Carenza di preti... Uomini di Dio, cercansi...

di p. Nadir Giuseppe Perin

Ringraziamo di vero cuore il nostro carissimo amico p. Nadir Giuseppe Perin, prete-sposato dal 1968, per questo approfondimento che ha scritto per il nostro sito come contributo al dibattito sul tema dei preti sposati. p. Nadir Giuseppe Perin è dottore in Teologia dogmatica presso l’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all’Università Lateranense - Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychiatric Nursing presso la Mental Health Division di Toronto; specializzato in scienze psicopedagogiche presso l’Università di magistero dell’Aquila. Per contatti: nadirgiuseppe@alice.it )


“La carenza di preti” è una “malattia” che sta colpendo un gran numero di parrocchie, sia in Italia che nel mondo, incidendo in modo negativo sulle “condizioni di vita” della comunità.  Molte sono private dell’annuncio della Parola e indebolite nella loro testimonianza al Vangelo perché impossibilitate a ricevere i sacramenti, in modo particolare a nutrirsi del “Pane di vita”, l’Eucaristia, che è la fonte ed il culmine della vita e della missione della Chiesa. Per questo, alla porta della chiesa di molte parrocchie si potrebbe mettere l’annuncio: “uomini di Dio, cercansi !...”.

A)     Perché mancano i preti ?

Nessuno lo sa con certezza. Tutti fanno delle ipotesi. Ognuno dà la sua risposta e propone la sua ricetta.  Questa mancanza di preti indica che nella comunità ecclesiale c’è in atto una “crisi” che riguarda la figura del prete che, nella società moderna,è chiamato a mediare le istanze più diverse:quelle di colui che avendo preso i voti deve obbedire in silenzio alle decisioni della gerarchia; quelle connesse al difficile rapporto con i fedeli ed il mondo contemporaneo; quelle insopprimibili legate all’essere anch’egli un uomo che vive di sentimenti e di passioni; senza sottovalutare  i “conflitti generazionali che esistono “all’interno del clero”.

Ci sono nelle parrocchie “preti-giovani tuttofare e preti-anziani immobili”.

I preti anziani rimproverano ai giovani di svolgere “una funzione più da professionisti che da profeti”; li definiscono impegnati più in una pastorale presenzialista che di formazione di coscienze e di spiritualità interiore”; non hanno tempo per la preghiera personale e “solitaria”; sono troppo sicuri di sé e riservano ai preti anziani un’aria di compatimento.

D’altro canto i preti-giovani, biasimano i preti anziani perché “si ritirano nella loro solitudine; perché all’inizio accettano il prete giovane, ma poi diffidano di lui e i rapporti diventano meno fraterni. I preti-giovani considerano i preti-anziani, culturalmente “fermi”; diffidenti delle nuove teologie; non amanti delle stravaganze e delle liturgie innovative”.

In sintesi si nota uno spaccato rappresentativo tra il tendenziale “progressismo” delle nuove generazioni di preti ed il “conservatorismo” di una certa parte dei preti anziani.

Naturalmente, in questo contesto di vita, è facile che, nel tempo, altri fattori maturino ed agiscano più in profondità, tanto da far maturare, nel prete-giovane, l’idea, sempre difficile e sofferta, dell’”abbandono”.

Ma, il dato che più di tutti determina la crisi di tanti preti è quello della “solitudine esistenziale” e della necessità di avere relazioni affettive “umane”. Di conseguenza, molti preti “lasciano” perché, come ogni essere umano s’innamorano e desiderano formarsi una famiglia. E, per sposarsi, “il prete innamorato” deve lasciare la struttura ecclesiastica ed in essa la funzione liturgica, dal momento che – nella Chiesa cattolica occidentale di rito latino - la vocazione al presbiterato e quella al matrimonio non possono essere vissute contemporaneamente. Va, comunque sottolineato che ogni vocazione, intesa come proposta divina ed ogni scelta, intesa come esercizio di libertà, richiedono tempi di maturazione difficili da determinare e da quantificare. Per ogni prete, il “lasciare la struttura ecclesiastica” è la conclusione di un itinerario interiore lungo, complesso e doloroso i cui tempi e modi non sono uguali per tutti, proprio perché la volontà di “lasciare” matura più o meno lentamente perché legata alla scoperta di essere chiamato a seguire la vocazione dell’amore sponsale.

