EUCARESTIA MEMORIALE DELL’ULTIMA CENA DI GESÙ

di di Odette Mainville

Riprendiamo questo articolo dal sito www.chiesaincammino.org. Odette Mainville è docente di esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà di Teologia e di Scienze delle Religioni dell’Università di Montréal, copresidente del Réseau Culture et Foi


La prima volta che ho presentato le considerazioni alle quali ero arrivata, nelle mie convinzioni personali, sulla santa cena, è stato nel gennaio del 1995, in occasione di un ritiro in una comunità religiosa. All’epoca c’erano reticenze enormi.

L’ultima volta che ho presentato questo stesso approccio, in Gaspesia (regione del Canada, ndt), davanti ad una cinquantina di religiose, un mese e mezzo fa, l’accoglienza è stata straordinaria. Dopo, abbiamo fatto insieme una celebrazione di una ricchezza eccezionale.

Penso che siamo a questo punto. Abbiamo la teoria, bisogna passare all’azione: introdurre pratiche nuove nei nostri ambienti.

Mi piace parlare di "memoriale" dell’ultima cena di Gesù. Parlo sempre della santa cena in termini di memoriale. Ma per fare memoria di qualcuno, bisogna conoscere questo qualcuno. Ora, si è celebrata la messa per secoli senza troppo informarsi sul personaggio all’origine di questo avvenimento (è straordinario come si possa compiere questo rituale facendo così poca memoria di lui. Quando si tenta di rinnovare, di ringiovanire, di rigenerare l’Eucarestia, si dovrebbe cominciare col fare evangelizzazione. Si dovrebbe cominciare con il conoscere il personaggio Gesù).

Cosa ha portato Gesù a celebrare quella cena, in quella maniera, con i suoi discepoli? In quel momento, ha inventato un rituale nuovo? E, se non ha voluto inventare niente di nuovo, ha voluto conferire un valore nuovo ad un rituale esistente? Visto che questo rituale ha attraversato due millenni di storia (sotto diverse forme, è vero), qualcosa di importante deve essere accaduto se l’avvenimento ha avuto un impatto tanto grande, e lo celebriamo ancora oggi.

Per cogliere bene i fondamenti del memoriale, bisogna dire che c’è stato qualcosa prima; poi c’è stato il rituale (ci concentreremo su questo punto); e c’è stato, poi, qualcosa che ha spinto quest’avvenimento nella storia.

 

Gesù prima della Cena

Si snatura il rituale della Cena se non lo si lega alla persona, agli ideali, alle opzioni, in breve alla vita di Gesù. Quando Gesù sale a Gerusalemme per celebrare la Pasqua, non lo fa per istituire un rito nuovo, ma per celebrare la Pasqua con il suo gruppo di discepoli. Gesù non è naïf, sa cosa l’aspetta, perché nel corso di tutta la sua missione, con i suoi atteggiamenti, con le sue scelte, con i suoi ideali, ha contestato la tradizione, la legge, le autorità religiose del tempo. Gerusalemme, sede del Tempio, è la tappa ultima. Se Gesù vuol far passare il suo messaggio, deve andare fino in fondo, al cuore della comunità giudaica.

Gesù ha contestato perché aveva un’immagine di Dio. Per essere fedele a questa visione, portarla a termine, doveva entrare in opposizione con coloro che, secondo lui, avevano sfigurato Dio.

Realizzare la visione di Dio sull’umanità

Come contesta Gesù? Mette in pratica in modo integrale quello che trova nella Genesi: Dio ha creato l’uomo e la donna uguali, a sua immagine e somiglianza. Aver questo in testa, ben scolpito, cambia la visione dell’umanità. La promozione della dignità umana preoccupa Gesù costantemente. La sua visione di Dio passa attraverso l’impegno verso la razza umana. Questo spiega la sua condotta rispetto agli emarginati, ai dimenticati, alle donne. Si è presto dimenticato che Gesù ha avuto donne fra i suoi discepoli; era radicalmente innovatore in un’epoca in cui le donne si velavano per varcare la soglia di casa. Gesù si siede a tavola con i peccatori, contro le prescrizioni religiose. Entra in relazione con categorie di persone che sono rifiutate.

