglio anche per la sua immagine. “Sarebbe bene che una buona volta la gerarchia imparasse a tacere per il troppo parlare che ha fatto sinora” (cf il mio libro, La conversione della Chiesa, Assisi, 1975, 147).
5. L’unica strada
Il libro di Dan Brown, a parte l’impalcatura, l’intera trama nell’insieme e nei dettagli, del tutto fittizia, ha senz’altro un valore, un pregio, quello di aver riportato l’attenzione su un’immagine di Gesù, di cui non si sente tanto parlare, né in chiesa, né nelle scuole di teologia. Il proposito di confrontarsi con un Gesù più autentico, più vicino all’uomo che a Dio non è una colpa, ma sempre un merito. Prima di essere il Verbo incarnato, Gesù è uno della nostra famiglia, che ha saputo sì capire e segnalare l’apertura con Dio e l’accoglienza da fare al suo Spirito di bontà e di amore, ma, contemporaneamente, se non in primo luogo, ha cercato di far riconoscere, far valere i diritti dell’uomo a qualsiasi categoria appartenga. Al di sopra di ogni uomo c’è solo Dio, che è un “padre” e non un giudice. Il richiamo alla vera e più verosimile immagine del Cristo è sempre da tenere viva, poiché la tendenza a una ricomposizione idealizzata e, alla fine, può darsi falsificata, è sempre pronta a riemergere. Il suo tentativo è senz’altro legittimo, ma la strada che egli ha provato a percorrere non è la più giusta. Infatti non è partendo dai “vangeli apocrifi”, di scarso numero e di non sempre chiara attendibilità critica, che si può arrivare alla conclusione indicata dal libro, ma riesaminando, ancor più attentamente di quanto sia stato fatto sinora, i vangeli canonici, le uniche, vere fonti cristiane che si hanno a disposizione e che possono far luce sulla vita privata, intima di Gesù. Contrariamente a quanto si diceva qualche secolo fa, anche nella Chiesa cattolica, almeno dal Vaticano II (cf Dei Verbum, 1965 e la Instructio sulla storicità dei Vangeli, 1968), oggi si ritiene unanimemente che gli scritti neotestamentari non sono di carattere storico, ma teologico, etico, apologetico, parenetico, ascetico. Meno di tutto nascono da preoccupazioni di esattezza, di fedeltà documentativi della reale vita di Gesù. L’importante per chi scriveva non era tanto far conoscere ciò che Gesù aveva detto e fatto, ma che cosa innanzitutto era da sapere e soprattutto da compiere per essere suoi veri discepoli. La storia di Gesù non poteva essere dimenticata, ma l’impegno più urgente era tenere desta la sua testimonianza attraverso le proprie operazioni di bene. E’ appurando questo carattere o genere letterario dei vangeli, che si potrebbe alla fine riuscire a stabilire i vari dati anagrafici di Gesù. Anche se i Vangeli non partono da intenti storici, si potrebbe egualmente cominciare dall’esame di quello che, nonostante tutto, di storico vi è rimasto, provarsi a stabilire quale possa essere stata l’eventuale condizione sociale del profeta Gesù. Si potrebbe innanzitutto provare a ricostruire fino in fondo il contesto storico-spirituale in cui è nato e vissuto. Una ricerca né difficile, né tanto meno impossibile. Al tempo di Gesù, la famiglia, quindi il matrimonio, era per tutti una scelta d’obbligo, inevitabile. Il celibato non solo non era conosciuto ma nemmeno onorato o raccomandato, meno ancora esaltato. Un uomo devoto, attento alle leggi e alla tradizione, come erano in primo luogo i farisei, al cui gruppo del tutto verosimilmente anche la famiglia di Gesù doveva appartenere, non pensava normalmente di allontanarsi dal sentiero che tutti percorrevano. L’indagine sul giudaismo dei suoi tempi non può portare che a una sola conclusione: anche Gesù doveva, avrebbe dovuto essersi sposato. Solo che la notizia in quanto tale non sembra trovare conferma nelle fonti evangeliche. Si potrebbe provare a rileggerli meglio. Non basta dire che i vangeli non sono testi storici propriamente detti, occorrerebbe sapere con quale taglio, angolatura gli autori hanno cercato di ripresentare