Pretisposati si grazie - Riflessione
Come viene percepita la figura del prete dall’uomo d’oggi ?
di p. Nadir Giuseppe Perin
Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. Con tutto quello che si sente dire di negativo alla Televisione o che leggiamo sui giornali, a proposito del clero (preti pedofili…preti che hanno l’amante…preti che si sposano…preti alcolisti… preti malati di AIDS… e chi più ne ha più ne metta) credo che molti cristiani (credenti e non) si domandino se la presenza del prete, nella società moderna, abbia ancora un senso per l’uomo d’oggi o se ci sia una speranza che la sua presenza possa sopravvivere per il futuro… Nella società italiana, formata da una lunga esperienza “sacrale” ci si illude, spesso, che basta il ricorso burocratico al prete, nei momenti essenziali della vita o nella pratica religiosa che riempie ancora le nostre chiese, per stabilire che il prete ha una funzione insostituibile ed un avvenire assicurato. Invece, i preti più sensibili e coscienti si rendono conto di essere stati degradati, con il tempo, al rango di “stregoni del villaggio” o di “totem tribali” e ripensano seriamente a ciò che sono e a ciò che dovrebbero essere. Qualcuno lo fa angosciosamente, altri con coraggio e serenità, altri ancora con amarezza verso una società che sembra, ormai, metterli in disparte. Se la società odierna allontana ai suoi margini, il prete, non tanto attraverso gesti manifestamente anticlericali, ma con un atteggiamento d’indifferenza, non è forse perché ritiene che ci siano dei valori essenziali che dovrebbero essere incarnati nel presbiterato ed è, perciò, insofferente per le strutture e le artificiosità di cui si è rivestito? Forse, il prete si è accomodato per troppo tempo in condizionamenti sociologici e storici che ne hanno fatto, non tanto un uomo evangelico e profetico, capace di dare un impulso dinamico e sempre nuovo, all’evoluzione storica e alle esigenze profonde del suo popolo, quanto piuttosto una “casta”, una specie di categoria sociale, ben definita nei suoi privilegi, nel suo abito, nel suo stile di vita. Questo significa che la “categoria clero” si è fermata, cristallizzata ad un certo periodo nel quale raggiunse, “dal punto di vista umano, ma non certamente, dal punto di vista evangelico, la sua “età d’oro”. Per questo, molti preti ne soffrono e cercano il modo di uscirne, ma non per paura di soccombere, non per riacquistare in edizione nuova il ruolo che il presbiterato ebbe in altri tempi, ma semplicemente per diventare se stessi, per ritornare all’idea primitiva, fondamentale del presbiterato. Solo chi è capace di rimettersi in discussione, di porsi domande radicali ed inconsuete ha la speranza di sopravvivere. Tutti vorrebbero che il prete fosse un “uomo vero”, inserito in mezzo alla società e non tanto una persona piovuta, quasi, da una catena di montaggio e proposto da una propaganda semi-commerciale. Volere un prete che sia un “uomo” e un “uomo di Dio”, significa avere il coraggio di denunciare ciò che non va nella formazione del prete e studiare che cosa potremmo fare tutti, per avere preti che siano presenze vive e costruttive del nostro mondo. La questione riguarda tutto il popolo di Dio, anche l’uomo della strada, perché le sue perplessità, le sue difficoltà, le sue critiche, anche se non forbite, possono avere lo stesso valore delle osservazioni degli specialisti. Tutti vogliamo una liberazione da ciò che il prete è stato, per essere ciò che è, in realtà. Tutti siamo protesi verso una ricerca dei valori autentici e nessuno intende conservare un museo nel quale vengono poste delle statue di cera di un bel mondo passato. Forse quando dalla “crisalide del clero” come si è abituati ad intenderlo, uscirà libero e puro “il prete”, ci accorgeremo che chi oggi discute e critica, chi sembra un iconoclasta è forse proprio colui che vorrebbe che il prete acquistasse la sua vera immagine[1]. Affermare che il prete ha perso la sua immagine e che è disperatamente alla ricerca di una nuova, conciliata con il nostro tempo, sembra una cosa normale, invece ha un significato drammatico, perché senza il rispetto di sé, nessuno può acquistare una personalità integrata, cioè equilibrata, stabile e aperta alla realtà, senza contraddizioni interiori né ansietà La stima di sé e la considerazione degli altri è ispirata ed alimentata dall’immagine che l’uomo-prete possiede di sé in una comunità concreta di uomini. E’ questa immagine, infatti, che dà un senso alla sua vita, che ispira e sostiene la sua attività, lo incoraggia a superare i rischi, le illusioni e le contraddizioni della vita. E’ una fonte di pace, di fiducia, di gioia e di speranza. L’uomo, invece, che ha perso la sua immagine ed è disperatamente alla ricerca di una nuova è in grande pericolo, perché si crea in sé un vuoto che intacca la sua vita.
