UN TESTO DI SERGIO QUINZIO
Quella strana e inconcepibile cosa che è un cristiano moderno

di Sergio Quinzio

FORSE nessun carattere distingue così nettamente l’uomo moderno dall’antico quanto il senso della storia. Dice Spengler: «Noi uomini della civiltà europea occidentale siamo, con il nostro senso storico, un’eccezione e non la regola; la storia universale è un’immagine del mondo nostra, non dell’umanità». Non sono senza significato, a questo proposito, l’idealismo tedesco e le varie forme di evoluzionismo.
Nulla di simile era operante nell’animo degli antichi. Gli antichi orientali e gli antichi Greci avevano della vicenda umana un concetto ciclico, secondo il quale i diversi fenomeni si susseguono nel tempo ripetendosi interminabilmente, di modo che oggi accade quel che è già accaduto ieri e domani accadrà quel che accade oggi. I fatti si succedono l’uno all’altro senza che della loro successione si possa dir nulla, senza che nella loro successione vi sia quel senso in cui consiste la storia. I loro storici sono piuttosto scrittori di cronache, biografi, osservatori politici.
Donde proviene il senso storico che troviamo nell’uomo moderno? Certamente dal cristianesimo: ciò è stato esplicitamente riconosciuto da Hegel, che ha attribuito al cristianesimo la scoperta radicale della libertà a cui si lega strettamente il senso della storia.
Il cristianesimo era stato annunciato dal profetismo, massima espressione della spiritualità del popolo ebreo. Con i profeti infatti, gli Ebrei, che avevano del tempo un concetto lineare, come di una serie di vicende monotone e uguali, slegate, confuse e insignificanti, vedono emergere sul tempo umano alcuni pochi eventi fondamentali, non determinati dai precedenti e senza necessario sviluppo nei successivi, opera eccezionale e gratuita di Dio, senza alcun legame né alcuna proporzione con l’opera dell’uomo: la creazione, la promessa ad Abramo, la liberazione dall’Egitto, il Messia. Con il cristianesimo, nella dottrina del peccato di origine di Paolo e nelle profezie apocalittiche circa il regno dell’anticristo e la fine del mondo, finalmente nasce la storia. L’uomo cristiano è sensibile e presente a ciò che è accaduto prima di lui, dalla caduta alla promessa, alla croce, è aperto all’attesa di qualcosa che deve farsi: pasta che lievita, seme che cresce in albero, vigna che matura. Nasce l’idea di un’opera da fare da parte di tutti gli uomini per tutti gli uomini, di un cammino («euntes docete») per giungere a un fine (ecco appunto la «buona notizia»: «il regno viene a voi »).
Dopo l’età apostolica, con Agostino il cristianesimo dà una compiuta filosofia della storia. Quando, dopo i lunghi secoli del Medioevo, che avevano dato sintesi poderose della storia (basti ricordare Gioacchino da Fiore e Dante), nasce 1’«uomo copernicano», smanioso di liberarsi dai forti schemi medioevali e fiducioso nelle sue capacità di sperimentatore e di analizzatore, del cristianesimo egli prende e conserva, soprattutto o forse esclusivamente, il senso della storia, di un iter da percorrere, di uno sviluppo da compiere, di una meta da conseguire. Da Campanella e Vico, ancora relativamente vicini alla fonte originaria, all’illuminismo, fino a Hegel e a Marx, la tensione verso un «progresso» sta ormai nel fondo più intimo di ogni uomo, come sua unica fede o almeno bisogno di fede. Una vicenda che non ha uno scopo, un itinerario che non ha una meta non sono storia, sono nulla. L’uomo moderno, si voglia chiamare cristiano o comunque, non è concepibile senza una attesa: vive fra la speranza e il timore di quel che accadrà. La vicenda globale dell’umanità non è più insignificante per lui: ha un significato perché va verso una meta, segue una certa direzione. In questo, implicitamente, l’uomo moderno accetta il cristianesimo. Suo malgrado. Il mondo ha potuto odiare e respingere il cristianesimo, ma non ignorarlo. Affermato o negato, il cristianesimo è presente nell’uomo moderno in quanto uomo, è il solo denominatore comune. Quando il cuore dell’uomo moderno tende al progresso, è il fermento cristiano che opera in lui, mentre lo nega. Il mito del progresso è simia salvationis.
