Cristianesimo dell’inizio e della fine

Quale possibilità storica di autentica rinascita?


I – Cristianesimo d’oggi

Il cristianesimo d’oggi è quanto di più frammentato e controverso ci possa essere, con conflitti interni e col mondo stesso che ha partorito, il “mondo cristiano”; e più cerca soluzioni di ricucitura più evidenzia la sua situazione insanabile.

Da parte nostra ci stiamo chiedendo; “e se fossimo i primi cristiani?” In altre parole,  se e come sia possibile ritrovare l’ispirazione originaria e il motivo di fondo dell’essere credenti in Cristo, che faccia giustizia di tutte le spurie interpretazioni teoriche e pratiche e le riduca “ad unum” - ad un principio unitario di misura e di giudizio - senza eclettismi e concordismi.

Come si sa, è una esigenza che si impone da subito alle origini, se già nelle lettere alle sette Chiese del libro dell’Apocalisse leggiamo: “All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi:  Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (2,1.4-5). E ancora: “All’angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (3,1-3).

Non si tratta quindi di una operazione accademica o letteraria, ma di rintracciare quella radice viva che consenta di tagliare i rami secchi e se necessario anche il tronco dell’albero, perché rinasca una pianta nuova. Viene da ripensare al polygonium di cui parla Jean-Marie R. Tillard op nel suo opuscolo “Siamo gli ultimi cristiani?” che così chiude: “È una pianta ostinata. Se avete piantato un polygonium nel vostro giardino o nel cortile, non riuscirete mai a sbaraz­zarvene...  Ba­sta una piccola particella di rizoma rimasta nella terra perché la pianta rispunti. Chie­dendosi le ragioni di tale vitalità gli specia­listi parlano di una segreta connivenza con il suolo, purificato e arricchito dai sali mi­nerali che abbondano nelle radici del poly­gonium, che sembra fare di tutto per favo­rire la sopravvivenza della pianta. Quando penso all’avvenire della chiesa, penso ai polygonia della mia infanzia. Li ho visti strappare mille volte; cento volte ho udito i giardinieri dirsi tra loro da un recinto al­l’altro: «Finalmente ce l’ho fatta con il mio polygonium»;… ma cento volte ho constatato che il polygo­nium rinasceva. La terra della mia isola, povera e spazzata dai venti dell’Atlantico che la maltrattano, ha stabilito come un’al­leanza con questa pianta perché non accet­ta di diventare un suolo sterile. Così, nel più profondo del suo desiderio, l’umanità ha fatto alleanza con il vangelo. Estirpatelo, un giorno, quando non ve l’a­spettavate più, rinascerà. Perché l’umanità non accetterà mai di essere senza speranza... Io crederò sempre in te, anche malgrado te” (pp.34-35).

A parte l’intento e il desiderio, è importante  dire come ciò sia possibile e per quale via, ad evitare soluzioni entusiaste e illusorie. E allora si scopre quanto ci possa essere di aiuto e di guida Sergio Quinzio, non solo con tutta la sua riflessione, ma in particolare col suo libro “Cristianesimo dell’inizio e della fine”, a cui facciamo riferimento per un confronto e un approfondimento: per uno sfoltimento delle questioni superflue e derivate, in modo da tornare al “porro unum necessarium”, al suo “nascere”,  al di là di analisi all’infinito o di sintesi artificiose e posticce. Potremmo usare una espressione che Quinzio usa nella introduzione, dopo aver fatto una fenomenologia della morte ai nostri giorni: “Ma non è neppure concepibile un morto che sia semplicemente morto” (p.5). Sono troppi gli infingimenti, i camuffamenti, i travisamenti di una realtà nuda e cruda, che sembra non sia neanche possibile!

E questo vale anche per quel fenomeno storico che va sotto il nome di “cristianesimo”, che viene così presentato: “Certamente il cristianesimo presenta caratteri eccezionali, che lo rendono diverso in modo radicale da ogni altra religione o tradizione sacra. Non possiede una lingua sacra, che gli appartenga in proprio, in cui siano fissate le Scritture; infatti, si è servito subito di traduzioni greche e latine delle stesse scritture ebraiche di cui esisteva il testo originario, e non ha nemmeno tentato di conservare o ristabilire le parole di Gesù nella lingua in cui furono pronunciate. Non possiede neppure l’equivalente della parte propriamente legale delle altre religioni e tradizioni, tanto che ha adattato alle sue necessità il vecchio diritto romano, integrandolo con aggiunte altrettanto estrinseche. E la cosa è ancora più significativa se si tiene conto che il cristianesimo si colloca fra l’ebraismo e l’islamismo, che presentano al contrario, sia l’uno che l’altro, una netta accentuazione dell’aspetto legale” (p.29).

