Ripensare la Pasqua con Sergio Quinzio
Dopo la croce

di Sergio Quinzio

Ma la fede crede nella resurrezione di Gesù Cristo dai morti! Crede, anche se con l’a­scensione è scomparso dopo pochi giorni dalla vista degli uomini (At 1, 6-11). Crede, anche se la resurrezione è avvenuta nella notte e non sotto gli occhi di tutti come la morte, e se dunque nessuno, a rigore, ne è stato testimone, nessuno l’ha vista, ma ci so­no, secondo il racconto del nuovo Testa­mento, solo testimoni del sepolcro vuoto o delle apparizioni di Gesù, ad alcuni, per al­cuni giorni. E comunque quei testimoni non sono più fra noi da duemila anni, sic­ché più che credere alla loro testimonianza crediamo nel fatto che, allora’, si sia cre­duto sulla base di quella testimonianza, e si sia poi continuato a credere. Come la giusti­zia del suo regno, così ormai anche la resur­rezione di Cristo può essere solo una spe­ranza. Del resto l’eucaristia, la realtà sacra­mentale che è stata al vertice della religione cristiana, è, ancora per Lutero, il rinnova­mento « mistico » della passione e della mor­te di Cristo, non della sua resurrezione. L’argomento decisivo per credere o non credere nella resurrezione di Gesù Cristo è, secondo Paolo, la resurrezione dei morti: “Se non c’è resurrezione dei morti, nean­che Cristo è risuscitato. Ma se Cristo non è risuscitato, allora il nostro annuncio è vano, vana anche la vostra fede. Risultiamo, allo­ra, dei falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risu­scitato il Cristo, mentre non l’ha risuscitato, se è vero che i morti non risuscitano. Se in­fatti i morti non risuscitano, neanche Cristo è risuscitato, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Allora anche quel­li che sono morti in Cristo sono periti. Se è per questa vita soltanto che noi abbiamo messo la nostra speranza in Cristo, noi sia­mo i più miserabili di tutti gli uomini” (1 Cor 15, 13-19). In questo passo paolino la soluzione della questione consiste in defini­tiva in un differimento: resurrezione di Cristo già avvenuta e futura resurrezione dei morti si implicano strettamente, sono, al limite, la stessa cosa. Anche se Gesù non fosse risorto allora (risorto non secondo il vago simbolo di una sua presenza nella co­munità pasquale, ma nel modo in cui la re­surrezione è corporeamente espressa nelle Scritture ebraiche e cristiane), se i morti ri­susciteranno sarà manifesta la potenza di Dio che risuscita, e che risuscita per primo il Cristo. Ma se i morti non risusciteranno, al­lora non ha senso la resurrezione di Cristo, giacché la resurrezione di Cristo ha senso solo se è la primizia della resurrezione dei morti.
Ebbene, dopo duemila anni i morti non sono risuscitati, e lo spazio, per la fede è mostruosamente diminuito. E’ una sconfitta di Dio la mancata resurrezione dei morti, e lo è tanto più in quanto la stessa resurrezio­ne, tardivo rimedio a quello che è il destino fallimentare del dover morire, ha già il sa­pore della sconfitta. Il Vangelo di Marco si concludeva con le donne che fuggono spa­ventate dal sepolcro vuoto (16, 8). Gesù ri­sorto è irriconoscibile, o almeno non è rico­nosciuto da Maria di Magdala (Gv 20, 14­16), né dai “discepoli di Emmaus” (Lc 24, 31), che pure l’avevano di fronte e stavano parlando con lui. Il cadavere rianimato che esce dalla tomba - e questo, per quanto si cerchi di non leggere quello che c’è scritto, dicono le Scritture - ha sentore di morte, come nell’episodio di Lazzaro (Gv 11, 1-44). La gioia della resurrezione conserva una macchia cadaverica. Il Cristo risorto è rap­presentato vincitore, ma il suo trionfo non ha mai cancellato, nel cuore dei fedeli, l’im­magine del Crocifisso. Anche la finale re­surrezione dei morti - nella quale una fede che non sia disposta ad abdicare al proprio senso continua ancora a sperare contro ogni speranza (come, del resto, aveva spera­to contro ogni speranza Abramo, nostro pa­dre nella fede, Rm 4, 18) - porterà con sé un sentore di sepolcro: anche se ne venisse cancellata la memoria (Is 65, 17; Ap 21, 4), il tragitto percorso resterebbe orribile u­gualmente. Per consolarcene, Dio stesso a­sciugherà le lacrime dagli occhi degli strap­pati all’abisso della morte e degli inferi (Is 25, 8; Ap 21, 4), abisso al quale la prima ge­nerazione cristiana si illudeva di poter sfug­gire; il Signore si chinerà per servirli a ta­vola (Lc 12, 37).
Ma da ogni parte gli occhi della fede devo­no ormai veder irrompere la sconfitta di Dio. Già le prime comunità cristiane erano costrette, dinanzi ai primi martiri, a pensa­re che qualcosa mancasse al perfetto sa­crificio redentore di Cristo. I martiri, a co­minciare dal protomartire Stefano e via via lungo i primi secoli della chiesa, morivano con gioia, affrontavano i supplizi, anzi li de­sideravano, per essere ricongiunti con il lo­ro Signore. Così, almeno, ci è stato traman­dato. Questa gioia (che, fra l’altro, rende la morte dei martiri così diversa e lontana da quella di Gesù), Paolo dice di provarla nelle sofferenze con le quali completa nella sua carne “ciò che manca ai patimenti del Cri­sto” (Col 1, 24). I martiri, nell’Apocalisse, gridano a gran voce: “Fino a quando, Si­gnore santo e fedele, tarderai a fare giusti­zia, a far vendetta del nostro sangue sugli abitanti della terra?” (6, 10): ad essi viene risposto di “pazientare ancora un po’, il tempo necessario per completare il numero dei loro compagni di servizio e fratelli che devono essere messi a morte come loro” (6, 11). Quando tutto sembra compiuto nel perfetto sacrificio di Cristo, tutto esige an­cora sangue. Il numero dei martiri, dopo venti secoli (un tempo più lungo di quello che va da Abramo a Gesù), non si è eviden­temente ancora completato, sebbene l’Apo­calisse, l’ultimo libro della rivelazione bibli­ca, si concluda insistendo nella promessa che “il tempo è prossimo” (22, 10), che il ritorno di Cristo “è prossimo” (22, 7; 22, 12; 22, 20).
Se a coloro che conservano la fede a prezzo del martirio - perché la fede implica co­munque, nella sequela di Cristo, un non metaforico martirio (Mt 10, 38; 2 Tm 4, 6) - è ancora promessa una salvezza solo al di là della morte, e se lo scacco del crocifisso Dio di tenerezza e di pietà è in ciò palese, un al­tro scacco, parallelo a questo, patirà Dio se non tutti saranno salvati.


Sergio Quinzio


Da “La sconfitta di Dio”, pp. 60-64

Articolo tratto da:

FORUM (88) Koinonia

http://www.koinonia-online.it



Sabato, 22 marzo 2008