Di fronte al suo comportamento, le autorità finiscono col dirsi: quest’uomo non può essere di Dio, perché tutto quello che fa è in opposizione alla nostra legge e alle nostre tradizioni. Tuttavia, con le sue azioni, Gesù intende restituire a Dio la sua vera immagine. I suoi discepoli sono un campionario di quello che gli si può rimproverare. C’è fra di loro uno zelota (un rivoltoso), un pubblicano (un ebreo che lavora per gli occupanti romani), persone illetterate, ordinarie, senza formazione particolare, senza notorietà né influenza.

Gesù mette anche in discussione tutta una serie di rituali, di leggi, di istituzioni che non hanno più ragione di essere e non sono più significative. Vuole ridare il vero posto al sabato (il sabato è per gli esseri umani, e non gli esseri umani per il sabato), far saltare le prescrizioni alimentari che alzano barricate tra gli esseri umani. Mette ordine fra un bel po’ di cose.

Il colmo è il suo atteggiamento verso gli emarginati, gli stranieri. Arriva fino a portare come esempio un Samaritano, quando i Samaritani sono maledetti, disonorati, detestati dagli ebrei. Significa, questo, che l’"ortodossia" consiste nell’agire bene.

Dunque, per Gesù, Dio dà priorità alla vita e a tutto ciò che la genera. Se alcune situazioni avviliscono, distruggono la vita, facciamo quello che serve per uscirne. Gesù ha costantemente cercato di realizzare le intenzioni di Dio per gli esseri umani. È questa la forza motrice della sua missione. Con manifestazioni d’amore, con gesti d’accoglienza, di difesa, con le guarigioni e così via, egli mette risolutamente in pratica la visione antropologica della Genesi: tutti uguali, tutti con gli stessi diritti. Egli ha ben compreso anche l’insegnamento dei profeti: Isaia, Michea, Osea, cioè che Dio disdegna il culto se non è preceduto da giustizia e da amore per il prossimo. Così, in Mt 25, si è dalla parte giusta se ci si è occupati del prossimo e se si è praticata la giustizia e la carità. Questo solleva questioni in merito alla pratica cultuale. Non si tratta di escluderla, ma essa non ha senso se non è preceduta da un vissuto che corrisponde alle attese di Dio.

Gesù ha anche contestato il Tempio a causa degli scandali. Il Tempio non era solamente un luogo di preghiere e di sacrifici. Era la sede del Governo, la Banca centrale, le Finanze, la Corte… Ora, poco prima della Pasqua, Gesù "fa pulizia" nel Tempio (gesto significativo, quale che sia la sua portata reale).

A rischio della vita

Gesù non può continuare il suo cammino senza farsi condannare a morte, perché in conflitto con autorità abituate a dirigere con la repressione e la coercizione, a mantenere le persone nei ranghi. Gesù contesta la Legge. Non c’è dicotomia tra legge civile e legge religiosa all’epoca; la Legge è dappertutto, è il motore della vita del popolo. Gesù dice alle persone di alzare la testa, di servirsi del loro giudizio. Niente è più pericoloso di un popolo che decide di essere libero e di farsi carico del proprio destino.

Dunque, Gesù arriva a Gerusalemme per la cena di Pasqua con i suoi amici. Io immagino che quella sera l’atmosfera fosse tesa e carica di emozioni. Ricordatevi: Pietro, quando si trovano ancora in Galilea, lo tira per la manica perché non vada a Gerusalemme. Sa qual è la sua reputazione. I discepoli sanno bene che rischiano di farsi arrestare e forse condannare a morte. Gerusalemme, in tempo di Pasqua, è gremita, i pellegrini vengono da tutto l’impero romano, il rappresentante dell’imperatore è lì, ci sono milizie dappertutto. Basta una scintilla per dar fuoco alle polveri. Gesù è sorvegliato e, quando si ritrova con gli amici, sa che non andrà lontano. È convinto che l’immagine di Dio sia proprio quella che ha presentato, ma la sua vita sembra subire uno scacco, egli morirà. Che succede allora? Bene, si discute molto l’idea della coscienza messianica ("Gesù sapeva che…"). Per parte mia, penso che, se Gesù ha avuto una coscienza profonda del "reale", è al termine della sua vita, quando tutto sembra crollare, che egli è convinto di aver combattuto la buona battaglia. Perché Gesù pone un ultimo atto di fede tentando di passare la fiaccola al suo gruppo: persone che si è portato dietro  forse  un anno e mezzo, che ha cercato di istruire, illetterati, probabilmente, undici su dodici, senza potere, originari della Galilea (e marchiati per questo solo fatto), senza denaro, senza influenza.