Per capire come dovrebbe essere il prete nella società moderna è necessario partire da Cristo che è l’unico vero sommo sacerdote. Non ve ne sono altri. Tutte le altre forme di sacerdozio cristiano sono una partecipazione a quello di Cristo. La partecipazione non aggiunge una realtà nuova e diversa a quella principale. La tentazione sottile e nascosta è quella di appropriarsi di quello che, unicamente, è un diritto di Dio. Il nostro è solo un “sacerdozio” partecipato, mediante il battesimo, a quello di Cristo. E il sacramento dell’Ordine ? Non si può avere una “concezione meccanica” della chiesa e dei sacramenti. Forse sarebbe bene introdurre nella teologia dei sacramenti l’antica nozione di “economia”, ancora, oggi, molto viva in Oriente, mentre in Occidente è poco conosciuta e che consiste nel potere affidato alla chiesa di adattare i sacramenti alle necessità concrete dei fedeli, con l’unico limite che è quello di non poter toccare la sostanza dei sacramenti stessi, perché la chiesa non può distruggere l’idea stessa di Cristo. Chi è, allora, il prete nella comunità cristiana ? Il prete è essenzialmente “un pastore “ come Cristo. Come tale, non adempie ad una funzione temporanea che può lasciare quando gli sembra di aver fatto il suo tempo, per ritornare ad essere un cristiano senza ministero particolare! Il ministero pastorale è ricevuto dallo Spirito Santo, per mezzo della Chiesa e per tutta una vita e nessuno può porgli dei limiti. Quando la lettera di Pietro esorta i preti "che fanno pascolare il gregge di Dio che è loro affidato", vale a dire i pastori del suo tempo, è evidente che questumile incarico di "custode" e di " modello del gregge" non ha limiti, poiché lautore conclude il suo paragrafo, evocando il ritorno di Cristo. “Quando apparirà il pastore supremo, voi riceverete la corona della gloria che non appassisce"[2], cioè il coronamento della vostra vita di pastori. Il significato dell’imposizione delle mani e dellinvocazione dello Spirito Santo allordinazione dei pastori è proprio questo e la Chiesa non può rinunciare al segno visibile del dono invisibile dello Spirito Santo e dei carismi del ministero specifico degli Apostoli di Cristo. " Non trascurare il carisma (il dono dello Spirito) che è in te e che ti è stato conferito, per indicazione dei profeti, con limposizione delle mani da parte del collegio dei preti... Io ti invito a ravvivare il carisma di Dio che è in te per limposizione delle mani"[3] . Infatti, in virtù dei carismi, è lo Spirito Santo che crea un cristiano-pastore, la cui persona, pertanto, non può essere dissociata dal ministero. Certo la funzione può cambiare, il pastore può prendere un congedo prolungato o andare in pensione, ma non viene diminuito il suo essere pastore, quale che sia il suo posto nella comunità cristiana. La caratteristica principale del prete-pastore d’anime,èquella di fare in modo che Cristo traspaia in tutta la sua vita e nella sua azione, senza il rischio di perdersi, invece, nell’organizzazione, nell’esecuzione e nell’amministrazione esteriore del servizio divino, perché l’efficacia della sua missione di “pastore” sta proprio nella mancanza di fini personali. I frutti, normalmente, non crescono su comando, ma da soli. I veri frutti dell’azione del prete non vengono da un attivismo frenetico perché il servizio ministeriale non si esaurisce in compiti e funzioni, ma consiste essenzialmente nel mettere a disposizione della comunità, con Cristo e come Cristo, la sua persona che è stata fatta partecipe - non in forza di un celibato imposto ed esaltato come “the best for the priests”- ma grazie al sacramento dell’Ordine - che non è incompatibile con lo stato matrimoniale del ministro - della missione di profeta, maestro e pastore di Cristo stesso. L’immagine del pastore, che era già servita nell’Antico Testamento per parlare dell’azione di Dio per il suo popolo Israele, è proprio quella che rappresenta meglio la missione del prete impegnato nelle varie comunità