La parola ci interpella
Il Dio che ha risuscitato Gesù

di GIUSEPPE BARBAGLIO

VERSO LA PASQUA CON GIUSEPPE BARBAGLIO


Al centro dell’evento cristiano c’è un fatto di sangue, cioè una morte violenta. Come può essere spiegata questa morte, la morte violenta dell’innocente? Molte sono le interpretazioni che ne dà il Nuovo Testamento.

a) Il modello del capro espiatorio.
Giovanni, cap. 11, v.50: presiedendo il sinedrio, luogo dell’autorità religiosa di Gerusalemme, Caifa disse a proposito della morte di Gesù: “È meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutto il popolo”. Nella situazione di grande tensione tra l’autorità giudaica e il dominatore romano, ecco che Gesù diventa il capro espiatorio, la vittima su cui si riversa la violenza, in modo che i fronti contrapposti si unifichino in questo atto di violenza su una persona; vittima sacrificale che viene poi esaltata perché è stata fonte di pace, perché ha evitato la tragedia della violenza di tutti contro tutti. È il meccanismo del capro espiatorio. La stessa concezione, da Giovanni riportata come propria del sinedrio, si trova anche in testi cristiani, per esempio in Colossesi, cap.1: “Dio ha pacificato il mondo a sé mediante il sangue di Cristo”. C’è un contrasto tra Dio e l’umanità peccatrice, e la pacificazione tra queste due parti avviene a prezzo del sangue di Cristo, che proprio perciò viene esaltato come pacificatore. O ancora, nella prima lettera ai Corinzi, cap.5, v.7 (un testo pre-paolino): “Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato”. Notiamo questo riferimento all’agnello pasquale della tradizione esodica: come l’agnello è stato ucciso per intingere nel suo sangue i frontali delle porte degli ebrei in Egitto e risparmiarli dallo sterminatore notturno, così Cristo nostro agnello è stato immolato per salvare noi.
Quest’interpretazione sacrificale, o del capro espiatorio, è stata del tutto minoritaria nel cristianesimo delle origini; Paolo, per esempio, non la conosce assolutamente; i testi che, nelle sue lettere, vi si rifanno, sono tutti pre-paolini (vedi, oltre a quello già ricordato, anche Romani 3,25). Nella tradizione successiva l’interpretazione sacrificale diventa preponderante, e nel Medio Evo, a partire da Sant’Anselmo, è stato costruito il sistema della “digna satisfactio”: il peccato dell’uomo ha qualcosa di enorme, così che l’uomo non è in grado di ripararlo; perciò Dio invia il Figlio suo, che nella morte gli offre una riparazione degna. La riparazione del peccato è la ragione per cui Dio si è fatto uomo.

b) La morte per amore.
Diversa è l’interpretazione che della morte di Gesù danno Paolo e Giovanni. Per essi ciò che la rende feconda non è lo spargimento di sangue ma l’amore che Gesù vi ha vissuto ed espresso: “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”; ha detto Paolo in Gal 2. Certo, è sempre la morte di Gesù che è fonte di salvezza; non però in quanto fatto violento dotato di una intrinseca potenza di vita, ma per 1’amore che la inabita. In primo piano non è più il fatto oggettivo della morte ma l’elemento soggettività: la soggettività di Gesù che accoglie Dio nella fedeltà e accoglie gli uomini come fratelli. La potenza salvifica della morte di Gesù per amore non va cercata prima di tutto nel suo carattere di modello da imitare; più radicalmente, egli ci coinvolge attraverso la risurrezione nel suo dinamismo di vita, così che noi diventiamo, come lui, accoglienti verso Dio e verso gli uomini. Siamo accoglienti in quanto siamo fatti accoglienti.