Dunque, ciò che chiamiamo “cristianesimo” non è qualcosa di racchiuso in un libro o in un codice, non è fissato in una dottrina o in una legge, ma è fede del cuore che passa sulle labbra e nelle opere, veramente qualcosa di vivo ed aperto in un rapporto interpersonale. Questo spiega la sua invariabilità di fondo, ma anche le infinite variazioni di forma: la sostanza del credere e i suoi rivestimenti culturali e storici, come si esprimeva Giovanni XXIII.

Nei confronti di una formazione storica così eccezionale e complessa, ritrovare la radice unica è molto difficile, tanto più che c’è il cumulo di duemila anni di storia e davanti ad  una situazione di svuotamento umano della società e della cultura: “Di fronte all’attuale situazione non ha più nessun senso il letterato, ultima pallida incarnazione del sapiente, in quanto non esiste più il suo circoscritto giardino da coltivare: tutto è di nuovo in gioco, tutto da creare, le stesse litterae. Perciò, anche, la sola condizione esistenziale significativa è l’oppressione totale, la solitudine e il dolore, non letterari, non riflessi, non metafisici, ma concreti, quotidiani, professionali («nisi breviasset Dominus dies, non fuisset salva omnis caro», Marco, 13,20), nuovo caos dal quale scaturisca l’eccezione, l’exiguum clinamen, la parola, il Verbo” (p.42).

Non la letteratura, quindi, ma la condizione esistenziale -  di “oppressione totale, solitudine e dolore” -  è il primo “luogo teologico”,  il  terreno da cui possano rinascere le parole vere, le parole-verità che sono realtà viva, non separata, astratta, divisa. E non serve neanche fare opera di invenzione ermeneutica o scientifica a-posteriori per ricomporre il tutto: “La separazione e l’opposizione, in cui noi da molti secoli viviamo, perviene alla fine all’inaridirsi delle due parti distaccate, e questo approdo è quasi ultimato. L’opera d’invenzione, priva di dignità scientifica, di presa sulla realtà, di verità, finisce col cadere .nell’evasione e nella vacuità (un conto è una tragedia che vuol rivelare la natura degli dèi o il destino dell’uomo, e un altro una tragedia che vuol esporre un conflitto psicologico); l’opera scientifica, costretta nell’ambito delle specializzazioni, vincolata dall’onere della prova, obbligata a fare conti minuziosi con  ogni dato precedente, limitata dall’esigenza della precisione, incapace di bellezza finisce col cadere nell’erudizione e nell’accademia, nella ruminazione del già acquisito” (pp. 48).

Insomma, questa unità originaria e costitutiva non si raggiunge attraverso ulteriori elaborazioni culturali, ma esiste e viene prima, richiede una sorta di conversione o di capovolgimento, che forse può trovare il suo modello nelle parole del figlio prodigo quando si dice: “Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.Partì e si incamminò verso suo padre” (Lc 15,17-20). È sempre una situazione di sofferenza e di presa di coscienza che induce anche al pentimento e alla richiesta di perdono verso un Padre che fa festa per quanto era stato perduto ed è stato ritrovato, quanto era morto ed era tornato in vita. Tutto questo è emblematico per ogni tentativo di ritorno alla condizione di partenza!

Ed ecco come nel libro si concepisce questo ritorno: “Ebbene, se si vuole dare un nome (magari soltanto approssimativo) all’unità supposta antecedente alla separazione mortifera, non si trova che religione. Questa remota unità iniziale ritorna a operare, in qualche misura, in tutti gli inizi storici; perciò, se dobbiamo oggi iniziare, non possiamo accodarci alle vigenti distinzioni e compartimentazioni, al rispetto delle competenze, alla inesausta serie delle regole convenzionalmente stabilite. Cosa che invece dobbiamo fare se crediamo che non ci sia niente da iniziare, ma solo il già dato da incrementare indefinitamente per sovrapposizione e diluizione. Iniziare significa perciò rifiutare la cultura nelle premesse conscie o inconscie che ne definiscono la particolarità. I dati del passato - e fondamentalmente il cristianesimo sul quale o in relazione al quale si è venuta modellando tutta la realtà di cui abbiamo esperienza - devono essere assunti nel modo e nel senso in cui i tragici greci assumevano miti e leggende noti a tutti. Impiegando cioè liberamente i materiali fra i quali scegliere per inventare un senso, una possibilità. La realtà è opaca, sorda, inerte quanto noi siamo impotenti, e limpida, rispondente, leggera quanto noi siamo potenti” (p.49).