Altri preti abbandonano il “sistema strutturale ecclesiastico” perché vogliono vivere la loro vita, nella libertà dei figli di Dio; perché non sopportano più di vivere il loro ministero in una chiesa ormai totalmente istituzionalizzata, più propensa ad indossare la “stola del potere” che il “grembiule del servizio”; governata da uomini troppo “politicizzati”; legati al potere, al denaro, alla carriera, lontani dalla “vita reale” del “popolo di Dio”, affidato alle loro cure pastorali.

Molte volte, invece, le ragioni del lasciare vanno cercate  nel percorso che spinge a diventare prete. In un primo momento vi è una forte spinta ideale : il desiderio di essere di aiuto, anche concretamente al prossimo; la possibilità di seguire una “via di santità”. L’impatto, poi, con una vita di studi teologici scandita troppo rigidamente da orari, norme, vincoli, ha finito per soffocare in molti ogni aspirazione a spazi di libertà personale. Molti denunciano come l’ “ordinata preghiera”, a cui sono stati obbligati, venga vissuta, alla fine, con sterilità e praticata per puro dovere.

Conclusi gli studi si inizia ad esercitare il ministero. Al prete viene affidata una o anche più parrocchie. Ed è evidente che il salto da uno stile di vita dedita allo studio, alla contemplazione, alla preghiera, ad un altro stile di vita, fatto di responsabilità concrete e spesso pressanti, determini nel prete un forte senso di disorientamento iniziale che con il passare del tempo può causare stanchezza e demotivazione. Il prete oggi non è più per i fedeli soltanto un confessore, una guida spirituale, ma sempre più spesso anche un “analista” che troppo spesso, si carica dei problemi altrui, dimenticando i propri. D’altra parte, negli anni di seminario sono stati educati a guardare alla propria umanità, al mondo, alle persone ed alla vita, dall’alto di quel piedestallo sul quale l’istituzione li ha posti. Sono stati educati a vivere dentro una pelle che quando hanno scoperto non essere la loro, sono entrati in crisi esistenziale dalla quale non sono più riusciti ad uscire. E’ vero che durante gli anni del seminario hanno acquisito una conoscenza biblica e teologica, ma hanno sviluppato, nello stesso tempo, una corazza attraverso la quale nessun sentimento potesse entrare a turbare il loro cuore. Nessuna freccia di Eros potesse perforarlo, nella illusione che, in tal modo, la loro personalità potesse diventare “insensibile” e anestetizzata di fronte a tutto ciò che ha che fare con i sentimenti, le passioni, l’amore, la donna, con il risultato che, alla fine, si sono trovati completamente “spiazzati”.

Altri affermano che i preti sono pochi perché la famiglia non ha più alcun interesse che il proprio figlio si faccia prete. Mentre prima, il miglior dono che Dio poteva fare ad una famiglia era quello di un figlio prete. I genitori, oggi, hanno aspettative diverse per i loro figli”. Ma, la vera ragione di questo atteggiamento non è legata tanto al fatto che oggi le famiglie accolgono meno figli di una volta, ma dal fatto che i laici non sono educati ad una fede adulta e responsabile in modo da sentirsi coinvolti  nella gestione delle problematiche  e nella realizzazione delle aspettative della comunità ecclesiale, a cominciare da quella parrocchiale di cui fanno parte. La struttura operativa della “Chiesa-sistema”, come noi la vediamo, è più il frutto di norme, di leggi contenute nel Diritto Canonico che la “messa in pratica” del messaggio evangelico lasciatoci da Gesù. Per il Vangelo siamo tutti uguali davanti a Dio, per il Diritto Canonico, invece no ! Da una parte, c’è il gruppo che “indossa la stola” ( i chierici), con i loro “diritti di stola” – simbolo del potere e, dall’altra, il gruppo dei laici ( i non chierici) ai quali non rimane che attuare i “doveri del grembiule”, cioè prestare un servizio obbediente all’autorità e al magistero clericale, da cui tutto dipende. Nel tempo, i chierici, proprio perché molti si comportano più da “padroni” del gregge che da “servitori”, hanno espropriato i laici “della loro coscienza di essere parte viva ed attiva della Chiesa” e di sentirsiin essa “corresponsabili” della sua vita. Non è forse vero che i laici ( = i non chierici) quando sentono parlare “di Chiesa”, pensano subito al Papa, ai vescovi, ai preti, ai frati, alle suore…? Quasi mai pensano a se stessi, come a persone coinvolte in quello che viene detto o fatto nella Chiesa !