l’esperienza di Gesù. E’ possibile che siano stati presi da tali preoccupazioni panegiristiche, da essere indotti a lasciare in ombra, in secondo ordine, fino a dimenticarli del tutto, certi tratti troppo comuni, quasi scomodi del personaggio che si proponevano di presentare? Non è difficile seguire il processo di idealizzazione dell’immagine di Gesù dal primo all’ultimo vangelo, in pratica da Marco a Giovanni (cf Gesù di Nazaret, 75-92). L’umile, quasi anonimo carpentiere nazaretano (Mc 6,1-6) è diventato, nella prestigiosa comunità asiatica (Efeso), quasi un semidio in carne umana (Gv 1,14). Se in Marco i tratti storici, anche se scarsi, ancora sussistono, in Giovanni sono scomparsi quasi del tutto, assorbiti in una ricomposizione ormai prettamente retorica. Gli attuali vangeli sono un dono, ma anche un “prodotto” della Chiesa. Per conoscerne e valutarne la portata, i reali contenuti e nello stesso tempo i limiti, le lacune o carenze bisognerebbe conoscere da quali preoccupazioni erano animate le comunità da cui sono sorti e gli intenti dei rispettivi autori (o evangelisti), che hanno curato i testi. L’immagine di Gesù, che gli attuali vangeli presentano, è sempre e senz’altro quella “trasmessa”, ma è possibile che ne sia stata fatta una ricostruzione rispondente più agli indirizzi, alle tendenze del luogo, delle persone che al momento insegnavano, annunziavano il vangelo, che ai dati originari. Se ciò è vero potrebbe darsi che il Gesù dei vangeli corrisponda contemporaneamente ai dati storici e agli intenti apologetici, parenetici dei suoi amici e ammiratori, dei discepoli. Non è esagerato affermare che il Gesù dei vangeli è anche il Gesù della comunità che lo presenta, lo annunzia, lo predica. In particolare, per arrivare ad affermare o negare la possibilità di una propria famiglia da parte di Gesù, bisognerebbe riuscire a stabilire quale stima, considerazione o invece quale diffidenza, sfiducia, fobia, panico i cristiani delle origini avessero della vita di coppia, del matrimonio, in genere della sessualità. Paolo negli anni 55-60, poco prima delle composizioni dei vangeli, non sembra dare grande peso, importanza al matrimonio, che, tutt’al più, può essere ritenuto un rimedio al fomite della concupiscenza, piuttosto che una via di comunione con Dio (1 Cor 7,2-6). In tutti i casi, qualora fosse possibile, sarebbe meglio evitarlo (7-8). Gli stessi fedeli di Corinto, catechizzati dall’apostolo, andavano chiedendosi se “toccare donne” fosse o no “per l’uomo” (una volta diventato cristiano) “cosa buona” (7,1) (cf il mio testo I consigli evangelici, Roma, 1990, cap. IV, In castità, 103-152). Anche Luca, sia pur tradizionalmente stimato discepolo di Paolo, non appare del tutto libero da venature, si può dire, “misogenistiche” (ib. 133-138). Nella lista delle persone che Gesù invita a “lasciare” per mettersi al suo seguito, accanto ai “fratelli”, alle “madri” e alle “sorelle”, Luca (solo lui) segnala anche la “moglie” (18,10). E tra le cose da “odiare”, posporre in vista del regno dei cieli, il terzo evangelista colloca la “moglie” (14,26); e, se alcuni invitati rifiutano l’invito a nozze, è per l’aver preso moglie (14,20). Ma è soprattutto Luca che pone una netta distinzione tra gli uomini di questo mondo che si sposano, prendono moglie o marito, e “quelli che sono ritenuti degni del secolo futuro e della resurrezione” (20,35). Questi ultimi, viene precisato, “nemmeno possono più morire poiché sono uguali agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione” (20,36). Il matrimonio lega l’uomo e la donna a realtà contingenti, terrestri, di quaggiù; la rinuncia invece li trasferisce quasi anticipatamente in un mondo superiore, spirituale, angelico, divino. Si tratta di due categorie di persone tra di loro ben lontane. E di esse solo i celibi “sono stati ritenuti degni” non solo di una speciale missione, ma di una condizione esistenziale diversa, migliore, superiore. Gli