Un discorso necessario da fare è su cosa Quinzio intenda  per “religione”, in modo da uscire dall’ambiguità a cui questo termine potrebbe prestarsi. In proposito ricevo questo contributo di chiarimento da Rita Fulco: “Per quanto riguarda Cristianesimo dell’inizio e della fine, devi tenere conto che è un testo del Quinzio ancora "tartagliano", influenzato, cioè, da Ferdinando Tartaglia. Per cui, di fatto, il termine religione (quella vera, quella che dovrebbe portare a un cambiamento e al nuovo assoluto) è da lui inteso come sinonimo di ‘messianismo apocalittico’. In effetti lui non è uno di quei filosofi analitici che va troppo per il sottile con l’utilizzo dei termini, per cui è facile che in pagine vicine possa affermare che la religione è l’unica cosa che può salvare il mondo, e poi che la religione è diventata un tutt’uno con il mondo. Sta a noi, di volta in volta, cercare di comprendere se sta parlando della religione in quanto ‘anelito messianico’ o della religione in quanto ‘apparato istituzionale’. Il criterio, in realtà, è piuttosto semplice: tutte le volte che esalta la religione la intende come "messianismo", tutte le volte che la critica in realtà la intende come ‘apparato istituzionale’. Questa ambiguità, a dire la verità, si mantiene lungo tutta la sua opera, anche se, nelle opere della maturità, per parlare dell’apparato istituzionale userà il termine ‘ordine sacro’, oppure farà esplicito riferimento alla Chiesa Cattolica”.

.Per un ritorno alla “religione” in senso pieno - alle “cose stesse e per se stesse”, quelle vissute e non ancora pensate - non c’è nessun metodo a-priori o dall’esterno, ma c’è solo un far parlare e ascoltare le cose nel loro linguaggio immediato, che per lo più è quello dell’oppressione, dell’angoscia, della disperazione, che è – si potrebbe dire – quello biblico  dei salmi. Ed allora “non esiste nessun sicuro ubi consistam, e nessuna garantita teoria positiva. Si devono inventare per impadronirsi della realtà, e si può fare l’ipotesi, o tentare la speranza, che si possa inventare qualcosa che ne dia il possesso risolutivo e definitivo, totale. Ma allora sarà questa invenzione a dare sicurezza e significato alla realtà, a creare la nuova realtà sicura, non viceversa. L’ubi consistam fatto di Dio che discende in un uomo e muore per redimere il mondo era potente, tanto che ha impiegato venti secoli per dissolversi. Perché non si può cominciare qualche cosa la quale non abbia fine, ma sia fine?” (pp.49-50).

Dunque, un semplice riferimento al cristianesimo storico non regge, perché ha esaurito la sua potenzialità vitale e si presenta a noi nelle sue vestigia, più che nella sua qualità di “religione pura e senza macchia” (Gc 1,27); si presenta  come qualcosa che ha fine rispetto ad un passato e non invece come qualcosa che ha un fine rispetto al futuro, aperto in sostanza al Regno di Dio che viene! Se si vuole invertire questa linea di tendenza,  “bisogna abbandonare il piano inferiore della cultura, dove appaiono solo pretese rivoluzionarie falsate da premesse parziali e circoscritte in risapute categorie separatrici. Dalle quali deriva anche il relegare la religione nello speciale clima estetico della santità personale, dell’immobilità sacrale, della purezza esemplare; perché così, sospinta nella sublimità aculturale, perda la sua temibile anima anticulturale, e le si possa sempre rimproverare la schiavitù degli strumenti culturali nel momento stesso che le viene imposta” (p.50).

È necessario sciogliere questo ibrido religione-cultura di cui è fatto il cristianesimo,  anche per avere un criterio di discernimento più preciso riguardo a tutte le formule velleitarie o liquidatorie in uso, “pretese rivoluzionarie falsate da premesse parziali e circoscritte in risapute categorie separatrici”. Un confronto dialettico interno alla chiesa e  tra cristianesimo e cultura può risolversi in solo se si inscrive all’interno di una unità di base a cui si vogliono ricondurre le differenze reali compatibili e da cui però escludere le diversità soltanto apparenti o derivate, quando non funzionali a quell’”ordine sacro” che è il tradimento del cristianesimo stesso!

Queste questioni non sono un lusso per nessuno, ma sono a carico di chiunque intenda seriamente contribuire a quel “passaggio d’epoca” semplicemente inaugurato col Concilio Vaticano II, al solo scopo di rendere accettabile e accessibile il Vangelo di Dio all’uomo della strada, senza filtri o recinti sacrali che lo escludano. E in Sergio Quinzio abbiamo un uomo “della strada” o della vita raggiunto e posseduto dal Vangelo, che ci dimostra come e dove vada vissuto nel quotidiano e nell’”oggi” di Dio, nel tempo storico e nel tempo escatologico!