La fede e la fiducia che ripone in Dio chiedendo ai suoi discepoli di continuare il cammino sono abbastanza straordinarie. E questo succede all’ultima cena.

L’ultima cena

Gesù si prepara a celebrare la cena pasquale con i suoi, dunque a ripetere un rito che più conosciuto non si può fra gli ebrei dell’epoca, che ricorda loro la liberazione dall’Egitto. Ciò che rende la cena differente, quella sera, è che Gesù sa che morirà e vuole assicurarsi che i discepoli porteranno avanti l’opera sua. Cosa vuol fare? Ve lo domando. Vuole che i discepoli lo adorino? No, questo non è possibile. Cos’ha maggiormente a cuore nel momento in cui va a morire? Che i discepoli si impegnino a proseguire. Non avrebbe pronunciato simili parole (le parole sulle quali torneremo fra un istante) se non avesse saputo che la sua fine era vicina. Perciò vuole portare i discepoli ad impegnarsi.

Le parole che Gesù sta per pronunciare si radicano nella più bella iconografia semitica dell’epoca, l’iconografia semitica nella sua più nobile espressione. Parlerà di corpo e di sangue.

Il corpo

Noi riconduciamo l’idea del corpo alla carne umana, alla carne che finisce col decomporsi. Nel mondo semitico, la dicotomia fra corpo e anima non esiste. Il corpo è l’essere umano in relazione. È l’entità personale che si distingue dalle altre. È un’entità autonoma, ma necessariamente di relazione, che fa riferimento, sì, ai tratti fisici della persona, ma anche ai suoi tratti psicologici, alla sua unità, alla sua intelligenza, ai suoi talenti, alle sue qualità, ai suoi difetti, a tutto quello che è. In breve, al suo essere integrale, nel quale, secondo la prospettiva semitica, Dio ha soffiato la vita. Il mondo semitico crede che, quando Dio si riprende il suo soffio, la persona muore. Il corpo si costruisce sul filo dell’esistenza. Prendete il corpo di un bambino, di un adolescente che si trasforma, di qualcuno che è nel fiore degli anni, di una persona che arriva a sessant’anni, a ottanta, a novanta… Il corpo avviene sul filo delle scelte, delle riflessioni, delle frequentazioni, delle gioie, delle pene, delle prove, delle lotte, delle prese di posizione, dei successi, degli insuccessi. Alla mia età, il mio corpo è quello che le mie esperienze ne hanno fatto, come esse l’hanno modellato. Al termine della vita, il corpo è il potenziale iniziale arricchito dalla somma delle esperienze.

Questo è il mio corpo

Perciò, quando Gesù, prendendo il pane (il pane: non ci può essere un simbolo più bello), dice ai suoi discepoli: "Questo è il mio corpo", credo che egli lo usi in maniera simbolica. Secondo il teologo protestante Gordon Fee, "ciò supera sia l’intenzione di Gesù e il quadro all’interno del quale lui e i suoi discepoli si trovano, sia l’immaginare che una trasformazione avvenga o sia destinata ad avvenire nel pane stesso nel momento in cui lui lo offre". E il padre Boismard scrive (credo nel suo libro su Marco): "Il pane non si è fisicamente trasformato nel corpo di Cristo, resta quello che è sempre stato: pane". Si resta dunque sul piano del simbolo.