cristiane. Il principio che Dio è pastore assunse una forma concreta in uomini particolari che ricevettero la chiamata, come Mosè, Davide, i profeti…. Tale caratteristica di Dio giunse alla sua pienezza con Cristo che si è definito “ il buon pastore”. La cura pastorale di Dio e il ministero pastorale di Cristo, continuato dagli Apostoli e dai loro successori, si perpetuò nella storia. Per mezzo dell’ordinazione, il prete diventa simile a Gesù, il buon pastore, affinché nella sua missione e provvisto del suo Spirito, secondo il suo esempio e sotto la guida del vescovo, sia pastore per gli uomini e per le comunità a lui affidate[4]. Essere un “pastore”, a somiglianza di Gesù, significa conoscere tutte le pecore a lui affidfate, avere cura di ognuna di loro; radunarle e tenerle unite; camminare davanti a loro, mentre esse lo seguono. Esse conoscono le sue parole e sanno distinguerle dalla varie voci e opinioni che le circondano. Il buon pastore è disposto ad offrire perfino la sua vita per ciascuna delle sue pecore, altrimenti sarebbe un mercenario. Così dovrebbe essere anche il “prete-pastore”. Gesù, infatti, è stato un pastore percosso e Pietro, con la trasmissione del ministero pastorale, ricevette anche la promessa che sarebbe stato sequestrato e condotto sulla croce. La stessa cosa accadde anche ai ministri post-apostolici, come dimostra la prima lettera di S. Pietro. L’autore esortava i preti quali “ testimoni delle sofferenze di Cristo” a prendersi cura del gregge che veniva affidato a loro e ad essere “la forma del gregge”. Il servizio pastorale nel Nuovo Testamento ha il compito di curare che il gregge di Dio venga radunato e tenuto in unità e sia pervaso dal suo amore. Così Paolo si sente come uno che soffre, come la donna che deve partorire il figlio, finché Cristo non sia formato nella comunità che gli è stata affidata. Ci sono vari modi in cui questo servizio pastorale si compie. Uno di questi è la predicazione della Parola di Dio[5] che si è rivelata nella sua pienezza in Cristo, che è stata affidata agli apostoli e che ha bisogno anche dopo il periodo apostolico di un testimone incaricato. Ma, la parola di Dio non è solo insegnamento, manifestazione e rivelazione, ma anche azione ed evento che raggiunge il culmine nei sacramenti, attraverso i quali viene cambiata una situazione della nostra storia, che attraverso un evento sacramentale entra in comunione con Dio (battesimo) e con gli altri uomini, viene rafforzata (cresima), trova la sua centralità e la sua pienezza (eucaristia), rinasce (riconciliazione) o si concretizza in determinati momenti della vita (malattia/morte/ matrimonio/ ordine). Per questo, l’amministrazione dei sacramenti e la presidenza nella celebrazione dell’Eucaristia dove si compie il segreto più intimo del diventare comunione, fa parte dei compiti del pastore. “E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo”? Poiché c’è un solo pane, noi pure, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane”[6]. Per questo i cristiani ricevono nella comunione “ciò che sono”, cioè il “Corpo di Cristo”[7]. Ma, il prete esercita il suo compito di pastore soprattutto nell’attenzione verso i deboli, i poveri e i malfattori. Benedice Cristo non solo nelle parole, nei sacramenti e nella preghiera, ma anche nei miseri, proprio come Dio, la cui cura pastorale venne descritta dal profeta Ezechiele così: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita: fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte”[8]. Tuttavia non va mai dimenticato che Attraverso un’azione produttiva noi produciamo qualcosa, cioè agiamo, modifichiamo, creiamo. Nella pratica produttiva l’uomo cerca di cambiare la realtà che gli è stata data, cerca di sottomettere il mondo alle sue concezioni, ai suoi fini e di affermare se stesso come soggetto del suo potere. L’azione del prete è solo rappresentativa in quanto la sua attività è il segno di ciò che lui non realizza, ma che gli viene offerto e gli verrà sempre