La parola ci interpella
CHI HA PAURA DI GUSTAVO GUTIERREZ?

di ARMIDO RIZZI

Articolo tratto da: FORUM (43) Koinonia del 12/02/2007 http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/

2 - ARMIDO RIZZI, nato a Belgioioso (PV) il 14.4.1933, ha conseguito la laurea in teologia presso l’Università Gregoriana e la laurea in Filosofia presso l’Università di Genova. Ha insegnato Filosofia della religione all’Aloisianum (Gallarate) e Antropologia teologica alla Facoltà Teologica S. Luigi (Napoli). Attualmente insegna presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Firenze) ed è responsabile del Centro Sant’Apollinare in Fiesole, dove promuove iniziative di seria divulgazione culturale. La sua riflessione teologica si svolge fra l’interpretazione delle sacre scritture e la fenomenologia dell’esperienza etica. È membro della redazione della rivista “Servitium”, della “Rivista di Teologia Morale”, e della direzione di “Filosofia e Teologia”.

Fra le sue opere ricordiamo: Cristo verità dell’uomo. Saggi di cristologia fenomenologica (1972); Scandalo e beatitudine della povertà (1975); Letture attuali della Bibbia. Dall’interpretazione esistenziale alla lettura materialista (1978); Messianismo nella vita quotidiana (1981): Terra paese dell’uomo. Spiritualità del quotidiano (1983); Differenza e responsabilità.  Saggi di antropologia teologica (1983); Esodo. Un paradigma teologico-politico (1990); L’Europa e l’altro (1991); Crisi e ricostruzione della morale (1992); Pensare la carità (1995).  Europa. La formazione della coscienza moderna (2004);Oltre l’erba voglio. Dal narcisismo postmoderno al soggetto responsabile (2005)

3 - CHI HA PAURA DI GUSTAVO GUTIERREZ?

La riflessione teologica fa parte del diritto di pensare di un popolo sfruttato e cristiano. È la fede del povero nel Dio liberatore, che cerca di comprendere se stessa: “fides quaerens intellectum”.

G. Gutiérrez

Da qualche tempo la teologia della liberazione è chiamata a un esigente rendiconto sulla propria ortodossia. Nell’ultimo anno, soprattutto, si sono infittite le voci a proposito di interventi delle supreme autorità ecclesiastiche. Due di questi sembrano avere particolare rilievo; ambedue hanno come fonte - presunta in un caso, sicura nell’altro - la Congregazione Romana per la Dottrina della Fede. Nel primo caso si tratta di una conversazione tenuta dal card. J. Ratzinger, Prefetto di detta Congregazione, nel corso di una riunione riservata, e pubblicata (pare senza autorizzazione) il 3/3/1984 da 30 giorni, mensile internazionale de Il Sabato, col titolo: «Fu vera dottrina?». Nel secondo, di “Dieci osservazioni” sulla teologia di G. Gutiérrez, sottoposte dalla medesima Congregazione all’episcopato peruviano (Vedi il testo in Adista 24-26 maggio 1984, pp. 14s.).

Malgrado le diversità di genere letterario, i due documenti si muovono secondo una stessa linea di critica dottrinale, che può essere ricondotta allo schema seguente: la teologia della liberazione - e quella di Gutiérrez in particolare - opera una duplice riduzione: del messaggio cristiano a storia, e della storia all’interpretazione marxista di essa. Si tratta dunque in fondo di una sola riduzione articolata in due momenti, di cui il secondo comanda il primo e viene perciò ad essere quello propriamente determinante: il marxismo funge da chiave di lettura del fatto cristiano e della sua verità. È alla luce del marxismo che verrebbe compresa dalla teologia della liberazione non solo la situazione dell’America Latina come dipendenza dall’economia capitalista, ma l’intera storia come lotta di classe, la concezione biblica del povero come lo sfruttato dal sistema capitalista, la salvezza come liberazione politica (rivoluzione), la verità come prassi rivoluzionaria, la teologia come strumento di questa prassi, la chiesa come comunità degli sfruttati, già parzialmente realizzata nelle comunità di base impegnate nelle lotte di liberazione.

