Racconto
La vera e irrepetibile storia di «bellumurìri»

di Rosario Amico Roxas

Una breve premessa devo fare ai miei amici ed anche alla redazione; mi sono assentato per motivi di salute, per un ricovero urgente in un ospedale di Caltanissetta; poichè dovrò subire un intervento, che preferisco fare a Catania, mi sono fatto visitare dal chirurgo che dovrà operarmi. Unitamente ad una terapia, mi ha proibito tutte le fritture (è coinvolta la colicisti con un bel numero di calcoli), di qualunque genere e tipo anche quella di pesci, quindi un bell’arrivederci verso la fine del mese.

Ho ripreso la macchina e mi sono diretto in un ristorante sul mare ad Aci Trezza, la città dei Malavoglia) ed ho pranzato con una sontuosa frittura mista di pesce del golfo.

Mentre mangiavo mi sovvenne di quella ricerca che mi incuriosì da giovane che riguardava una famiglia di alto lignaggio, proprietari di feudi, cantine, palazzi a Palermo e titoli nobiliari risalenti a Federico II; ricchi, molto, ma gravati da un nomignolo assai curioso “bellumurìri” (rigorosamente unito, che in siciliano significa “bello morire”).

Ovviamente nulla è contenuto nelle enciclopedie o nei libri di storia, bisognava andare alla ricerca di quei vecchi che rappresentano l’ultimo anello di congiunzione con antiche leggende, o storie o cronache. Così interrogando vecchi contadini, a volte anche riottosi, cominciò a delinearsi una storia fantastica e pruriginosa, una storia d’altri tempi …..

Intorno alla fine del 1700 l’erede diretto dei baroni …., conti di …. dei principi del …. andò a nozze con la figlia del suo confinante del feudo oggi conosciuto come “feudo bellumurìri”, così quel feudo si triplico di estensione.

La moglie era però una bigotta convinta, mentre il barone sprizzava vitalità da tutti i pori; sembra che molte signore dell’alta nobiltà siciliana ebbero a constatare tale vitalità, ma furono anche domestiche e contadine, che ne godettero, che ricevevano in dono un “dammusu” e due “salme” di terreno; ancora oggi esistono piccole proprietà limitrofe al feudo bellumurìri, di quelle dimensioni e con quelle caratteristiche, molti confinanti tra di loro.

Ma la moglie era severissima nei costumi, pretese stanze separate che il nobiluomo accordò con piacere, e quando il legittimo marito le ricordava a chiare lettere uno egli scopi del matrimonio, si presentava al talamo con un gran camicione con una breve apertura sul davanti. Era il passaggio consentito ai doveri coniugali, senza il rischio di scoprirsi più di tanto.

Malgrado queste proibizioni la donna ebbe due figli, ma si vantava di non “aver mai peccato”, intendendo dire di non aver mai provato piacere sessuale, ritenuto, allora, peccato (retaggio della dominazione araba ?).

Il barone non se ne faceva una grande pena; le sue proprietà erano di parecchie migliaia di “salme di terreno” per cui toglierne 2 con annesso “dammuso” non lo avrebbe portato a rovina.

La gentile signora si accorgeva delle eccessive attenzioni del marito verso le cameriere, specie se giovanissime e belle, per cui, da perfetta padrona di casa, le allontanava.

La passione per le lunghe cavalcate portava il barone in giro per le sue proprietà, di cui conosceva ogni anfratto, ogni segreto e ogni femmina appetibile.

I tempi, peraltro erano questi, nessuna contadinotta avrebbe mai negato se stessa al padrone, e poi un rapporto con un uomo titolato e raffinato, dava anche a loro un attimo di nobiltà.

Ma avvenne l’irreparabile; un giorno il barone ebbe un infarto, che i medici corsi al suo capezzale, sbagliando diagnosi e cura, gli fecero superare con salassi, purghe ed enteroclismi.

Guarì, ma restò “blessè”, ferito, forse più nello spirito che nel corpo.

L’antico vizietto urgeva ogni giorno di più, al punto che un giorno esplose, montò a cavallo e raggiunse una delle sue tante casine di caccia, abitata dal guardiacaccia, la moglie e una splendida figliola.

Mandò il guardiacaccia lontano con un pretesto, quindi allontanò la moglie e rimase con la giovinetta che tanto innocente non era. Iniziò gli approcci, da buon viveur, ma fu la ragazzina a modificare il programma, dimostrandogli di gradire ben più che gli approcci.

Il barone si sentiva in groppa alla sua migliore giumenta e galoppava, galoppava verso piaceri quasi scordati. Ma glielo avevano detto di non strafare, di non affaticarsi perché la sua salute era cagionevole, avrebbe dovuto usare molta prudenza , … ma come si fa ad essere prudenti mentre la puledra nitriva di piacere ed ogni nitrito era un invito a galoppare sempre più in fretta…?

Arrivò il dolore al braccio sinistro che già aveva conosciuto, ma stavolta era più forte; tentò di frustare la puledra proprio con il braccio si bistro, ma quello non si mosse, ma lui continuava a cavalcare aiutato dalla puledra che non necessitava di frustate.

Sentì le forze venirgli meno ma non si arrese (non si era mai arreso in simili frangenti); ansimando, con i rantoli della morte, cominciò a ripetere in maniera ossessiva “cchè bellu muriri” “cchè bellu muriri”. Fin quando tacque.

La giovinetta si accorse che qualcosa non andava, perché la presa del suo cavaliere non risultava più come prima, così si scansò il cavallerizzo da dosso e si rese conto che non avrebbe cavalcato mai più. Sistemò nel letto il padrone e cominciò a chiamare aiuto; accorsero i vicini, i lavoratori a giornata, e lei diceva che il padrone si sentiva stanco e avevo voluto mettersi a letto, ad un tratto sentì il padrone che gridava “cchè bellu muriri, cchè bellu murire”, così entro nella stanza e lo trovò cadavere, ma sorridente, beato, come se fosse stato felice.

Gli astanti capirono subito e tramandarono questa storia a voce, magari aggiungendo, ognuno, un pizzico della propria fantasia; come la sorte della moglie che finì i suoi giorni in un convento al quale aveva donato un forte vitalizio perché le monache si prendessero cura di lei; oppure del figlio che regalò un importante uliveto ad un altro monastero, dove entrò per vivere la pace religiosa: e dove divenne priore a 25 anni. Più controversa la storia della figlia, morta di tisi, ma per la gente colpita dal “male d’amuri”, perché si era innamorata di quella giumenta con la quale il padre cavalcò l’ultima volta.

Il resto dei beni passò a dei lontani cugini, che ereditarono terre, titoli e quel nomignolo che li accompagna ancora oggi “bellumuriri.

Io mi sono fermato ad una sontuosa frittura di pesci nella città dei Malavoglia , e sono ben vivo.


Rosario Amico Roxas



Martedì, 14 ottobre 2008