offerto da Cristo. Mentre il prete concretizza e rappresenta l’opera di Dio rendendola simbolicamente presente, è lo Spirito Santo che la fa sviluppare affinché la pienezza che è in lui possa raggiungere il mondo. In questa opera rappresentativa quello che conta è che le azioni del prete siano trasparenti per ciò che esse rappresentano, cioè Cristo che si manifesta attraverso la sua persona e la sua opera. Dal suo modo di vivere e dalla sua attività, gli uomini devono riconoscere che il prete è solo uno strumento dell’azione di Cristo-pastore, perché Colui che porta la salvezza ed edifica Purtroppo anche il prete è figlio del suo tempo, soprattutto quando si lascia prendere dal pathos della produttività e dalla preoccupazione dell’efficienza, senza riflettere che l’incontro con Dio in Cristo, nella Chiesa (=comunità dei credenti in Cristo) sfugge ad ogni successo mirabile. Per questo, molti preti cadono in una nevrosi pastorale sempre più grande che li brucia interiormente, oppure in un’avvilente indolenza che li porta a fare solo il necessario perché “tanto non si può fare niente lo stesso”. Mancando questi successi e venendo meno i riconoscimenti di cui ogni uomo ha bisogno, molti si ammalano nello spirito e cercano un’affermazione di sé stessi in attività che sono molto lontane dal loro compito. Lo stesso rapporto tra Chiesa (comunità dei credenti) e il mondo viene avvertito, da una parte, come un qualcosa di capace ad imprimere un cambiamento radicale sia alla vita ecclesiale che sociale, ma, dall’altra, invece, viene esperimentato come un fallimento. La chiesa (=gerarchia ecclesiastica) fino a qualche anno fa, era ancora una forza che poteva incidere sulla direzione da prendere nella vita. Oggi, invece, questa posizione è resa sempre più vacillante. Spesso il prete si trova a guidare una comunità dove l’essere cristiani e il vivere da cristiani, non solo non è più sostenuto dal consenso generale, ma incontra l’indifferenza e perfino il rifiuto aggressivo. Questa perdita di importanza e di autorità della chiesa (= gerarchia ecclesiastica) può spingere alcuni preti a rifugiarsi “nel loro piccolo orto di casa”, cioè a rinchiudersi “in gruppi molto ristretti” dove, per lo meno, l’importanza e il valore della chiesa (= comunità ecclesiale) sono ancora riconosciuti, dimenticando così chi vive ai margini della vita parrocchiale. La perdita di questa competenza sociale della Chiesa (= gerarchia ecclesiastica) non è solamente causata dal fatto di essere messa in discussione “dal mondo-laico”, ma sono gli stessi cristiani che si scontrano e si dividono su una serie di precetti della chiesa ( = della gerarchia ecclesiastica) come ad esempio, la difficoltà a conciliare la morale sul matrimonio e sulla sessualità. Queste situazioni pesano, in modo particolare, sul pastore della comunità che su questi temi si presenta divisa in gruppi e fazioni contrapposte, causando nel prete un sentimento di impotenza. La stessa responsabile collaborazione dei laici al servizio pastorale può diventare per qualche prete-pastore un problema d’identità che lo porta ad interrogarsi su : “chi sia lui come prete? Quale sia l’essenza e il punto fondamentale della sua attività, visto che i laici, allo stesso modo, possono fare quasi tutto quello che lui fa”? Se poi a questi interrogativi si aggiunge anche una certa discrepanza che si nota tra la sua competenza e la sua capacità, allora l’ansia aumenta. Come preti sentono che, nella loro comunità, la responsabilità ultima della cura pastorale pesa su di loro, ma imparano, nello stesso tempo, che i laici, a volte, riescono meglio di loro. Questa situazione genera, spesso, delle tensioni tra i preti e i vari gruppi. Infatti, nella chiesa (=comunità ecclesiale) si comincia a prendere sempre più coscienza che tutti i battezzati, in forza del loro battesimo, sono chiamati a contribuire alla crescita del Corpo Mistico di Cristo, ciascuno secondo i doni ricevuti. Oggi ci sono molti operatori pastorali