Preti sposati - Riflessione
Preti celibi e pastori sposati: una riflessione protestante sul celibato ecclesiastico

di Luca Baratto

Roma, 12 novembre 2007 (NEV/CS99) - Pubblichiamo in anteprima l’editoriale del pastore Luca Baratto che uscirà il prossimo mercoledì con il numero 46 di NEV-Notizie evangeliche. L’autore, curatore del programma di Radiouno "Culto Evangelico", prendendo spunto dalle ultime dichiarazioni del cardinale Roger Etchegaray, riflette sul celibato ecclesiastico e spiega i motivi che hanno spinto la Riforma protestante del XVI secolo ad abbandonare tale pratica. Con una domanda finale sulla compatibilità o meno tra l’attuale concezione cattolica del sacerdozio ordinato e l’abolizione del celibato dei preti.


Le parole del cardinale Roger Etchegaray sulla possibilità di ordinare dei preti sposati riaprono, a poco più di un anno dalle analoghe affermazioni del cardinale Hummes, la questione più ampia del celibato ecclesiastico. Un dibattito che, da un lato, seguo sentendomi un osservatore esterno, perché l’argomento riguarda una chiesa alla quale non appartengo; dall’altro, rievoca uno dei termini della polemica confessionale tra cattolici e protestanti. Da ragazzo, (non molti anni fa), ho ancora fatto in tempo ad avere tra le mani quei pessimi libelli polemici che riducevano l’intera esperienza di Martin Lutero al suo matrimonio con Katharina von Bora: come a suggerire che la protesta del monaco tedesco fosse nata dalla sua bramosia sessuale. Altri tempi, altri libri, altri autori. Oggi la figura di un pastore protestante sposato non fa scalpore, mentre a fare notizia è anche la più debole affermazione sul celibato dei preti.
Il celibato ecclesiastico non nasce con il cristianesimo ma si sviluppa al suo interno come regola della chiesa cristiana occidentale. Una disciplina dalla quale la Riforma protestante del XVI secolo decise di allontanarsi, soprattutto per due motivi. Il primo ha a che fare con la testimonianza biblica, sulla cui autorità il protestantesimo ha inteso riformare la chiesa. Secondo la testimonianza delle Scritture il celibato, infatti, non è un valore. Nell’Antico Testamento il matrimonio è un dono che riguarda tutto il popolo di Dio: ci sono sacerdoti, mogli di sacerdoti e, soprattutto, figli e figlie di sacerdoti: la più grande delle benedizioni è infatti avere una progenie a cui testimoniare le grandi cose che il Signore ha fatto. Nel Nuovo Testamento vengono citate le mogli degli apostoli (1 Corinzi 9:5) e dei vescovi (Tito 1:5-7) che, è specificato, per la loro reputazione è meglio che abbiano una sola sposa (1 Timoteo 3:1-6). Insomma, l’imposizione del celibato non trova fondamento nella testimonianza biblica.
C’è però una seconda e più ampia ragione che ha spinto i Riformatori ad ammettere il matrimonio dei pastori: una diversa valutazione del mondo secolare. La vocazione cristiana secondo il protestantesimo può essere vissuta soltanto nel mondo secolare: non esistono né luoghi appartati come i monasteri, né condizioni particolari come il sacerdozio, nei quali vivere una fedeltà maggiore di quella che ti consente la vita di tutti i giorni. Per questo la Riforma chiuse i primi e abolì, con l’idea del sacerdozio universale, la distinzione tra clero e laicato. Un pastore si distingue dai membri di chiesa per i doni ricevuti dal Signore, per la preparazione teologica che ha, ma è un laico come tutti gli altri che è chiamato ad esprimere la sua vocazione nella vita di tutti i giorni, accompagnando la sua comunità, e condividendo con essa tutti quei doni che il Signore elargisce: tra questi, il matrimonio, con le responsabilità che esso comporta – la famiglia.
In positivo, l’avere famiglia ha sicuramente contribuito a radicare la predicazione dei pastori tanto nelle Scritture quanto nell’esperienza e nei problemi quotidiani; a comprendere la sessualità in termini più positivi; a seguire la complessità dei cambiamenti della società, i diritti di uomini e donne nella società e nella chiesa, tanto che oggi non ci sono solo i pastori e le loro mogli, ma anche le pastore con i loro mariti.
E’ per questa visione delle cose che, nella discussione sul celibato ecclesiastico, non posso non provare simpatia per i preti sposati e quanti vivono con dolore il conflitto tra la propria vocazione al servizio del Signore e quella a formarsi una famiglia.
Certo mi rendo anche conto che parlare di celibato ecclesiastico apre anche questioni che non si risolvono nell’ambito delle scelte personali o nelle leggi, sempre emendabili, della chiesa cattolica. In campo c’è anche la discussione sul concetto di sacerdozio ordinato che nei rapporti tra cattolici e protestanti è la questione delle questioni. Tanto che la domanda cruciale – che non è retorica perché sono realmente interessato ad una risposta qualificata – mi sembra questa: se l’abolizione del celibato ecclesiastico sia compatibile con l’attuale concezione del sacerdozio ordinato. Forse una risposta a questo quesito ci potrebbe dare l’idea di quanto tempo dovrà passare perché un prete sposato possa ritrovare il suo posto nella chiesa di Roma.

pastore Luca Baratto



Lunedì, 12 novembre 2007