La lettura dei documenti della Congregazione suscita in chi conosce la teologia di Gutiérrez un disagio che è insieme intellettuale e spirituale. Intellettuale perché, con un procedimento ermeneutico non corretto, smonta il testo dell’Autore prendendone alcuni pezzi e rimontandoli secondo un disegno che non è quello originario; spirituale, perché quest’operazione, già in se stessa incapace di produrre verità, sembra come attraversata da un soffio di malevolenza, che inclina a forzare testi e temi in direzione di una più facile accusabilità.

Non è questa la sede per entrare con compiutezza analitica nel merito della teologia di Gutiérrez e delle denunce che le vengono opposte. Ma non possiamo neppure ignorare questo dibattito, i cui termini sono teologici ma i cui esiti potrebbero essere disciplinari e avere come conseguenza, se non il silenzio, una minore efficacia di una delle voci più ascoltate della teologia della liberazione. Tanto più che Gutiérrez è peruviano, opera prevalentemente a Lima, ed è quindi nel suo specifico di teologo uno dei più infaticabili tessitori di quella “solidarietà dei poveri” che abbiamo cercato di riscoprire in queste pagine. Per lui «il lavoro teologico fatto a partire dalle classi sfruttate, dalle razze scomparse, dalle culture emarginate e, ancor più, in favore di esse, è una parte dell’esercizio del loro diritto alla liberazione» (G. Gutiérrez, La forza storica dei poveri, Brescia 1981, p. 120), è «l’espressione del diritto a pensare che hanno i ‘condannati della terra’» (op. cit., p. 121), è «un’ermeneutica della speranza del Signore, che i poveri vivono nel cuore della lotta storica» (op. cit., p. 123).

È indubbio che negli scritti di Gustavo Gutiérrez, come in altri, il richiamo all’analisi marxista è presente e, in alcuni capitoli, relativamente frequente. Ma esso vi svolge una funzione secondaria, al servizio di una fonte principale di ispirazione, che è la parola di Dio. Gutiérrez stesso l’ha espressamente rilevato in un’intervista recente: «Per noi, la ragione ultima e più importante della opzione preferenziale per il povero non sta nell’analisi sociale, bensì nel Dio nel quale crediamo in comunione ecclesiale» (Adista 24-26 maggio 1984, pp. 13). Ora, il lavoro di smontaggio/rimontaggio che i documenti d’accusa compiono ha precisamente come effetto di capovolgere quest’ordine interno al discorso di Gutiérrez, presentando l’analisi sociale di estrazione marxista come il principale ispiratore e la parola di Dio come un ingrediente successivo - e, tutto sommato, strumentale - della teologia della liberazione.

Per mostrare che la breve puntualizzazione fatta da Gutiérrez non è una scappatoia dettata da esigenze difensive ma rispecchia l’effettivo ordine del discorso dei suoi scritti, il modo più semplice e più pulito è di offrire una breve presentazione di questi, fatta rispettando la logica che ne comanda lo svolgimento.

Tre sono i libri cui bisogna ricorrere per conoscere la teologia di Gustavo Gutiérrez: Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia 1972; La forza storica dei poveri, Brescia 1981; Bere al proprio pozzo. Itinerario spirituale di un popolo, Brescia 1984 (tutti e tre i libri sono usciti presso l’Ed. Queriniana). Il primo, uscito nel 1971, ha rappresentato come la magna charta della teologia della liberazione, tentandone una prima sistemazione; il secondo raccoglie un certo numero di saggi, scritti (eccetto uno) tra il 1974 e il 1979; il terzo, recentissimo (1983 nell’originale), è una testimonianza di spiritualità della liberazione.

 

I. Teologia della liberazione

Come già si accennava, l’apporto di Gutiérrez in quest’opera è sistematico, e precisamente in due direzioni: anzitutto perché egli intende collocare la nuova teologia entro l’alveo della riflessione di fede tradizionale e universale; poi, perché cerca di inquadrare in un disegno non definitivo, ma comunque organico, gli elementi fino allora emersi nello sforzo pragmatico e teorico per la liberazione in America Latina.

