Racconto
Cecilia

di Giovanna Mulas

Ringraziamo di vero cuore la carissima amica Giovanna Mulas per questo suo racconto inedito. Segnaliamo ai nostri lettori l’appello per l’applicazione a suo favore della legge Baccheli che le consentirebbe di vivere dignitosamente. Per informazioni su Giovanna Mulas e per sostenere la campagna a suo favore vedi il suo sito http://www.giovannamulas.it/


MI chiamo Cecilia, ho quindici anni, vivo da due nell’ istituto Villa Santa Rosa, ad est della tangenziale, su per il terzo colle, ultima camera sul corridoio, a destra.

La mia stanza dà per la campagna e i tetti di Centocelle, alle pareti, verdi e arancio, ci stanno i fiori, margherite ritagliate dalle riviste di moda, le lampade sono colorate e trasparenti e le sedie in plastica perché nessuna di noi possa farsi male; senza spigoli. L’aria è buona e pure l’acqua, sto sola in stanza che mi dicono aggressiva, pe – ri – co- lo-sa c’è scritto sul mio rapporto, nero su bianco. Mi danno Serenase, conto quindici gocce, a volte Valium, poi non so. La firma della dottoressa Conti –una dritta, ve lo dico io, con la faccia dolce ma i modi da SS e i tacchi da prostituta. Una maitresse che ci controlla tutte- la firma è bella grande, biro blu, a chiudere il documento.

La mia stanza è bella, dà per la campagna e i tetti di centocelle, l’aria è buona e pure l’acqua, peccato per le sbarre. Peccato peccato davvero.

Una volta ho provato a  morsicarle. Volevo mangiarmele pezzo a pezzo. Un pezzo a te e un pezzo a me, e volare fuori. Mi sarei trasformata in un pettirosso, lo so.

Appena la testa sarebbe riuscita a sbucare all’ esterno, appena un solo capello di me l’avesse fatto, oh, lo so, mi sarei trasformata in pettirosso. Le mani ali, grandi come quelle degli angeli…perché io sono un angelo sapete?

Io amo molto i pettirossi. Vorrei che tutti i sorrisi che mi vengono fatti si trasformino in pettirossi. Pare che tengano la loro croce tatuata sempre sul cuore, a vista di tutti, senza vergogna. Perché vergognarsi del dolore? E dell’ amore?

Io mi sono vergognata dell’ amore.

Un dolore grande, immenso, talmente insopportabile che alla fine dal cuore è scaturito, scappato fuori, uscito allo scoperto affinché tutto il mondo possa dire: ecco, quel tizio è portatore sano di dolore. Rispettiamolo che forse ci ha tanto da insegnarci. Volevo mangiarmi le sbarre e l’ incisivo me lo sono rotto. Ma non ci sono riuscita a mangiarle. A volare fuori. Non ci sono riuscita… Allora m’è presa una crisi….una di quelle mie, e ho cominciato a gridare  e gridare, a battere i piedi e stringere i pugni coi denti…ma solo il vento mi ha risposto.

E fuori dalla stanza, quell’ infermiera grassa (ce ne stanno quattro nel nostro reparto, come gli angeli dell’ apocalisse) che sembra una suora, mi guardava e rideva: - meriti quello che hai-, mi dice sempre. Che puttana. Ma chi se la piglia una così? Dirle puttana è farle un complimento.

A Filippo mio sarebbe piaciuta, a lui piacciono puttane.

Quando  successe, non lo ricordo, non lo voglio ricordare dottoressa…devo proprio? Aiuta a …ri…rimuovere il dolore? Non so se voglio rimuovere il dolore, non so se voglio e non so rimuovere. Non voglio vivere. Una volta vidi in tv il documentario di un feto al momento dell’aborto…il feto gridava sa dottoressa? E’ possibile secondo lei che un feto gridi? Urlo nel silenzio. Dolore nel silenzio. Mi vengono queste parole: feto aborto grido urlo sangue pianto dolore morte morte morte morte… basta così. Oltre non voglio andare, mi fa male la testa, e il cuore.

Mi piacciono i pettirossi, e gli uccellini azzurri. Come quelli della favola di mitil e titil che mi leggeva la zia Erminia da bambina,

lei che faceva schioccare la dentiera profetizzando con la sua voce lamentosa, divorando storie e morali allineate come perle di collana.

Diceva che io e Filippo saremmo stati una bella coppia, più bella di Topolino e Pluto. Faceva sempre confusione la zia Erminia, pure lei era un po’ stranita.

Mitil e Titil erano i due fratelli che cercavano la felicità rappresentata dall’ uccellino azzurro.

La cercavano ovunque, attraverso il tempo e lo spazio. E solo alla fine scoprivano che, una volta catturato, l’uccellino azzurro in gabbia moriva. Moriva la loro felicità, messa dietro le sbarre. E scoprivano pure che, in realtà, la felicità l’avevano sempre avuta accanto, rappresentata in quei due genitori, poveri in canna ma pieni d’amore. Non voglio pensare all’ amore, può ingannare.