II – Le parole e la religione di Gesù

Dopo queste indicazioni metodologiche, passiamo dunque a considerare più direttamente se e come sia possibile rintracciarne il cristianesimo dell’inizio, lo sgorgare di quella vena carsica che attraversa la storia e guarda però al suo fine. È chiaro che all’inizio troviamo le parole e la religione di Gesù, la parola, il Verbo che emerge dal caos, luce nelle tenebre

Ci sono alcune pagine che meritano di essere lette per intero: “La parola di Gesù - passando dagli apostoli ai martiri, ai padri greci e latini, ai monaci, ai teologi scolastici, ai canonisti e ai casuisti, agli esegeti eruditi e ai ripetitori automatici - è giunta fino a noi deturpata e quasi irriconoscibile. Eppure conserva un peso e un fascino, e in definitiva intorno a questa parola - che anche se depotenziata e sviata rimane l’ultima esigua base comune del discorso umano - si giocano ancora gli estremi dilemmi del mondo. 

Prima di chiudere il libro del cristianesimo, prima di considerarlo soddisfacentemente assimilato ed esaurito nella storia, prima di seppellirlo per sempre, possiamo tentare di guardarlo un’ultima volta. Non fosse altro perché stiamo rifiutando la sua più tarda e avvilente trascrizione e non sappiamo più cosa ci fosse prima; perché crediamo di aver tratto dalle parole di Gesù tutto quello che potevano darci, e invece ne abbiamo dimenticato persino il suono; soprattutto perché è legittimo il sospetto, almeno il sospetto, che attraverso i secoli della storia sia marcito piuttosto che maturato il frutto.

Il compito di ricercare e stabilire quale sia stata la religione di Gesù è lasciato ormai da secoli agli specialisti eruditi, i quali raccolgono pazientemente le tessere di un mosaico che non si potrà mai costruire, dal momento che è già stato costruito dalla storia. L’atteggiamento storicistico che fa ancora da sottofondo all’attuale cultura, infatti, obbliga a negare possibilità e significati diversi da quelli che si sono venuti cristallizzando nella storia.

Per tutti, Gesù è il Gesù della chiesa, come Galileo è pressappoco il Galileo messo in scena da Brecht. È vero che si possono sempre apportare delle correzioni a queste interpretazioni che. la storia ha imposto, è vero che si possono rilevare e precisare notevoli difformità fra la predicazione di Gesù; e quella che ci viene ripetuta in suo nome dai pulpiti, come è vero che il Galileo di Brecht è soltanto un modello ideologico che si discosta notevolmente dall’uomo Galileo; ma resta fondamentalmente l’impossibilità di contraddire la storia così come si è venuta affermando.

Tutt’al più, quindi, si ammette la possibilità di riformare le immagini storicamente stabilite, mediante l’apporto successivo di un gran numero di piccoli ritocchi a opera di esperti, purché nulla di quanto è stato precedentemente fissato si perda e nulla di sostanzialmente nuovo si aggiunga. Ed è proprio attraverso questo processo di minuta accumulazione di particolari che le figure e gli oggetti della storia vanno perdendo continuamente di nitidezza e di rilievo nei loro contorni, sfocandosi fino a diventare insignificanti e indifferenti.

Un pensiero schiavo della storia non può autenticamente comprendere se non se stesso, ed è costretto perciò a ridurre il passato a embrione della realtà storica presente. Anche quando si tratti di un messaggio di religione, e quindi di un messaggio contro la storia, teso al superamento della sua dolorosa insufficienza; anche quando si tratti della parola di Gesù, di cui l’idea stessa di storia è solo una particolare e debole interpretazione” (pp.53-55).

Considerazioni analoghe valgono anche per la “religione di Gesù”: “Perciò la ricerca della religione di Gesù, nella quale gli ultimi secoli si sono impegnati utilizzando tutti gli strumenti d’indagine offerti da una cultura evoluta e raffinata, è pervenuta, come unico risultato, alla distruzione del suo oggetto. Il fallimento della ricerca prova solo il fallimento dei metodi impiegati… I recenti tentativi di costruire una scienza generale della religione con l’ausilio di discipline e metodi sociologici, psicologici, antropologici, storici, statistici da integrare reciprocamente, moltiplicano così gli strumenti fino a renderli più numerosi delle cose alle quali devono essere applicati, e più oscuri delle cose da chiarire. La religione possiede una sostanza di significati intraducibili, che null’altro potrebbe rendere, e proprio nell’affrontare la libera e totale dimensione del sacro si manifesta l’insufficienza di una stanca e pretenziosa cultura” (pp.55-56).