sposati invece sono considerati come persone inferiori, poiché appartengono al mondo della materia, della carne e della corruzione, un mondo, se non ostile, contrario a quello di Dio, “inquinato”. Paolo parlava della categoria dei “parthenoi” (i vergini) e di quella degli sposati quasi alla stessa maniera. Gli uni sono con Cristo, “santi”, ben accetti a Dio; gli altri sono vittime della “porneia” (concupiscenza), schiavi di questo mondo, dei sensi e di se stessi (cf I consigli evangelici, 136: “I manuali di vita spirituale utilizzano ancora il brano di Luca per una teologia del celibato, che è il segno della vita nuova dei risorti, un anticipo del male che verrà”). L’autore della lettera gli efesini farà giustamente l’apologia del matrimonio (5,15-33), assegnandogli la funzione profetico-escatologica che il terzo evangelista attribuisce al celibato, ma rimane un’eccezione. In realtà la differenza o l’alternativa tra il celibato e il matrimonio è sicura, inequivocabile. Il posto privilegiato o d’onore spetta alla verginità. La stessa madre di Gesù, nonostante la sua evidente, inevitabile appartenenza (data la sua maternità) verrà a ritrovarsi nella schiera delle vergini (Mt 1,18-25; Lc 1,34. “La comunità sa che è un’incongruenza chiamare vergine una madre, ma sa anche che nessuna persona è stata più vicina a Dio, al figlio, di Maria. La verginità sta allora a indicare la capacità di accoglienza, la dedizione, la generosità, l’amore che ella ha riversato a lui, al figlio, ai fratelli”. I consigli evangelici, 143). Ormai la “partheneia” (virginitas) è un distintivo, di cui ci si può altamente gloriare nella Chiesa (2 Cor 11,2) e i parthenoi (i vergini) sono una categoria speciale degli appartenenti al popolo di Dio. La Chiesa delle origini, anche se non in tutto e dappertutto, sta prendendo una fisionomia che potrebbe definirsi spiritualistica. Essa guarda all’emotività, alla vita dei sensi e alla sessualità, e di conseguenza al matrimonio, se non con paura e vergogna, con diffidenza. L’autore della lettera a Timoteo invita a cancellare dal servizio sacro, dal rispettivo registro le vedove che si sono risposate (5,9) e a non accettare nemmeno quelle troppo giovani per il pericolo che potrebbero essere tentate di risposarsi, trascinate da “desideri indegni di Cristo” (5,12). Le primitive generazioni cristiane si ritrovarono sempre più condizionate da queste sottolineature, preferenze per il celibato e con la diffidenza, persino la disistima, per la scelta opposta. Se secondo Luca 20,34 i cristiani sono entrati nel mondo della resurrezione vuol dire che possono, debbono vivere come gli angeli, fare a meno delle reazioni o emozioni dei sensi, quindi del matrimonio. Nella “II Clementis” e negli “Atti apocrifi di Paolo e Tecla” si chiede ai fedeli contemporaneamente la conservazione del sigillo battesimale e l’illibatezza della propria carne (per i riferimenti bibliografici cf I consigli evangelici, 146-148). Anche il “Vangelo di Tommaso”, rinvenuto pure esso a Nag Hammadi, rivela una matrice che si potrebbe definire encratica, cioè rigorosamente ascetica, in cui il matrimonio, la stessa capacità generativa sono considerati contaminati, perciò indegni per coloro che si professano cristiani. Per questo il battesimo veniva amministrato solo ai catecumeni, che avevano scelto il celibato o agli sposati che si erano impegnati per una vita continente (ib,147). Il problema della reale famiglia di Gesù e del suo eventuale matrimonio con la Maddalena o con altra donna potrebbe avere una soluzione plausibile, in un senso o nell’altro, solo se si tiene presente questo contesto culturale o spirituale, in cui si è trovata la Chiesa delle origini e si è stabilizzata la tradizione evangelica. E’ possibile supporre che il culto, l’esaltazione della verginità possa essere diventata così emergente da portare a mettere in ombra, fino a cancellarlo del tutto, il matrimonio di Gesù? Anche se