Firenze 2 - sei febbraio 2010
Resoconto dell'assemblea e i documenti presentati

a cura della Redazione

Sabato sei febbraio si è svolto a Firenze presso la Parrocchia di S. Stefano in Pane il convegno dal titolo “Firenze 2: Il Vangelo ci libera, e non la legge”. A differenza del convegno svolto lo scorso anno, il 16 maggio sempre nello stesso luogo, quest’anno la presenza era molto meno numerosa, meno della metà dei partecipanti della prima edizione, poco meno di 150 persone provenienti da varie regioni italiane. In comune con la prima edizione l’età media molto elevata dei partecipanti formata da persone provenienti in gran parte da alcune comunità di base, come quella di San Paolo di Roma, o di movimenti come “Noi Siamo Chiesa”, o da associazioni come “Chicco di Senape” di Torino, o da riviste come Koinonia, con in più qualche significativa presenza come quella di don Gianfranco Bottoni di Milano, collaboratore del cardinale Tettamanzi.
La mattinata è stata caratterizzata dalle relazioni di Pino Ruggirei, che ha parlato sul tema “Oltre il demonio dell’etica: il Padre di Gesù”; da quella di Romano Penna, che ha parlato sul tema: “Il Vangelo fine della legge: Gesù e Paolo”. Le due relazioni sono state precedute da una introduzione di Paolo Giannoni che ha voluto sottolineare come in questa seconda edizione gli organizzatori hanno pensato di “non insistere sulla via della contestazione e di seguire la via faticosa ricercare e di offrire una via di indicazioni positive per una presenza di chiesa come segno e continuazione di “Cristo-vangelo”.
Nel pomeriggio ci sono state prima due testimonianze di esperienze ecclesiali a cui sono seguite le relazioni di Maria Cristina Bartolomei e Italo De Sandre. A cui è seguito un vivace dibattito a cui hanno partecipato fra gli altri Vittorio Bellavite di Noi Siamo Chiesa, Marcello Vigli, delle Comunità di Base, Luca Kocci di Adista, Luciano Guerzoni, Enrico Peyretti, Giovanni Sarubbi, direttore del nostro sito, una rappresentante di Chicco di Senape. Il dibattito è sembrato per certi versi un parlarsi fra sordi in cui ognuno ha teso a rimarcare la propria posizione e a dichiarare la propria disponibilità a proseguire in questi incontri anche su più giorni (come ha fatto Noi Siamo Chiesa, le Comunità di Base o Adista) accogliendo la proposta fatta da Giannoni nella introduzione. Il nostro direttore ha posto l’esigenza di un chiarimento netto sugli obiettivi che questi incontri si prefigurano chiedendo esplicitamente se il punto di riferimento degli organizzatori fosse l’esperienza della Chiesa Confessante di Bohneffer.
Il dibattito è poi stato concluso da Paolo Giannoni, che non ha risposto dettagliatamente alle questioni poste nel dibattito, ma che ha puntato tutto il suo intervento sulla riproposizione della “mistagogia” quale futuro della chiesa che, secondo lui, “o sarà mistagogica o non sarà più chiesa”. Di seguito riportiamo le relazioni fatte.