Si chiarisce via via il senso  vitale da dare a “religione”  e a “religione di Gesù”  rispetto alle sue traduzioni o interpretazioni storiche, per superare tutte le variazioni culturali ed entrare così “nell’atteggiamento che fu suo e di coloro per i quali restò creativamente viva la sua parola”: “Per penetrare la religione di Gesù, è indispensabile rifiutare la  cultura per porsi nell’atteggiamento che fu suo e di coloro per i quali restò creativamente viva la sua parola, un atteggiamento che è di tutti gli uomini di religione, fino al profeta coranico, che fu chiamato l’illetterato, l’analfabeta. Di quanto la cultura, che è difesa dal rischio, si munisce di cautele, di distinzioni, di precisazioni, di  prove, di tanto la religione, che è rischio, ha bisogno di forza, di violenza, di audacia, di libertà. Certamente solo occhi religiosi possono vedere Gesù. Si potrà dire che questi occhi non li abbiamo, e che non possiamo darceli. Ma questa è ancora la schiavitù della storia, che perdura nonostante sia crollata qualunque filosofia della storia e per quanto nulla ci dica ormai che i nostri occhi di domani, di fra un minuto, non debbano essere diversi da questi di cui constatiamo la cecità” (pp.60-61).

Abbandonando una lettura lineare e andando a leggere a p.94, abbiamo un altro richiamo a come sia possibile avere occhi diversi per vedere e accogliere il regno: “Perché il regno deve essere accolto con cuore di bambino? (Mc 10, 15). Forse perché il bambino è innocente e non conosce il male? Ma allora perché il regno è stato annunciato proprio ai peccatori, ai sacrile­ghi e alle meretrici, perché Gesù è venuto a chia­mare i peccatori e non i giusti? Forse perché il regno è cosa umile e dolce, e perciò la piccolezza dei bambini, che sono deboli e inermi, bisognosi di tutto, è il simbolo della nullità di fronte a Dio, della passività con la quale il regno deve essere atteso e ricevuto da lui? Ma allora perché Gesù hà detto che «il regno dei cieli si acquista con la forza e i violenti se ne impadroniscono» (Mat.11, 12), e perché ha detto che «tra i nati di donna non è sorto mai alcuno più grande di Giovanni il battista; tuttavia il più .piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mat. 11,11)? Piuttosto, c’è nelle parole di Gesù un abisso di pessimismo circa il bilancio della vita degli uomini e del mondo, un concepire la vita dei singoli e la vicenda della storia come un discendere verso la delusione e la stanchezza, un allontanarsi sempre più dagli inizi capaci di sperare e di volere l’incre­dibile. Essere come un bambino allora è lo stesso che essere capaci di speranza e di violenza: il bamb­ino, nel capovolgimento operato da Gesù non è il tipo della piccolezza ma della grandezza” (pp. 94-95).

III -   Con gli occhi nuovi del Vangelo

“Con gli occhi nuovi possiamo allora guardare i vangeli canonici, ai quali la primitiva comunità cristiana ha inteso affidare le testimonianze fondamentali su Gesù, serbate poi dalla chiesa per i secoli e ratificate dalla storia. L’idea di limare il peso dei millenni mediante indagini erudite su antichi manoscritti ritrovati, è infatti un’idea della cultura moderna, che ritiene di poter parzialmente correggere la storia, come la religione crede, invece, di doverla sforzare in blocco. È indubbio che i primi vangeli di Matteo, di Marco e di Luca - alla pesante corporeità dei quali l’antichità cristiana ha contrapposto come vangelo spirituale l’ultimo, di Giovanni - offrano comparativamente il documento meno mediato della vita e della predicazione di Gesù. Per la loro concordanza nella scelta e nella disposizione della materia, possono essere posti a fronte per sezioni parallele, in modo da avere un’unica visione d’insieme” (p.61) Anche se poi Quinzio privilegia il Vangelo di Marco che ripercorre per intero

“Di fronte alle parole che ci sono state tramandate come pronunciate da Gesù, ciò che interessa la religione è coglierne la rivelazione più potente. Ciò sarà quanto, secondo una verità più profonda e insieme più concreta della verità effettuale vanamente inseguita dalla curiosità storica, è autenticamente riferibile a Gesù come all’inizio dal quale scaturì, impoverendosi, indebolendosi e corrompendosi via via, la verità che si chiamò poi cristiana.. La ricerca della religione di Gesù è questa operazione al limite che risale al punto d’origine capovolgendo i duemila anni di storia in cui la continua e pavida limitazione delle attese e delle speranze iniziali ha reso insulso Gesù Cristo fino a costringere ad abbandonarlo (pp.64-65).

“L’evangelium, la buona notizia è questa: la fine del mondo e l’inizio del regno, e non il testo ecclesiastico che duemila anni di storia hanno svuotato di contenuto. Soltanto in questa prospettiva ha senso lo stupore che incuteva la predicazione di Gesù, ritmicamente declamante a gran voce secondo il costume degli intonsi predicatori erranti (“si meravigliavano della sua dottrina”, 1,22); ha senso la potenza che promanava da lui contrapponendolo alle stinte figure dei dotti di sempre (“insegnava come uno che ha autorità, e non come gli scribi”, 1, 22); ha senso la novità della parola di Gesù («che è mai ciò? Una nuova dottrina con piena autorità! », 1,27), trionfante sulle forze più oscure e incoercibili (“egli comanda persino agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono », 1, 27)” (pp.66-67).