Avevo quattro, cinque anni ricordo…andavo saltellando a scuola con la cartella sulle spalle e un giubbotto più grande di tre taglie, verde, appartenuto a mia sorella Giuditta, quella che ora vive a Milano e fa la guardarobiera in un Jolly Hotel…una cosa importante insomma.

Vidi un piccolo uccellino azzurro morto, buttato sul ciglio del marciapiedi, tra fango e sassi, un azzurro indescrivibile dottoressa. Rimasi a fissarlo per ore, ricordo. Dimenticando la scuola, mio padre che me le avrebbe date di santa ragione, la preoccupazione di mamma…tutto. Vedevo quell’uccellino talmente…bello…bello…meraviglioso, nella fissità della sua morte.

Oh, quanto può essere affascinante la morte, dottoressa! Quanto! Forse è come il mare, viene e va, eppoi ritorna e va ancora. Ti chiama. E lascia solo sabbia, il luccichìo della rena sotto il sole…immobile, fissa, come l’azzurro di quell’ uccellino, Il rosa di un piccolo corpo gettato dentro un cassonetto.

O il nero dei corvi sopra il filo del telefono, uno appresso all’altro, neri panni stesi senza essere stati lavati.

E per ognuno di noi c’è un corvo.

Rimasi incinta così, senza che me l’aspettassi…penso che sia successo la volta dopo il cinema, il film di Scamarcio…avevo Filippo mio sopra di me e pensavo a Riccardo, a quanto era dolce.

Mi sentivo felice…un bambino tutto mio con cui giocare, raccontare storie, coccole e cose così.

Filippo appena lo seppe mi chiese se era il suo…partì qualche settimana dopo, penso che ora stia in Germania da un suo fratello cuoco in una pizzeria di italiani. E’ bravo a suonare la chitarra Filippo

Perché piccola potresti andartene dalle mie mani

ed i giorni dapprima lontani saranno anni

e ti scorderai di me,

quando piove e respiri e le case riportano te

e sarà bellissimo

E’ anche bello, con due labbra che pare ti mangino…forse non ero alla sua altezza, bhò.

Mamma s’ accorse della mia gravidanza sentendomi tutte le mattine vomitare chiusa in bagno…pensa te, ci ha cresciuti in sette… se non doveva capirlo lei –ci hai una faccia oggi Cecì-,mi diceva ogni mattina. Fino a che non l’ha scoperto trovando i risultati degli esami sotto il mio materasso.

Se mi avessero detto subito che il mio bambino poteva essere affidato ai medici, dato in adozione una volta nato senza che il mio nome si sapesse…non l’avrei fatto dottoressa. Nononono. Non l’avrei …

E se ci avessero parlato, a scuola, di quello che mia madre non mi ha detto mai per vergogna (e padre Michele pure non diceva nulla…sussurrava solo non peccare figlia mia, il peccato sta ad ogni angolo di strada. Ma l’amore è peccato dottoressa?)…se ci avessero parlato, se io avessi saputo prima cos’è l’amore forse…forse ora non sarei qui. E il mio Filippo sarebbe stato un altro, un’altra faccia avrebbe avuto, un cuore diverso.

Ma forse in Italia non c’è dato di sapere. Papà diceva così: Ci vogliono tutti caproni, al guinzaglio.

E le donne capre a testa bassa.

Mi chiede dove sta la libertà della donna dottoressa? Penso nella conoscenza, nella curiosità, nello scavare l’apparenza. Ma io sono matta, e a volte mi dico che non tutte hanno le armi per scavare.

Mia madre non ce le aveva; mi ci portò apposta da quella cinese ché aveva paura della vergogna del vicinato, mi disse. –A te ti diranno puttana e a me mamma della puttana-, mi disse. E me lo disse piangendo, come che lo strappassero a lei il figlio dal ventre, come che fosse cosa sua. Si, una cosa.

Chi può decidere cosa è giusto o sbagliato per me?

Oggi, qui, chi me lo può dire di aver fatto la cosa giusta?

Dopo…dopo, quando passavo per strada, i ragazzini mi gridavano appresso eccola, la puttana che ha abortito.

Mamma non teneva armi per scavare, mio padre ci provò con me il giorno dopo l’aborto –ché se lo fai con tutti devi farlo anche con me-, disse.

No dottoressa, nononono…quei campanelli che agita nel polso…si, quelli…mi danno fastidio… come sonagli di serpe sono. Mi fanno pensare. Che ne sa lei che dice passerà? E che ne sa il mondo?

Chi è in grado di scegliere per me la mia vita?

La forza più grande della donna sta nella conoscenza.

Mi chiamo Cecilia, ho quindici anni, vivo da due nell’ istituto Villa Santa Rosa, ad est della tangenziale, su per il terzo colle, ultima camera sul corridoio, a destra.

La mia stanza dà per la campagna e i tetti di Centocelle, è bella, l’aria è buona e pure l’acqua, peccato per le sbarre.



Martedì, 01 aprile 2008