Allora, quando Gesù dice: "Ecco, questo pane è il mio corpo", presenta quello che è. "Sono io, eccomi, quello che sono diventato nel corso della mia vita e del mio impegno". Insisto sull’impegno e insisto su quello che Gesù è stato. Egli dice: "Accettate di condividere questo pane? Se sì, accettate di dare prolungamento alla mia persona, a ciò che mi ha forgiato, le mie scelte, le mie opzioni, la mia missione. Abbiate cura di portare avanti quello che ho iniziato a fare", e ciò, certamente, in un eterno inizio. Penso sia questo quello che Gesù ha voluto dire ai suoi discepoli, e non: "Ecco, adoratemi, per favore". No. "Se condividete tutto ciò, condividete il mio destino. Sottoscrivete quello che ho difeso fin qui, l’immagine di Dio che ho presentato, il tipo di relazioni umane che ho voluto stabilire tra noi". Sospetto che i discepoli, in quel momento, non abbiano capito il dieci per cento di quello che hanno capito dopo.

Il sangue e il vino

Poi Gesù prende il calice di vino, lo benedice. Il padre di famiglia faceva questi gesti quando presiedeva la cena pasquale, e si fa ancora oggi nelle famiglie. Per il popolo della Bibbia il sangue è la vita. Si crede che la vita di ogni umano scorra nel suo sangue. È scritto letteralmente nel Levitico, nell’Esodo. Si è talmente convinti che si finisce per affermare semplicemente (Lv 17,11 e 17,14): la vita di ogni creatura è il suo sangue. Si credeva che la vita scorresse attraverso il sangue. Dunque, ogni vita è sacra. Non stupisce che si interdica la consumazione del sangue, che è sacro.

Se il sangue è la vita, prendere il calice e dire "ecco, questo è il mio sangue" non è una forma di cannibalismo. Significa: "È la mia vita. Volete essere in comunione con la mia vita?".

C’è anche una piccola sfumatura corposangue. Il corpo di Gesù è quello che è diventato attraverso le sue lotte; la sua vita, ciò che egli è, ciò che continuerà ad essere. E si conosce il simbolo della condivisione del calice. Condividere lo stesso calice è condividere la stessa causa. "Volete alimentarvi al mio corpo, volete condividere la mia causa? Sì? Ecco, bevete al mio stesso calice" (cerchiamo di perdere di vista l’idea del sacrificio sanguinoso per vedervi una fonte di vita. François Varone, in Ce Dieu aimer la soufferance  Questo Dio che si presume ami la sofferenza  presenta la cosa in modo meraviglioso).

"Questo è il mio sangue, alimentatevi alla mia vita". Gesù non invita a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, ma a condividere il genere di vita che ha vissuto, a prolungare la sua missione. Ma i discepoli avevano talmente paura che, quando il pericolo si avvicina, spariscono, si salvano. Ecco perché non credo che i discepoli abbiano interamente capito, in quel momento, quello che Gesù domandava loro di fare.

Il dopo

Gesù dice nientemeno: "Farete questo in memoria di me. Ripeterete quello che è successo qui". Penso che non l’avrebbero fatto se non ci fosse stata resurrezione. Perché, al primo gesto di minaccia, i discepoli scompaiono uno dopo l’altro e abbandonano Gesù nella situazione più terribile. Comprensibile. All’epoca, quando un sedizioso veniva arrestato, era condannato a morte e con lui tutti quelli sospettati di poter far rinascere il suo movimento. I discepoli sanno benissimo che, se restano nei paraggi, la loro vita è in pericolo. Però c’è la resurrezione. La morte di Gesù ha senso unicamente nella sua resurrezione. Non si può separarle. Non è la morte che salva, è il mistero pasquale che ci fa trovare la via della salvezza attraverso la morte e la resurrezione. Dio si riconosce in Gesù . Avviene la resurrezione. È il punto di partenza di una riflessione straordinaria da parte di coloro che hanno seguito Gesù. Egli è morto, ci si salva in Galilea, ci si salva la pelle. Sarebbe finito tutto lì e nessuno avrebbe sentito parlare di Gesù entro qualche decennio se non ci fosse stato questo atto di Dio in suo favore, ossia di restituirlo alla vita e farlo apparire a coloro che l’avevano accompagnato.