“La bestemmia contro lo spirito santo è il rifiuto della profezia del regno imminente. Il profetismo era spento da lungo tempo in Israele all’epoca di Gesù, e alla parola viva del profeta si era venuta sostituendo l’autorità degli scritti degli antichi profeti. Per questa ragione, il dono della profezia (Gioele, 2, 28 sg.) appariva sempre più come un fenomeno escatologico che non sarebbe riapparso che alla fine dei tempi, ma allora in tutta la sua potenza. Perciò la parola di Gesù, profeta escatologico, ha un carattere ultimo, assoluto, che non possedeva nello stesso grado la parola dei profeti antichi. Il rifiuto di questo significato escatologico della predicazione di Gesù è l’imperdonabile bestemmia bimillenaria contro lo spirito santo: poiché la salvezza è il regno, il rifiuto del regno è il  rifiuto della salvezza” (pp.72-73).

“Non potendo ormai negare l’assoluta centralità che ha nella predicazione di Gesù e nella fede della prima generazione cristiana l’annuncio del regno imminente, gli interpreti ufficiali tentano almeno di togliere al regno qualunque significato concreto, terrestre e politico. E per ottenere questo risultato utilizzano il passo evangelico, dove il regno di Dio è chiamato mysterium. Ma la “basileia di Dio” non può essere un’idea astratta o un bene morale: il regno di Dio implica un dominio, una comunità e un re… Se, nei sinottici, il regno è raffigurato sotto due aspetti, ora come presente ora come futuro, ora come interiore e spirituale ora come esteriore e manifesto, è perché è in bilico, soprastante, o forse perché al tempo degli evangelisti si andava ormai intiepidendo la fede dei suoi testimoni e annunciatori. Alla tesi secondo la quale il regno raffigura una realtà materiale dell’avvenire, quando Dio instaurerà il suo dominio al posto di quello di Satana, si sostituì infatti via via quella per cui «il regno è una realtà spirituale del presente... È fin troppo evidente che un cristiano, il quale non può accettare il fallimento d’una promessa del Signore e l’errore fondamentale della sua missione, deve per forza adottare questa concezione” (pp. 74-75). “Ma l’interesse degli interpreti a rendere astratto e vago il concetto di regno di Dio è più forte dell’evidenza che obbliga alla conclusione opposta. Essi fanno consistere, perciò, il mysterium regni Dei nel suo carattere di sublime spiritualità, la mistica conoscenza del quale sarebbe stata rivelata da Gesù soltanto ai suoi più stretti seguaci” (p.76).

            E qui appare quello che viene chiamato il “segreto messianico”, l’ordine di Gesù ai suoi di non parlare di lui come Messia. Ma questa consegna non suona conferma al declassamento o depauramento del mistero del regno: “Questa interpretazione può sembrare confermata dai divieti che, secondo il vangelo di Marco, Gesù avrebbe rivolto ai discepoli perché non divulgassero la notizia che era lui il messia, allo scopo - si può pensare - di evitare che il suo carattere di messia spirituale venisse perduto e frainteso nel diffuso clima dell’attesa ebraica di un messia terrestre. Ma, da un passo almeno, risulta che la proibizione fatta da Gesù ai suoi seguaci di divulgare notizie sul suo conto va attribuita alla prudenza, o anche alla paura, di Gesù: «Partiti di là, attraversarono la Galilea, e Gesù non voleva che alcuno lo sapesse; perché egli andava ammaestrando i suoi discepoli dicendo: il figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani di uomini, che lo uccideranno» (Mc 9, 29-30). 

Nel capitolo 8 (sempre di Marco) si succedono invece, a proposito di tali divieti, affermazioni contraddittorie: al v. 30, dopo che Pietro ne aveva riconosciuto e affermato la messianicità, Gesù «vietò loro di parlare ad alcuno di sé», mentre immediatamente dopo, nel predire la sua morte e la sua resurrezione, «diceva queste cose apertamente» (32), proclamandosi messia e affermando: «Se alcuno avrà avuto vergogna di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, il figlio dell’uomo quando verrà nella gloria del Padre con gli angeli santi avrà vergogna anche lui» (38). Il divieto - talora contraddetto - di proclamare al popolo che Gesù è il messia può essere spiegato in modi diversi, e non può essere assunto come argomento per provare la sua messianicità puramente spirituale in opposizione a quella che era l’attesa degli ebrei, i quali, del resto, avevano al tempo di Gesù delle idee molto diverse circa il Mediatore della fine dei tempi, che talora divergono radicalmente le une dalle altre, giungendo fino a concepirne l’uccisione in guerra.