I momenti del discorso del teologo peruviano sono nettamente delineati:

- una declaratio terminorum: che cos’è teologia e che cos’è liberazione (parte prima);

- uno status quaestionis: remoto e teorico, nello sviluppo del problema della liberazione lungo la tradizione teologica (parte seconda); prossimo e pragmatico, nella descrizione e interpretazione delle forme di presenza della chiesa latinoamericana nel processo di liberazione (parte terza);

- un corpus doctrinae, dove il significato teologico della liberazione viene sbalzato innervandole la ricerca nelle tematiche fondamentali della rivelazione biblica, così che esso appare non solo collegato, ma identificato con il senso stesso del cristianesimo e della missione della chiesa (parte quarta).

1. Teologia e liberazione

Diversi sono stati i compiti affidati alla teologia lungo i secoli di storia cristiana. L’età dei Padri ha sviluppato soprattutto una teologia come sapienza, cioè come intelligenza della vita spirituale e guida per la sua maturazione. Nella Scolastica, frutto del lavoro teologico è il sapere razionale nell’ambito delle verità di fede; è l’incontro tra il mondo della rivelazione e le esigenze di interrogazione e di sistemazione che caratterizzano la ragione umana. L’istanza sapienzale e quella razionale restano acquisite anche per la teologia odierna. Ma una nuova esigenza le accompagna e le sottende: le teologia deve svolgere una riflessione critica sulla prassi; deve sottoporre la vita della società e della chiesa al giudizio della parola di Dio, perché restino continuamente tese verso una migliore promozione dell’uomo. Questo nuovo compito ne fa una teologia liberatrice.

Sul significato del termine “liberazione” Gutiérrez svolge un breve excursus, dove appare che essa può valere su tre livelli di progressiva profondità: liberazione politica delle classi e delle nazioni oppresse, che in America Latina si oppone alla dipendenza economica dal capitalismo nordamericano e dalla conseguente sua politica imperialista; liberazione del soggetto, che si svolge attraverso tutta la storia e diventa particolarmente intensa negli ultimi secoli (Kant, Hegel, Marx); liberazione dal peccato, come condizione della restaurazione di una perfetta amicizia con Dio e tra gli uomini.

2. Il problema e il contesto

Questa pluralità di livelli suscita il problema centrale di una teologia della liberazione: che rapporto intercorre tra la salvezza (livello terzo) e il processo storico di liberazione dell’uomo (livelli primo e secondo)? A ben vedere, il problema non è nuovo: si tratta dell’edizione più recente del tema classico dei rapporti tra fede e realtà terrestri, tra grazia e attività dell’uomo, tra regno di Dio e costruzione del mondo.

Le diverse risposte date lungo i secoli a questo problema possono agevolmente ordinarsi secondo alcuni modelli in successione logica e sostanzialmente anche cronologica. Il modello cristianità domina a lungo nella chiesa. Le realtà terrestri non hanno autonomia, non possiedono uno spessore proprio; possono solo valere come strumenti per il progetto del Regno, che si identifica con la chiesa stessa. Compito del cristiano è di attuare una politica che permetta alla chiesa di svolgere la sua missione di evangelizzazione e, in ordine a questa, di preservare i suoi diritti e privilegi. Grande figura simbolico-dottrinale di questa concezione è Agostino.

Con il modello di nuova cristianità (ispirazione tomista, nella rilettura di Maritain) si rivendica per le realtà terrestri l’autonomia, e si ridimensionano, di conseguenza, le esigenze temporali della chiesa. Essa rimane però il punto di riferimento essenziale e insostituibile della storia di salvezza.

Un passo più deciso in questa direzione porta alla posizione che ha caratterizzato gli anni del dopoguerra fino al Vaticano II: la distinzione dei piani; chiesa e mondo rappresentano due sfere indipendenti di compiti e di competenze: all’una spetta l’evangelizzazione, all’altro l’edificazione di una società giusta. Il cristiano, in quanto membro della società, partecipa al compito mondano; in quanto membro della chiesa (sacerdoti e movimenti di apostolato), collabora all’impegno di evangelizzazione. Questa netta distinzione tra chiesa e mondo non ostacola l’unità del piano di Dio, ma la rende anzi possibile come unità non uniforme, bensì internamente strutturata.