c) La passione del giusto.
C’è una terza interpretazione della morte di Gesù, che è la più arcaica, ed è quella dei racconti della Passione. Questi racconti narrano le ultime vicende di Gesù come la passione del giusto, dell’innocente oppresso e perseguitato. Perciò la storia di Gesù ha il valore di denuncia: chi ha ucciso Gesù non è un sacrificatore provvidenziale, che attraverso questo sacrificio ottenga la pace, bensì un omicida, un violento, un distruttivo che ama la morte.
È interessante notare come l’interpretazione si capovolga a seconda che si guardi l’uccisione di Gesù nella chiave del capro espiatorio o in quella di denuncia dell’innocente ingiustamente sacrificato. I discepoli di chi è stato ucciso, invece di far propria l’interpretazione degli uccisori che si ammantano della maschera di sacrificatori per il bene del popolo (vedi sopra, il caso di Caifa), rivendicano la causa del perseguitato.
Nei discorsi degli Atti degli Apostoli troviamo questo schema: “Voi 1’avete ucciso, voi capi di Gerusalemme, Dio invece lo ha risuscitato”. Così Dio non è coinvolto in questo omicidio, non accetta la vittima sacrificale per trarne del bene; Dio rovescia l’azione umana risuscitando Gesù. Dio non ha partecipato alla morte di Gesù; è entrato in scena soltanto come il risuscitatore.
La prima lettera a Timoteo (cap.3, v.16) raccoglie un testo cristiano primitivo che dice: Gesù “è stato manifestato nella carne, giustificato nello Spirito”. “Giustificare” è un termine forense che vuol dire rendere giustizia, in tribunale, all’innocente ingiustamente accusato. Ebbene, Dio come giusto giudice ha reso giustizia a Gesù risuscitandolo, anzi dandogli una vita molto aldilà della vita che prima aveva avuto, rendendo lo epicentro della vita del mondo. E questo, senza fare violenza a nessuno, senza punire i violentatori (l’unico che muore in conseguenza della morte di Gesù è Giuda; ma perché è lui stesso a darsi la morte).
È questa ormai la giustizia divina: non il versante punitivo ma solo il versante positivo del dare la vita. Qui non c’è più prezzo da pagare, non c’è più violenza come mezzo per realizzare la giustizia: è caduto il Dio bifronte per lasciar posto unicamente al Dio donatore di vita. È vero, Paolo dice che Dio non ha risparmiato il Figlio dalla morte (Romani cap. 8.v.32); ma egli vuol dire che Dio non è riuscito a difendere l’innocente nella storia; si è preso la rivincita escatologica. Dio è debole nella storia, è impotente, non vuol avere a sua disposizione la forza per operare la giustizia; la potenza di Dio e la sua giustizia sono escatologiche. Questo Dio, a differenza di quello dell’Esodo, non interviene a salvare gli ebrei abbattendo gli egiziani; la sua vittoria è aldilà dell’orizzonte storico. Nella risurrezione di Gesù Dio dispiega la stessa potenza che ha chiamato all’essere le cose nella creazione (Romani cap. 4, vv.17s.)
Tutto ciò sconvolge l’immaginario religioso del Dio potente che supplisce l’impotenza umana, del Dio in cui l’uomo proietta il proprio bisogno di forza vendicatrice, di esecuzione della giustizia. Ciò non significa che Dio sia assente dalla storia; ma egli vi porta una presenza debole, fragile, che cammina a fianco del perseguitato, del crocifisso.

Paolo
Un altro tema, soprattutto paolino, legato alla nuova immagine di Dio è quello dell’imparzialità divina: intesa non più, sulla linea giudaica, come l’imparzialità del giudice nel formulare il verdetto di colpa o innocenza, ma come l’imparzialità della grazia che offre a tutti indistintamente la salvezza. A tutti: al greco e al barbaro, al circonciso e all’incirconciso, al maschio e alla femmina. Nella lettera ai Romani cap.2,v.11 Paolo dice che in Dio non c’è prosopolempsia. Questo termine significa accogliere una persona guardandola in faccia: se è simpatica, se è ricca di qualità, promettente, allora la accolgo, diversamente no. Ebbene, nel rapporto tra Dio e gli uomini questo non si verifica: egli non fa distinzione di persone, non fa discriminazione.
Anche nella tradizione ebraica Dio era signore di tutta l’umanità; ma l’universalismo di Paolo è qualitativo, non puramente quantitativo. Seguendo e approfondendo la linea della chiesa di Antiochia, Paolo apre le porte ai pagani, propone da parte di Dio il messaggio di salvezza come disponibile a tutti, senza porre come condizione la circoncisione o qualsiasi altro elemento culturale; l’unica condizione è la fede, che in quanto atto libero e adesione personale è transculturale. A questa prassi della chiesa di Antiochia Paolo ha offerto l’approfondimento teologico, basato appunto sull’idea della imparzialità di Dio. Poiché tutti sono peccatori, giudei e pagani, a tutti Dio offre la sua grazia di perdono e di salvezza.
Eppure anche in Paolo permane un resto della teologia del Dio bifronte. Lui che è riuscito a superare la barriera di rottura e divisione tra giudei e pagani attraverso l’imparzialità divina di grazia, mantiene però l’idea dell’ira divina alla fine dei tempi. Allora Dio sarà sì imparziale, ma dell’imparzialità del giudice che premia i buoni e punisce i cattivi. Bisogna comunque riconoscere che questo tema è in Paolo molto meno rilevante che il suo annuncio della grazia divina.