le nozze non erano di per sé ritenute “cosa cattiva” apparivano sempre come una spinta verso il mondo della materia, della corruzione, se non proprio del male, del peccato. Se Gesù diceva di essere venuto da Dio, che in qualche modo era in comunione filiale con lui, si poteva poi legittimamente pensare che potesse essere stato legato maritalmente, cioè carnalmente con una donna, e, quindi, soggetto come tutti al fomite della concupiscenza (porneia), ossia del male? Se di fatto era stato sposato, la prudenza non avrebbe potuto suggerire che non se ne parlasse, che il fatto fosse passato sotto silenzio e dimenticato, cancellato del tutto? Una certa base per una simile supposizione è la cancellazione che si è andata operando nei vangeli delle mogli degli apostoli. Erano senz’altro sposati, ma dopo il loro passaggio alla sequela di Cristo, il ricordo delle loro famiglie, dei figli, delle mogli non comparirà in alcun modo nei racconti evangelici. Se tuttavia è vera la notizia di Luca, che un certo numero di donne, di cui è fatto il nome e “molte altre”, rimaste anonime, si trovavano al seguito di Gesù per “servirli (lui e i discepoli) con i propri beni” (8,2-3), la supposizione più verosimile, ma sempre sottaciuta, è che si fosse trattato delle mogli degli apostoli, che avevano seguito i loro mariti quando questi avevano scelto di farsi accompagnatori di Gesù. Di fatti Paolo, scrivendo ai corinti (anno 57) fa menzione, anche se indirettamente, di questa prassi, che al suo tempo era ormai consolidata: che gli apostoli del vangelo si facessero accompagnare nelle loro peregrinazioni da una “donna, sorella” (nella fede), quindi cristiana (1 Cor 9,5). E chi potevano essere queste accompagnatrici se non le loro rispettive mogli? Se ciò è vero, nel gruppo delle donne al seguito di Gesù ci potrebbe essere stata anche la sua eventuale moglie. Del resto al primo posto dell’elenco, Luca menziona proprio la Maddalena (8,11). Le mogli degli apostoli presenti e assenti nei vangeli, presenti e assenti nella tradizione cristiana (in molti strati della medesima lo è tuttora), potrebbe far supporre un’eventuale sorte pure per la stessa “moglie” di Gesù, assente e presente nelle fonti evangeliche, come nelle successive fonti cristiane. Il Nuovo Testamento non parla direttamente della famiglia di Gesù, ma parla troppo insistentemente della verginità e del celibato e troppo negativamente della vita matrimoniale da poterla ipotizzare nei riguardi di Gesù. Con l’aiuto di Paolo e dei vangeli il problema del matrimonio di Gesù non si risolve, ma un’analisi più accurata sull’indole e l’origine dei testi evangelici potrebbe indurre a pensare a una sua cancellazione. Il silenzio calato sulle mogli degli apostoli, potrebbe essere una valida conferma dell’analoga sorte toccata alla famiglia e alla moglie di Gesù. Certo lo stato sociale di Gesù è un dato troppo rilevante per poter esser stato cancellato di sana pianta, ma anche la dignità, la santità, la sacralità del “figlio di Dio” non erano da ritenere meno importanti per sentirsi obbligati a cancellarne persino l’ombra. Il matrimonio era certo cosa santa, contemplato nel progetto creativo (Gn 1,27-28), ma era un indice di appartenenza al mondo della corruttibilità, della carne troppo lontana da quella di Dio a cui Gesù apparteneva. Se egli veniva da Dio come poteva egualmente trovarsi mescolato con il sangue e la carne dei comuni mortali? (Gv 1,13). Conclusione Il problema della famiglia di Gesù, dato abitualmente per risolto, potrebbe darsi che sia da considerare ancora aperto. E se in seguito a una nuova libera, spassionata ricerca si arrivasse a dimostrare come piuttosto verosimile anche per Gesù, come per tutti i profeti, un’eventuale scelta matrimoniale non sarebbe la cosa più strabiliante che si verrebbe a scoprire. Ad ogni modo non sarebbe la fine del mondo, né tanto meno del cristianesimo.


p. Ortensio da Spinetoli



Giovedì, 23 novembre 2006