E tuttavia l’acuita coscienza critica del post-Concilio faceva saltare questa mappa teologica ben calibrata. Molti elementi contribuivano a metterla in crisi; in particolare, la riflessione sulla vocazione unica alla salvezza portava ad attribuire valore salvifico a tutto l’agire umano, dentro e fuori la chiesa, e rendeva teologicamente irrilevante la distinzione tra azione spirituale e azione temporale. L’impegno nella storia e per la storia non può dunque venir considerato come marginale all’orizzonte salvifico, alla maniera di un prolegomeno o di un’appendice; è invece entro questo stesso impegno che spunta e s’incanala l’evento di salvezza. Questo è lo sfondo su cui si staglia la teologia della liberazione.

Per comprenderne l’apparizione bisogna però accennare anche al contesto più immediato, al suo Sitz im Leben. Si tratta della situazione dell’America Latina, del suo risveglio di coscienza nell’ultimo decennio. Si tratta, ancor più da vicino, della partecipazione della chiesa latinoamericana a questo risveglio e all’azione che ne consegue. La presenza dei cristiani nei movimenti rivoluzionari di questi anni è tutt’altro che sporadica; così come le energiche denunce di ingiustizie sociali da parte di vescovi non sono più soltanto gesti di personalità isolate. La conferenza episcopale di Medellin (1968) rappresenta il salto qualitativo nell’atteggiamento della chiesa latinoamericana, perché fa propria la “conversione” dall’ottica dello sviluppismo (che considera lo sviluppo dell’America Latina come un effetto inevitabile, anche se un po’ ritardato, dello sviluppo generale del capitalismo) a quella della liberazione.

3. Prospettive dottrinali

Tutto questo non è che preliminare a una teologia della liberazione. Le prospettive che seguono intendono invece già darne un abbozzo, o almeno segnarne alcune piste. Il discorso di Gutiérrez si snoda secondo una serie di linee molto ampie, di cui isoliamo qui i nuclei tematici di più stretta pertinenza, lumeggiandone il raccordo dimostrativo nei confronti della tesi centrale.

Ecco una formulazione ben chiara di quest’ultima: «Da una prospettiva di fede, ciò che, in ultima analisi, spinge i cristiani a partecipare alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi sociali sfruttate, è il convincimento della totale incompatibilità delle esigenze evangeliche con una società ingiusta e alienante» (Teologia della liberazione, p.144).

Dio vuole un mondo giusto; quel Dio di cui la Bibbia ci discopre il volto e il cuore e l’azione, dalla prima parola creatrice all’ultima definitiva parola-Gesù. Come ritrovare questa intenzione divina nell’intrico delle narrazioni e stratificazioni letterarie e tendenze teologiche del testo sacro?

Una prima direzione riflessiva è il rapporto tra creazione e salvezza, quale l’esegesi degli ultimi decenni ha vistosamente ricuperato. Non esiste, negli scritti dell’AT, una concezione del rapporto Dio-cosmo come slegato dal rapporto Dio-uomo. La creazione è il primo atto di salvezza; anzi, una teologia della creazione viene elaborata solo al di dentro dell’autocomprensione di Israele, come radicalizzazione dell’atto liberatore (esodo) con cui inizia a un tempo la storia del popolo e la storia della sua relazione con Jahvé. La creazione del cosmo non trova il suo senso se non nella liberazione dell’uomo, nell’affermazione piena della sua attività che fa di lui il centro e la sintesi dell’opera creatrice.

Come secondo tema viene avanzata l’escatologia: Jahvé è il Dio delle promesse. C’è una concezione dello sviluppo delle promesse messianiche, che è tanto diffusa quanto biblicamente impropria: i profeti esprimerebbero in immagini materiali un avvenire di salvezza spirituale; dove essi promettono liberazione dall’oppressione, prosperità, reintegrazione fisica e sociale, bisognerebbe leggere, aldilà della lettera, la pienezza dei beni spirituali, della vittoria sul peccato, del trionfo della grazia. Ma questa contrapposizione di materiale e spirituale tradisce il senso dell’aspettativa messianica. La quale si muove, invece, in una direzione univoca dal parziale al totale, da singoli avvenimenti storici liberatori verso un compimento integrale dell’uomo e del cosmo. In Cristo avviene la piena liberazione, dove i livelli sopra accennati - politico, storico, teologale -vengono inclusi in un intreccio armonico e senza incrinature. Terzo tema: la presenza di Dio. Dove abita Dio, e dove può l’uomo incontrarlo? La rivelazione biblica presenta varie abitazioni di Dio. Ma non è difficile rilevare nella loro successione un duplice processo: di universalizzazione e di umanizzazione. Universalizzazione: dai luoghi sacri che contengono e circoscrivono la gloria di Jahvé (il monte, la tenda, l’arca, il tempio) alla consapevolezza che questa gloria irrompe e dilaga per tutto l’universo: Dio abita dappertutto. Umanizzazione: dalla dimora di Dio nel cosmo alla sua incarnazione nel Figlio dell’uomo e in tutti gli uomini, templi viventi dello Spirito.