Infine, anche se l’elenco delle opinioni  e delle ipotesi sul perché della “carenza di preti”, potrebbe allungarsi all’infinito, non sono pochi quelli che pensano che molti giovani non rispondono alla chiamata di Dio a farsi prete perché non se la sentono di rinunciare al matrimonio per tutta la vita. Se il celibato, invece di essere imposto, fosse lasciato alla libera scelta della persona, probabilmente il numero dei presbiteri aumenterebbe.

B) Di fronte alla constatazione della carenza di preti, a prescindere dalle ragioni che ciascuno potrebbe portare a giustificazione della stessa, alla porta di molte chiese bisognerebbe mettere l’avviso : “Uomini di Dio cercansi…”

Ma, di quale Dio si tratta? Del “Dio secondo l’uomo” che è quello del Vecchio Testamento o del “Dio di Gesù” che è “Dio secondo Dio” ? 

Per molti chierici “il Dio secondo l’uomo” del Vecchio Testamento andrebbe benissimo, perché è l’unico ad assicurare ai “sacerdoti” sicurezza e potere sul popolo. Solo nell’Antico Testamento, infatti, esiste una casta sacerdotale, i cui membri erano considerati gli unici mediatori tra Dio e l’uomo. Si tratta, infatti, di un Dio Signore e Padrone di tutte le cose, di fronte al quale l’uomo deve considerarsi solo un servo-peccatore che, per meritarsi la benevolenza di Dio, deve offrire a Lui,nel contesto del luogo sacro del tempio e con la mediazione del sacerdote, sacrifici di espiazione e di purificazione per i propri peccati.

Ma ci sono molti, invece, che vorrebbero che i “pastori del gregge” fossero gli uomini del Dio di Gesù che è “Dio secondo Dio” e che Gesù ci ha fatto conoscere, sia parlandoci di Lui che comportandosi come Lui. “Dio, nessuno l’ha visto mai: l’Unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18)

Gesù ci ha fatto conoscere come si comporta Dio con l’uomo. E’ un Dio-Padre che si mette al servizio dell’uomo-figlio; un Dio che ci ama gratuitamente e indipendentemente dal nostro comportamento e quindi in modo infinito, perché non misurato o proporzionato al nostro essere “più o meno buoni”, più o meno osservanti della legge. Un Dio che ci dona il suo amore e ci chiede di accoglierlo per essere, a nostra volta, in grado di amare gli altri, come lui ci ama e li ama.                   “ Amatevi gli uni e gli altri come Io ho amato voi. Da questo riconosceranno che siete miei discepoli”.  L’amore, infatti, di cui Gesù ci ha dato testimonianza, invitandoci a fare altrettanto, è un amore che ha come caratteristica quella di essere solo ed esclusivamente un dono di sé all’altro. Se fosse, invece, un amore “codificato”, cioè imposto, perderebbe la sua qualità essenziale di “essere dono”, perché la caratteristica del “dono” è quella di essere libero da ogni condizionamento. Se il dono, per essere fatto, venisse legato a qualche condizione, allora diventerebbe “un qualcosa da conquistare e meritare, attraverso la preghiera, il digiuno, la rinuncia, i sacrifici quotidiani”.

La risposta dell’uomo ad un dono fatto “a condizione che…”  non sarà mai una risposta libera. Di conseguenza un celibato imposto non potrà mai essere vissuto come “dono dello Spirito”, ma sarà sempre vissuto come “problema per l’uomo”, finchè non diventerà nuovamente una risposta libera dell’uomo al dono gratuito di Dio.

Lo stesso Concilio Vaticano II, nel Decreto sul Ministero e la vita dei presbiteri (n.16) fece delle affermazioni sul celibato che contraddicono il significato di “dono” … il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito venne  imposto per legge nella chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere gli Ordini Sacri. Tuttavia, questo sacrosanto Sinodo torna ad approvare e confermare tale legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al Presbiterato, avendo piena certezza nello Spirito che, il dono del celibato, così confacente al Sacerdozio della Nuova Legge, viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che tutti coloro che partecipano del Sacerdozio di Cristo con il sacramento dell’Ordine, lo richiedano con umiltà ed insistenza”.