La resurrezione è l’avvenimento scatenante, il punto di partenza di una domanda straordinaria: perché, ma perché, Dio ha resuscitato Gesù? I discepoli si riuniscono per riflettere sul senso della resurrezione e finiscono per decifrare: Dio ha dato ragione a Gesù, Dio si riconosce in tutto quello che egli ha fatto, in tutte le sue scelte, in tutto quello che ha voluto promuovere, nel tipo di relazioni che ha avuto. Non c’è niente di scandaloso nel fatto che si sia intrattenuto con donne, stranieri, pagani, peccatori. E se Dio ha dato ragione a Gesù, non si può fare altro che camminare al seguito di Gesù per far vivere le sue opzioni.

Il loro impegno si inscrive nel prolungamento di quello che egli ha provato a dar loro. Ma che fare? Continuare ad obbedire alle autorità giudaiche vuol dire non fare la volontà di Dio perché Dio, resuscitando Gesù, dice: "Mi riconosco in lui, è come lui che voi dovete agire".

Fare memoria: fare avvenire quando i discepoli si riuniscono, si ricordano cosa significa fare memoria di lui. Comprendono che non c’è occasione più bella di riprendere la fiaccola. Come ricordarsi di Gesù se non ricordando quell’ultima cena in cui ha diviso il pane e detto "Sono io, è la mia persona", ha preso il vino e detto "Questo è il mio sangue, è la mia vita"? È il luogo di riunione per eccellenza, dove si ridice chi è stato Gesù, ed è il luogo in cui si ridice quello che si vuol fare per continuare la sua missione. Fare memoria non si riassume nel ricordare passivamente, è fare avvenire ciò che sta dietro questa memoria. È far vivere. Il luogo del memoriale diventa un luogo di impegno. Agire ora

La parola Eucarestia per me non rappresenta questo, perché la parola Eucarestia fa riferimento all’azione di grazia. Penso che si dovrebbe parlare piuttosto di memoriale dell’ultima cena di Gesù che diventa un luogo di impegno. Se si crede che è così, le implicazioni sono grandi, e sono gravi.

Ce la caviamo con poco se ci trinceriamo dietro l’adorazione: adorare si può fare in meno di un’ora e si è a posto fino alla settimana successiva, non è un grande impegno. Ma, se ogni volta che si condivide il pane e il vino, si ripensa: sì, cos’è che ha voluto e come posso assumere i suoi impegni nel mio piccolo ambiente, nel mio entourage, nella mia vita professionale, nella mia vita familiare, nella mia vita nazionale, questo è più esigente. La domanda che preoccupa di più le comunità cristiane è quella sul sacerdozio (delle donne, degli uomini sposati). Che si stia ora anche per bloccare l’accesso degli omosessuali al sacerdozio è aberrante. Ma se si torna all’origine, se si ritorna alla natura di quella che è stata l’ultima cena di Gesù, queste questioni sono sistemate, non hanno più senso. Sicuro, non importa chi può presiedere, come possono svolgersi le celebrazioni. C’è la questione dei ministeri, ci credo, la questione dei carismi, ci credo. Non ci si improvvisa presidente d’assemblea. Ma chi può impedirlo ad un uomo o ad una donna di buona fede, che ha il carisma per farlo? Chi può impedirlo a me se, al cuore del mio impegno, ho il gusto di riunirmi con persone di una comunità e fare memoria dell’ultima cena di Cristo perché voglio ricordarmi esattamente quello che ha fatto e alimentare, rigenerare i miei impegni: chi me lo può impedire? Chi dice che sia necessaria una persona specializzata o ordinata per farlo?  

È stato così nel corso dei secoli, ma noi siamo giunti ad un’altra tappa. Non è più l’ora di chiedersi se lo si deve fare. Se si vuole una comunità, se si vuole continuare la missione di Gesù fra di noi, beh, bisogna prendere delle iniziative. Bisogna fare quello che si deve fare.



Martedì, 25 marzo 2008