Quando appare quella strana e inconcepibile cosa che è un «cristiano moderno» (una contraddizione in termini, perché l’uomo moderno è appunto il portatore del cristianesimo stravolto, si chiami cristiano o no), egli, quasi sempre inconsciamente, vive nel conflitto di due storie, quella autenticamente cristiana e quella del cristianesimo stravolto. « Per fede », come si usa dire, aderisce a una storia che va dal peccato d’origine alla redenzione, al regno di Dio (ma questa storia, in contrasto con la storia del mondo, resta in lui staccata e non operante); e, come uomo moderno, non può non aderire a una storia «scientifica», che va dalle interminabili (e mitiche) ere geologiche agli ominidi, alle varie religioni e filosofie sempre più evolute, a una meta finale che, nella speranza, è di continuo progresso dell’umanità nella pace, nella prosperità, nel benessere (l’ingenua attesa acidamente derisa da Leopardi), e, nel timore, di fatale rovina nella guerra e nella distruzione. (Nell’atteggiamento dell’uomo contemporaneo nei confronti dell’«energia atomica» è evidente la coesistenza senza equilibrio di questi estremi). L’uomo moderno ha in sé due storie, e, non trovando fra loro alcun legame (il cosiddetto «conflitto fra scienza e fede»), è privo di normatività, come mai nei tempi passati: non ha una meta univoca, pur avendone l’esigenza. L’uomo moderno sente che la storia va per una strada: ma come operare in essa se non si sa che strada è e dove porta? La «fenomenologia» conferma vivamente questa scissione nell’uomo d’oggi, cristiano a Pasqua e a Natale, moderno gli altri giorni; in giacca sportiva e automobile nelle comuni circostanze, ha bisogno di parrucche e tricorni per le aule di tribunale e per farsi portare al cimitero.
Il grande problema che si presenta all’uomo moderno, che ha sete di storia, è questo. Poiché la «redenzione» non ha determinato la fine della storia, quale significato ha la storia che ne è seguita? E un itinerario ascendente verso una realtà superiore (regno di Dio, regno dei cieli, Gerusalemme celeste, casa del Padre, paradiso, iperuranio, assoluto, età dell’oro, ordine nuovo, ecc.), sia pure contrastato e con ombre di male (che adempie dialetticamente a una sua funzione positiva); oppure, visto che la storia non può essere un insignificante percorso orizzontale, è un cadere verso la rovina, in un continuo peggioramento che dovrà concludersi con la distruzione per mezzo delle armi atomiche o dei quattro cavalieri dell’Apocalisse? A quale di queste due storie si deve credere, cosa dice il cristianesimo a questo proposito? L’insegnamento della Chiesa è che verrà il regno di Dio, ma assolutamente nulla insegna né circa il quando né circa il come (importante più del quando). Né potrebbe dircelo: non esiste una infallibile «risposta ufficiale» circa il dove si è e il dove si va. La Chiesa, in quanto visibile sociologica gerarchica istituzionale, è storia, e non può uscire dalla storia per giudicarla. Così come furono i profeti, l’eccezione, a parlarci della venuta di Cristo e non i sacerdoti del tempio, la regola, che non potevano che rappresentarla nel simbolo e nel rito, manifestazioni storiche. Nel cristianesimo, i profeti non sono mancati, ma per molte ragioni sono stati presto dimenticati, si sono fatti rari, e agli uomini manca questa guida, tanto più necessaria oggi, quando alla sensibilità di ciascuno appare chiaramente come gli eventi urgano e un destino sovrasti.
La risposta cristiana a questa domanda, appunto perché cristiana, non è quella che agli occhi dei più sembra più probabile o più desiderabile. La risposta è questa: la storia involve, la storia va verso il basso, la storia precipita. Il regno di Dio non è il tranquillo porto al quale tende la ben calcolata rotta delle nostre navi, la meta alla quale spontaneamente giunge la scala delle nostre fatiche; ma il regno di Dio sopraggiunge quando nessuno lo attende, come un ladro di notte, come un padrone che sorprende i servi traditori, quando la vicenda umana avrà compiuto la sua discesa e palesata la sua intrinseca insufficienza. Dio sopravviene nella storia come giudice della storia. E’ il vinto della storia; e al grande capovolgimento, alla palingenesi, sopraggiunge con la sua vendetta, come le aquile che «si precipitano sui cadaveri», come il « lampo che esce dall’Oriente ». Questo è il vangelo, « la buona notizia », la cattiva notizia per il mondo.
La storia non include Dio, e per questo la storia è la strada che va verso la rovina.
Che questa verità sia lontana dalle opinioni e dai gusti degli uomini è certo: proprio come è certo che il cristianesimo non piace agli uomini, perché gli uomini « preferiscono la tenebra alla luce ».


Sergio Quinzio


Diario profetico, n.273, pp. 195-200

Articolo tratto da:

FORUM (87) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Lunedì, 10 marzo 2008