Ma, se Dio quando dona non pone alcuna condizione, perché continuare a sostenere  che “…il dono del celibato…viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che…” ?  I Padri conciliari non potevano che esprimersi in questa maniera, dal momento che Paolo VI, mediante lettera, aveva loro proibito di trattare pubblicamente il tema del “celibato del prete”, riservando a se ogni decisione in merito. Tale modo di pensare e di argomentare  - che rispecchia la mentalità del Vecchio Testamento - mette in luce proprio le due categorie che Gesù aveva escluso dalla comunità di cui Lui è pietra angolare. Quali sono queste due categorie?

  • la categoria del merito che mette in risalto come l’uomo debba sforzarsi di essere in sintonia con la legge per meritare l’amore di Dio
  • e la categoria dell’esempio che mette in risalto come l’uomo debba impegnarsi nell’osservare le leggi, anche quando sono complicate, a volte addirittura impraticabili, per essere, così, di esempio per gli altri, cioè mostrare la propria virtù o le proprie capacità all’altro, perché anche l’altro si sforzi, a sua volta, di imitarle.

Invece, quello che Gesù ha cercato di farci capire è che la nuova Alleanza, non essendo più basata sull’osservanza della Legge, sulla pratica dei precetti o dei comandamenti, ma essendo basata sulla grazia, sull’amore gratuito dato attraverso Gesù, l’amore di Dio non va meritato ma va semplicemente accolto- in quanto viene dato gratuitamente e incondizionatamente a tutti.

Al posto della categoria del merito - propria del Vecchio Testamento - che comportava la categoria dell’esempio, Gesù fa subentrare la categoria del dono - propria del Nuovo Testamento - che comporta la categoria del servizio, che significa mettere le proprie qualità e le capacità possedute, al servizio dell’altro, perché ne possa usufruire ed ottenere gli stessi vantaggi e gli stessi benefici.

Mentre, con la categoria dell’esempio si crea disuguaglianza e differenza  - perché una persona deve mostrare le virtù, la capacità, le qualità che possiede perché altri che non le possiedono si possano sforzare, in qualche maniera, di imitarle e quindi di acquisirle - con  la categoria del servizio si crea l’uguaglianza.

Ho l’impressione, invece, che coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero, continuino a racchiudere il messaggio di Gesù dentro “delle otri vecchie”, preferendo la mentalità che spinge l’uomo a vivere secondo la Legge e la religione - intesa come quell’insieme di atti, di sentimenti che l’uomo deve avere nei confronti di Dio per essere a Lui gradito e meritarsi il suo amore - piuttosto che secondo l’amore e la fede  - intesa come tutto ciò che Dio fa nei confronti dell’uomo.

Nonostante questa grave carenza di preti, le autorità della chiesa continuano a rinviare sia la prognosi che la terapia. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad una continua “prognosi riservata” dal momento che il paziente – la comunità ecclesiale – non è mai stata dichiarata “fuori pericolo” per la carenza di preti di cui soffre. Perché ? Perché molti si vergognano di “proporre” delle soluzioni, mentre, invece, sono pochi coloro che si vergognano di “imporre” fardelli inutili che servono solo a “rovinare” la vita delle persone.

In questa situazione di emergenza, in cui “ i preti mancano” e tante comunità ecclesiali cercano “uomini di Dio”, le strade indicate, per la soluzione, almeno parziale, del problema, sono molte e tutte percorribili, nel senso che una non esclude l’altra, ma soprattutto perché  potrebbero essere complementari tra di loro.

Ho l’impressione, invece, che molti Vescovi diocesani, soprattutto quelli italiani – e in Italia si contano 227 diocesi; 25807 parrocchie - si limitino semplicemente a “far la conta” dei preti che hanno a disposizione per soddisfare le necessità spirituali dei fedeli affidati alle loro cure, senza però avere il coraggio di intraprendere nuove strade. Si continua ancora a viaggiare tenendosi aggrappati al passato come se nella storia della salvezza dell’uomo, Dio avesse esaurito la sua “fantasia”. Ci si limita a fare la solita diagnosi della situazione…a criticare l’altrui operato, ma rimanendo poi alla finestra a guardare quello che fanno gli altri, perché non si ha il coraggio di rimboccarsi le maniche per cercare delle soluzioni adeguate ai vari problemi pastorali, soprattutto a quello della “carenza di preti”.

Quali sono le proposte che vengono fatte ?

1) La prima è quella che il “celibato dei ministri” torni ad essere una libera scelta della persona chiamata da Dio ad “essere” ed a “fare” il prete  a servizio della comunità ecclesiale.