Giovanni
L’ultimo degli evangelisti è quello che ha aggredito con maggior decisione lo stereotipo del giudizio finale di Dio.
Anzitutto, egli è persuaso, come Paolo, che Dio ha mandato il Figlio suo nel mondo non per condannarlo ma per salvarlo; salvarlo, certo, attraverso la libera adesione di fede. Ma la più spiccata originalità di Giovanni consiste nell’ avere anticipato l’escatologia nella storia.
Secondo l’apocalittica, Dio aveva creato all’inizio due mondi: il mondo presente e il mondo che verrà, atteso alla fine di questo. Sarà nel mondo futuro che Dio realizzerà, attraverso la discriminazione del giudizio finale, la propria giustizia. Ora, proviamo a leggere il seguente brano di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi ama la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (cap.3, vv.16-21). Le idee qui formulate vengono confermate in un altro passo: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell’ultimo giorno” (cap. 12, vv. 46-48).
Secondo questi testi, non è più Dio a operare, con un proprio giudizio, la discriminazione tra buoni e cattivi; è il soggetto umano che, messo di fronte alla parola di Gesù, decide del proprio destino. Chi ascolta la parola di Gesù e vi crede e opera di conseguenza, ottiene la vita e la salvezza; chi non crede si esclude dalla vita. Si tratta dunque di un’autodiscriminazione, provocata da colui che è venuto come luce. Chi preferisce le tenebre alla luce, chi ama le tenebre, permane in esse.
Anche in Giovanni c’è qualche incongruenza: in 3,36 egli parla della collera di Dio nell’ultimo giorno, e in 5,28s., pochi versetti dopo aver detto che il giudizio è già ora, nella presa di posizione di fronte a lui, Gesù parla del giudizio finale alla risurrezione dei morti. Malgrado questi residui, Giovanni è andato oltre Gesù e oltre Paolo, demolendo lo stereotipo del giudizio sanzionatorio con due operazioni: attualizzando il giudizio dentro la storia, nel presente, e attribuendolo non più all’azione divina ma alla decisione dell’uomo di fronte alla parola di Gesù. Perciò Giovanni è l’unico che è arrivato a definire Dio come l’amore (1 lettera di Giovanni, cap. 3, vv. B e 16), separando !’idea del giudizio da Cristo e da Dio. Inviando il Figlio nel mondo non per condannarlo ma per salvarlo, Dio si è dato e si è dato interamente; nel giorno del giudizio non potrà cambiare faccia.
L’incongruenza di Gesù e di Paolo è stata di non aver capito che il gesto di grazia con cui Dio si era ormai rivelato, era il gesto escatologico, definitivo, irreversibile. Essi avevano posto tutte le premesse, ma non hanno tirato la conclusione: dunque il giudizio non appartiene più a Dio. A questo è arrivato Giovanni. Il giudizio è ormai affare dell’uomo nella sua decisione di fronte alla Parola rivelatrice; questa Parola, che è luce, è l’ultima provocazione e possibilità offerta a coloro che sono nelle tenebre. A loro la scelta se accettare l’offerta di vita o restare nella morte.

Giuseppe Barbaglio
da Amore e violenza. Il Dio Bifronte, Pazzini Editore, 2006, pp. 57-69

Articolo tratto da:

FORUM (48) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Sabato, 17 marzo 2007