Si può pensare, piuttosto, che Gesù stesso fosse in dubbio tra proclamare di essere il messia, rivelazione che avrebbe potuto scatenare la reazione che poi in effetti lo portò alla morte, e tacere in attesa di un momento più propizio, il che avrebbe ritardato la manifestazione del regno. O si può pensare che in qualche momento gli sia sembrato utile addensare il segre­to intorno alla sua persona, dal momento che non si mostra insensibile, in altre occasioni, alla neces­sità di essere astuti, come quando elogia la pruden­za del serpente, il fattore infedele, l’abilità dei figlidelle tenebre. Non èda escludersi, infine, che i di­vieti di Gesù vadano attribuiti almeno in parte al­la necessità, per gli evangelisti, di mettere in om­bra il carattere di messia terrestre di Gesù, così drammaticamente contraddetto dai fatti. Ma se qualcosa deve escludersi, in questa incertezza, è che i divieti di Gesù possano essere assunti come prova del carattere puramente spirituale della sua messianicità, il quale è chiaramente contraddetto da numerosi altri passi evangelici (pp.76-78).

 In ogni caso, fatti questi chiarimenti, c’è tutto il realismo del discorso escatologico, che non lascia margini a riduzionismi vari: “In realtà, non ci sarebbe nessuna sorpresa di fronte alle più nette e audaci affermazioni apoca­littiche raccolte dall’evangelista nel finale discorso escatologico di Gesù e presentate come il suo testa­mento, se non fosse stato metodicamente frainteso o minimizzato il contenuto delle altre sue prece­denti affermazioni. E non ci sarebbe da avanzare nessuna sottile questione circa l’oggetto delle pa­role profetiche di Gesù se anziché con gli strumen­ti della critica storica e testuale si affrontassero con lo spirito dei profeti, dall’interno cioè e non dal­l’esterno, sentendo intimamente che agli occhi di Gesù Gerusalemme col suo tempio e Israele sono l’umanità stessa, non soltanto per analogia simboli­ca ma per sostanziale compartecipazione” (p.112).

IV – Dalla “religione di Gesù” alla “religione cristiana”

“La religione di Gesù guarda il futuro prossimo, il regno di  Dio che deve venire: la religione cristiana guarda a ciò che è diventato ormai il passato remoto, adora il mancato manifestarsi del regno. Poiché il mondo è rimasto, si è capovolta la religione che doveva capovolgerlo. Pietro, che è la chiesa, è crocifisso come Gesù, ma rovesciato con la testa in basso. Pietro, sul quale il Signore promette di innalzare il suo edificio, è quello stesso al quale, immediatamente dopo la promessa, Gesù si rivolge dicendo : «Vattene lontano da me, Satana; tu mi sei di scandalo, perché non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini» (Mt., 16, 23). La condizione del mondo, dopo la morte redentrice del Cristo, è quella profetizzata nella parabola evangelica degli spiriti immondi: «Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, se ne va per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandolo dice: tornerò nella mia casa, donde sono uscito. E quando vi giunge, la trova vuota, spazzata e ornata. Allora va a prendere sette altri spiriti peggiori di lui, i quali vi entrano e vi si stabiliscono, al punto che la condizione ultima di quell’uomo diventa peggiore della prima. Così accadrà a questa generazione perversa» (Mat., 12, 43-45). Gesù è stato il pezzo di stoffa nuova cucito sullo strappo del tessuto vecchio, che ha prodotto uno strappo peggiore. Le sue «cose sante date ai cani» e le sue «perle gettate ai porci » (Mat 7, 6) pesano ancora sul loro stomaco e hanno guastato per sempre la loro sana animalità. La storia è l’agonia della speranza: la chiesa o le chiese hanno fatto con la parola  di Gesù quello che il tempio di Gerusalemme aveva fatto con la parola di Mosè e dei profeti, l’hanno tramandata deturpandola fino al limite dell’irriconoscibile. Hanno così assolto alla loro funzione storica, perché noi ancora oggi (domani non più) sentiamo quella parola diversa da tutte le altre parole (pp.133-134).