 2) La seconda riguarda il “reclutamento” di coloro che vogliono farsi prete. L’età  per entrare in seminario dovrebbe essere spostata alla maggiore età, abolendo così tutti i seminari minori. Il primo “seminario” , cioè luogo di formazione umana e cristiana per i futuri preti  dovrebbe essere la famiglia, poi la comunità parrocchiale, la scuola ed infine le università ecclesiastiche…

I giovani devono crescere e formarsi come uomini e come cristiani, prima di tutto, nella propria famiglia fino a quando, divenuti maggiorenni, possono decidere da soli, a quale ruolo o compito prepararsi per essere utili alla società.. Non per questo i giovani vanno lasciati soli nel loro cammino di formazione umana e cristiana, ma ogni comunità assieme ai propri preti-pastori dovrebbe aiutare le famiglie nel cammino di educazione umana e cristiana dei figli…

3) La terza proposta è quella di aprire il ministero al presbiterato uxorato ( probi viri).Una porta, però, che la gerarchia ecclesiastica non ha mai osato aprire. Una possibilità sempre rifiutata da Roma, nonostante le insistenze provenienti da diversi pastori di numerose comunità sparse nel mondo.

4) La quarta proposta è quella di riutilizzare, nell’emergenza, quei preti sposati che si trovano nella situazione ecclesiale di poter essere riutilizzati e che si dichiarano personalmente disponibili ad un impegno ministeriale presbiterale, per il bene delle anime, pur nell’attuale “contesto ecclesiologico”. Cosa che in America già viene attuata attraverso l’associazone CITI ( o Rent a priest) che ha il consenso di qualche vescovo e che fornisce alle comunità che lo richiedono i preti – anche se sposati – per celebrare i sacramenti. Questi preti sposati sono disponibili per confessioni, Messe, benedizioni e tutti gli altri servizi nelle parrocchie, enti pubblici, case private, case di accoglienza, prigioni ed altri istituti. CITI non è un’organizzazione di protesta, ma ha una funzione suppletiva. Supplisce là dove “coloro che hanno la responsabilità del ministero” non arrivano o non vogliono arrivare! Tale organizzazione non esiste soltanto per fornire servizi ministeriali ove necessario a causa della scarsità numerica del clero. Ma si mette anche a servizio di tutte quelle persone che sono state messe da parte dall’istituzione cattolica, come i divorziati, situazioni interreligiose ed altro, dal momento che Gesù non ha mai messo da parte nessuno.

Qualcuno dirà che si tratta delle solite “americanate” !Qualche altro si straccerà le vesti, dal momento che il comportamento di questi preti-sposati viola quanto disposto dal Diritto Canonico! Ma, non c’è alcuna ragione di scandalizzarsi, dal momento che per provvedere alle necessità del popolo di Dio ( la salvezza delle anime: can. 1752) – compito al quale, per nessuna ragione al mondo, chi ha la responsabilità della comunità ecclesiale, può sottrarsi - nel caso di mancata disponibilità di preti celibi, il Diritto Canonico prevede il ricorso anche a preti sposati, sia all’interno che all’esterno degli edifici ecclesiastici.

Non so quanti abbiano letto e meditato, seriamente, l’articolo di Padre Delmar S. Smolinski, JCL, SWL “ Preti sposati e leggi ecclesiastiche”. In quell’articolo, codice di Diritto Canonico alla mano, viene ribadito in modo chiaro che “non c’è bisogno di autorizzazioni speciali per intervenire pastoralmente in situazioni di emergenza. L’autorità per agire la si desume dagli stessi canoni e deriva da ciò che deve essere sempre considerato il bene supremo: “la salvezza delle anime”   (can. 1752).  Ora, dal momento che :

  • il can. 290 afferma che “la sacra ordinazione una volta ricevuta validamente, non può essere mai più annullata…” Quindi un prete è e sarà sempre prete; è e sarà sempre un ministro a disposizione di tutti per la salvezza delle anime.
  • Ed il can. 843 §1. afferma che “i ministri sacri non possono rifiutare i sacramenti a coloro che li chiedono in modo opportuno, risultino ben disposti ed il diritto non impedisca loro di riceverli”.

Si può affermare con piena coscienza che “è ragionevole e logico chiedere i sacramenti ad un prete cattolico sposato, validamente ordinato, per esigenze spirituali o in mancanza di preti celibi, quali prassi opportuna ed appropriata.