Ma dov’è l’abitazione di Dio, qui è pure il luogo del suo incontro con chi lo cerca. Ecco perché nei profeti la conoscenza di Jahvé, invece di connotazioni contemplative, presenta una marcata caratteristica di impegno interumano: conoscere Jahvé è operare la giustizia, è promuovere l’uomo indigente. Il vertice di questa identificazione conoscenza-operosità d’amore è raggiunto nella parabola matteana del giudizio finale (Mt 25), il cui orizzonte universalistico rivela appunto un contatto con il Cristo che avviene aldilà (e anche al di fuori) di un riconoscimento esplicito di lui, nella misteriosa luminosità del concreto gesto di promozione del prossimo. Liberare l’uomo è incontrare Dio.

Se i motivi portanti della rivelazione biblica (creazione, escatologia, presenza di Dio) confluiscono nella liberazione e promozione dell’uomo, questa diventa il compito che costituisce e definisce la ragion d’essere della chiesa nel mondo. Non distributrice universale di salvezza, ma coscienza e sacramento della salvezza. Sacramento, cioè segno, visibilità: nella chiesa deve vedersi in opera quel progetto di umanità che è l’impegno e l’attesa di Dio. In particolare nell’eucaristia, dove la comunione al corpo del Signore si dilata in comunione di fraternità e si incarna in comunione di beni. La comunione eucaristica non è pienamente se stessa se non si prolunga nella denuncia delle situazioni disumanizzanti e nell’annuncio dell’amore del Padre presente nel divenire storico dell’umanità. Celebrazione ed evangelizzazione hanno necessariamente una funzione coscientizzatrice anche politica.

Alla luce di questi temi biblici fondamentali, Gutiérrez affronta, nell’ultimo capitolo, il problema della povertà. La rivelazione biblica presenta due immagini di povertà. La prima è la situazione oggettiva di indigenza, di miseria. Essa non costituisce per l’uomo biblico un ideale da promuovere ma uno scandalo da rimuovere, perché frutto del peccato d’ingiustizia e lesione del disegno di Dio. Ma esiste un’altra accezione secondo la quale “povertà” significa la disponibilità di fronte a Dio, l’umile accoglienza della sua volontà: quella povertà “in spirito” che prende voce soprattutto nei Salmi e trova la più alta espressione nelle beatitudini evangeliche. La convergenza di queste due immagini di povertà ne delinea una terza, in cui va riconosciuto il volto specifico della povertà cristiana: sulla scia di Cristo assumere l’esistenza povera come espressione di un duplice movimento intenzionale: solidarietà con i poveri e protesta contro la povertà. Nessuna mistica della povertà, dunque; ma una mistica dell’amore attraverso la povertà.

Ed è unicamente al servizio di quest’amore che la teologia della liberazione si pensa e si esercita. Le parole con cui il libro di Gutiérrez conclude meritano di essere riportate: «Tutte le teologie politiche della speranza, della liberazione, della rivoluzione, non valgono un gesto di solidarietà autentica con gli uomini, con le classi e con i popoli oppressi. Non valgono un atto di fede, di carità e di speranza, che si pone nella partecipazione attiva per liberare l’uomo da tutto quanto lo disumanizza e gli impedisce di vivere secondo la volontà del Signore».

Armido Rizzi

L’oro del Perù: la solidarietà dei poveri, EMI, Bologna 1984, pp.111-120



Lunedì, 12 febbraio 2007