“Il regno di Dio che Gesù ha promesso vicinissimo e che dopo duemila anni non è venuto  è pietra d’inciampo e cristianesimo. La chiesa o e chiese da altrettanto tempo sono costrette a eluderla in molti modi, perché la loro vita è fondata su questa elusione. C’è un incolmabile abisso  tra la prospettiva di Gesù com’è testimoniata dai vangeli sinottici e le interminabili costruzioni posteriori, a cominciare già dalle vicende e dalle dispute narrate negli Atti degli Apostoli. Gli sforzi per edificare su basi storiche, esegetiche e teologiche il significato e l’immagine ideale della chiesa si agitano tutti su un piano troppo diverso e troppo  inferiore nei confronti di quello dove s’impone la potenza immediata delle poche parole con le quali Gesù annuncia ed esige  il regno di Dio. Ai suoi occhi non poteva avere nessun significato il protrarsi per secoli di un’istituzione, perché ciò presuppone il perdurare indefinito, anzi l’irrilevanza della durata del vecchio eone. La fondamentale esigenza di un’autorità che si opponga all’autorità  mondana - che ha caratterizzato sia  attesa messianica degli ebrei sia la predicazione di Gesù, sia le immediate origini cristiane - implicava sbocchi ben lontani da quello, storico e mondano, dell’istituzione chiesa. Ma l’abbandono della prospettiva escatologica, relegata ben presto ai margini della verità cristiana, declassò l’istanza autoritaria, trasferendola sul piano istituzionale. Quando l’istanza, incarnata nella chiesa cattolica, risultò definitivamente deturpata, venne respinta ed estromessa dall’orizzonte cristiano, che si differenziò così sempre più radicalmente dalle origini e anticipò la vicenda che sarà poi percorsa, in secoli più recenti, dall’intera storia profana… Scomparso il regno di Dio dall’orizzonte cristiano, la strada era aperta per qualunque fraintendimento e per qualunque tradimento, e un pesante apparato teologico, rituale, amministrativo andava a occupare il posto lasciato vuoto dal crollo della speranza di Gesù” (pp. 135-136,137).

C’è un processo di degrado progressivo, del resto già presente nelle Scritture (come appare nelle sette lettere alle Chiese dell’Apocalisse), quando parlano di un raffreddamento  dell’amore, fino a chiedersi se il Figlio dell’uomo troverà ancora fede sulla terra al suo ritorno. Si va dalla parola viva di Gesù fino alla comparsa del “mondo cristiano” con la sua religione ufficiale o civile :“Con il consumarsi dell’iniziale tensione escatologica la religione di Gesù si è gradualmente trasformata in cristianesimo, e il cristianesimo a sua volta si è lentamente diluito, compromesso e spento. Ma il lievito messianico dei vangeli, divenuto sempre più inoperante nella sterile interpretazione ufficiale dei sacerdoti e dei teologi, ha fornito per vie oscure e sotterranee il modello ideale e la forza propulsiva per nuove speranze, o per nuove forme dell’unica speranza” (p.151).

Ma non si possono dimenticare parole così perentorie: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).  “La dimensione del nostro problema è perciò escatologica, ma la nostra condizione, determinata dalle premesse limitatrici che la definiscono, ci rende impotenti ad affrontarla. Così, mentre la cultura ufficiale torce il collo dalla prospettiva escatologica come gli occhi dal sole, con. la stessa decisione con la quale lo torce la religione ufficiale, si moltiplicano tuttavia le indicazioni secondo le quali il nostro presente non sarebbe comprensibile senza questa chiave d’interpretazione. Ma le indicazioni in questo senso restano perciò isolate, periferiche e marginali nei confronti dell’istituzione culturale attuale, che non può accoglierle senza distruggersi, anche se in realtà operano profondamente nel tessuto dei popoli e degli individui” (p.184).

Una tensione messianica attraversa strati di umanità e popoli, che forse sono quei poveri a cui è dovuto per di diritto il vangelo del regno. Si passa così ad una affermazione veramente decisiva, secondo cui “La proposta escatologica risponde alle istanze più autentiche e più nascoste dell’uomo contemporaneo, che è sospeso, nella tensione verso la realizzazione immediata della sua pienezza, fra l’attesa delle meraviglie astrali e l’incubo della distruzione nucleare, prospettive entrambe impensabili e soverchianti (p.191).

 Ma per quanto attuale e urgente per i nostri giorni, un messaggio escatologico è difficilmente recepito e condiviso dai più, anche se trova sempre un po’ di terreno buono - qualche piccolo resto - in cui possa  rifiorire la speranza messianica: “Un messaggio escatologico non può essere accolto. Ma esiste il piccolo e trascurabile resto d’Israele, tra i popoli che nella loro indifferenza o nel loro endemico torpore covano il rifiuto totale e la totale ribellione. A costoro il Signore Gesù, manifesterà come ha promesso il suo nome nuovo, che nessuno conosce, dopo il lungo silenzio profetico che ha fatto dimenticare le voci dei profeti da Iacopone a Gioacchino da Fiore a Savonarola a Campanella e che precede la parusia vittoriosa di Cristo come il primo silenzio profetico aveva preceduto la sua venuta per la sconfitta e per la morte” (p.198).

ABS

Articolo tratto da:

FORUM (92) Koinonia

http://www.koinonia-online.it



Mercoledì, 16 aprile 2008