con preparazione teologica universitaria che, oltre ai diaconi, sono chiamati ad assumere anche alcuni servizi pastorali, collaborando all’attività pastorale a servizio della comunità, annunciando L’impegno così massiccio di laici qualificati ha comportato per molte diocesi anche dei problemi sia per i laici stessi che per le comunità e per i preti. Per i laici che pur avendo una formazione teologica universitaria adeguata, si sentono nel loro lavoro parrocchiale, solo dei tappabuchi. Per le comunità che abituate agli usi tradizionali non riescono ancora a capire il perché della diminuzione del numero delle celebrazioni eucaristiche e si domandano perché anche i laici impegnati nel ministero, anche se sposati, non vengano ordinati preti. Per i preti stessi che spesso non sanno bene come devono trattare questi collaboratori laici e mentre prima erano il loro “tuttofare”, ora invece devono imparare a collaborare. Questi aspetti negativi e frustranti del contesto in cui si svolge il lavoro pastorale può suscitare nel prete una profonda sensazione di “povertà” dal punto di vista umano che aumenta se, a tutto quello che è stato detto, si aggiungono anche i problemi derivanti dalla sua condizione celibataria, con i problemi che ne scaturiscono e con la diminuzione di consenso e di risonanza che un tale “celibato non scelto, ma imposto per legge”, e spesso non vissuto coerentemente, trova nelle comunità che soffrono della scarsità di preti . Certamente le reazioni e le implicazioni psicologiche per eventuali cambiamenti saranno tante. Infatti, l’uomo, in ogni momento della vita è chiamato a fare tanti ed inevitabili “adattamenti dell’io”.E una specie di manovra psicologica, attraverso la quale, spesso, ci sforziamo di evidenziare al massimo gli aspetti positivi dellambiente in cui viviamo e di minimizzare quelli negativi. Esprimiamo, in tal modo, gli atteggiamenti che dipendono dalla nostra percezione presente o passata, dellutilità che deriva dalloggetto del nostro atteggiamento, come la vita tranquilla, senza noie e senza eccessive preoccupazioni, mentre, invece, questo non accadrebbe, se il prete, per esempio, avesse una famiglia propria. Alcuni adattamenti dell’io sono fatti in modo consapevole, altri in modo inconsapevole, ma ci aiutano a mantenere un equilibrio psicologico col nostro ambiente, col prossimo, con il lavoro e gli avvenimenti di ogni giorno. Ma dietro a tutti i cambiamenti cè sempre la minaccia di un trauma emotivo che potrebbe privarci della pace dello spirito, perché in genere ogni cambiamento ci priva di qualcosa e la sostituisce con unaltra cosa che non abbiamo, ancora, sperimentato. Quando siamo obbligati a privarci di un elemento della realtà che ci circonda, al quale ci eravamo sforzati di adattarci, troppo spesso non ci sentiamo sicuri di adattarci con uguale misura alle nuove persone, situazioni o avvenimenti che stanno per entrare nella nostra vita. Questa incertezza si esprime ordinariamente nel sentimento indefinito, spiacevole, più o meno intenso, chiamato "ansietà", che gli psicologi annoverano tra "le emozioni penose e dolorose". Questo vale sia per i preti che per i laici! Tuttavia, quando avvengono dei cambiamenti – soprattutto nel campo ecclesiale - molto dipende da chi ne è coinvolto. A soffrire è quasi sempre chi è passivo, chi resiste ed agisce solo perché è costretto, mentre chi accetta il cambiamento con un atteggiamento positivo, perché considera il bene che può derivare non solo per se stesso, ma soprattutto per l’intera comunità ecclesiale, trova soddisfazione, appagamento, serenità e nuovi stimoli per la sua missione pastorale. p. Giuseppe dall’Abruzzo.
[1] Fernando Vittorino Joannes ( a cura di), C’è un domani per il prete ?, Arnoldo Mondadori Editore, 1968, p. 7-11. [2] Cfr. 1Pt 5,4. [3] Cfr. 1Tm 4,14; 2Tm 1,6. [4] Cfr. 1Pt 5,2-3. [5] Cfr Lumen Gentium, n. 28; Presbyterorum ordinis, n. 4; EV 1/354.1250s. [6] Cfr. 1Cor 10,16-17. [7] Cfr. Agostino, Sermones, 72:PL 38,1247. |