Lo stesso Benedetto XVI, affermò quando era ancora cardinale : “ Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo ed ultimo tribunale e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce un principio che si oppone al crescente totalitarismo” ( cfr.Joseph Ratzinger, in Commentary on the documents of Vatican II, Vol V, p. 137, a cura di Herbert Vorgrimler, Herder and Herder, 1967-1969, New York, traduzione inglese da Dass Zweite Vatikanische Konzil,Dokumente und Commentare).

Sono in molti a pensare che la missione del prete oggi, sia quella di “accompagnare” il gregge a lui affidato, sulla via della fede, trasmettendo, in una lingua adeguata al nostro tempo, il significato essenziale dell’amore di Dio e di Cristo risorto e prendendo maggiormente in considerazione la responsabilità e la competenza decisionale di tutti i fedeli in questioni esistenziali. Sia i chierici che i laici non dovrebbero navigare da soli nel mare del mondo, ma dovrebbe vivere insieme in “comunione” viva ed impegnata nella solidarietà. La Chiesa, infatti, che tutti insieme ( chierici e laici)  formiamo, non è una “sala di attesa”, ma “un popolo in cammino” per cui bisogna combattere la stanchezza dal troppo riposo. Tutti dobbiamo “rimboccarci le maniche e rimetterci in marcia, evitando “il clericalismo” che alberga sia tra il clero anziano, ma anche in quello giovane e fa sì che il ricordo prevalga sul desiderio, la memoria sulla fantasia, la nostalgia sulla speranza. I preti devono evitare l’isolamento ed i laici vanno adeguatamente formati e rivalutati nella loro dignità cristiana. E’ vero che i vescovi ed i preti sono come i “direttori d’orchestra”, ma non devono, però, sostituirsi ai musicisti. Non dimentichiamo che “la Chiesa di Dio”(chierici e laici insieme), è un “popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per questo la Chiesa è “comunione” che richiede ad ogni battezzato (chierico o laico che sia) di dire tre no decisi : 1) al disimpegno 2) alla divisione 3) alla stasi, perché si tratta di atteggiamenti volti solo a conservare il passato, mentre il dono ricevuto nel battesimo e negli altri sacramenti esige da tutti a) un impegno responsabile b) il dialogo c) l’accoglienza reciproca nella varietà dei doni e dei servizi.

Ma,la “Chiesa come comunione” richiede, anche, a tutti i battezzati di dire tre si, sia con le labbra che con la vita : 1) alla corresponsabilità, 2) nella comunione  3) ed alla continua riforma ispirata al Vangelo.

In questi tre no e tre sì, si esprime un popolo di cristiani adulti, liberi e fedeli a Cristo, capaci di farsi volto dell’amore trinitario fra gli uomini. Inoltre, mantenendo la  rinnovata consapevolezza della “profezia della Patria”, ne scaturisce per tutti (vescovi, preti, laici) l’esigenza di impegnarsi nella continua “conversione del cuore”, del proprio essere e del proprio agire.

Solo così si può raggiungere nel popolo dei pellegrini di Dio quell’unità che si offre come dono già presente e promessa non ancora pienamente realizzata. La “profezia della Patria insegna a tutti noi che siamo Chiesa a relativizzare le grandezze di questo mondo, a farsi perciò coscienza evangelicamente critica della prassi storica.

Ma, il cambiamento non si attuerà mai, nonostante la preghiera incessante e fiduciosa rivolta al “Padrone della messe, perchè mandi operai nella sua messe”: fino a quando la “gerarchia ecclesiastica” riterrà la questione del celibato dei preti…e la questione della carenza dei preti, una sorta di tema concettuale piuttosto che qualcosa che richiede soluzioni di ordine pratico; fino a quando continuerà a chiedersi se “esistono ancora dei veri credenti, nell’attesa di vedere poi se tra questi veri credenti ci siano dei preti”.

Prima di ogni reclutamento vocazionale, dal momento che i “vocati” “vengono dal popolo” è necessario formare il “Popolo di Dio” ad una fede matura e responsabile. Sarà allora che la comunità potrà “scegliere” dal suo interno i pastori che si prenderanno cura del gregge, indipendentemente dal fatto se siano “celibi” o “sposati”.

p. Giuseppe dall’Abruzzo



Mercoledì, 07 maggio 2008