I documenti

 Vedi anche il sito: http://www.statusecclesiae.net/

INTRODUZIONE
di Paolo Giannoni
 
Nella prima convocazione (16 maggio 20091, "Firenze uno") presso i locali di questa parrocchia (e di nuovo ne ringraziamo i preti e il consiglio pastorale) abbiamo voluto affrontare il disagio' che tutti viviamo nella attuale situazione della nostra chiesa. Ma nello stesso tempo abbiamo proposto di a) non insistere sulla via della contestazione e b) di seguire la via faticosa di cercare e di offrire una via di indicazioni positive per una presenza di chiesa come segno e continuazione di Cristo-vangelo?
Abbiamo così inteso affiancare a una critica che stimiamo una forma di appassionata partecipazione ecclesiale, il percorso austero di una presa di coscienza come base di una prospettiva in positivo, che non si pone con intento alternativo ma come offerta per una chiarificazione del compito che spetta alla chiesa di oggi. Se in "Firenze uno", abbiamo aperto una prospettiva che partiva dall'assunzione della carne, oggi vogliamo accogliere la luce che viene dal tema di Cristo fine della legge,con le proposte di Romano Penna e Giuseppe Ruggieri.
Nel primo incontro abbiamo accolto e offerto un resoconto delle molte proposte che sono nate da gruppi, comunità,  parrocchie e singoli per un intento di cammino comune (quello che ecclesialmente si chiama metodo "sinodale"). Esse esprimevano le diverse visioni sui modi autentici di essere chiesa nel presente. Il dialogo è continuato, e anche se oggi non è previsto un resoconto, quanto tuttavia verrà proposto nasce dalla considerazione di tutto quanto è pervenuto come contributo per "Firenze due". E siamo grati sia a coloro che dissentono dalla proposta che seguiamo ma che fraternamente hanno voluto essere presenti, sia alla maggioranza che è d'accordo sulla linea scelta e che ha dato suggerimenti di notevole importanza, anche per avviare una sempre più vasta rete con diverse linee che vogliono in positivo collaborare veruna presenza autentica della chiesa. Le diversità non sono alterazioni ma ricchezze da cogliere e da congiungere insieme. Una coscienza del mistero della chiesa sa che non è retorica, ma verità la convinzione che "sono più le cose che ci uniscono [la grazia] di quelle che ci dividono[la "confusione" umana]" (Gaudium et spes 92). Un segno sono le due voci-testimonianze, alle quali seguirà il resoconto di un incontro seminariale sulla necessità di una intensificazione della comunicazione in una stagione complessa come quella attuale (lo riporterà Maria Cristina Bartolomei e con dispiacere registriamo la forzata assenza di Italo De Sandre che è in convalescenza e che salutiamo con affetto grato).
Come la prima volta anche nel secondo incontro lasciamo uno spazio per il contributo delle voci che reagiranno alla relazione biblica e alla relazione teologica di Giuseppe Ruggirei, come dopo la relazione sul seminario. Purtroppo i tempi sono stretti e non possiamo dare un tempo esteso ad ogni intervento Questo, insieme alla ricchezza dei temi presentati e indicati, e dopo la sollecitazione per il coordinamento con altre proposte, chiede che dopo questi due incontri orientativi si realizzi un convegno di più giorni, nel quale sia possibile una partecipazione estesamente"sinodale". Esso darebbe spazio e possibilità di un discorso più ampio, più articolato e più partecipato che si manifesta necessario e che è nell'intento sinodale che guida questa iniziativa.
Fra la sessione mattutina e quella pomeridiana è proposto uno spazio di preghiera (che per i lavori di restauro in corso non potrà essere tenuto nella vicina chiesa e quindi rimarremo qui in sala). Alla preghiera può essere congiunto un gesto di austerità che esclude la possibilità di un "cestino"per il pranzo, come è stato offerto nel primo incontro. E' un piccolo segno che trasforma la contestazione in una forma penitenziale, che intende assumere la propria corresponsabilità nel peccato di noi-chiesa.
Abbiamo premesso in apertura il vangelo delle nozze di Cana, perché la sua luce possa impostare questa convocazione.
Siamo partiti col voler affrontare il disagio che tutti viviamo nella nostra chiesa, ma abbiamo scelto di non stare a contestare il vino scadente e perfino gli otri vuoti. Abbiamo inteso seguire la via difficile di offrire a Dio la povertà della nostra acqua insieme alla fede, che in tutti i "segni" è la necessaria congiunzione della povertà umana con la potenza di Dio. Così vogliamo essere chiesa, la comunità che agisce come Maria, la quale anche a Cana è la6 "symbàllousa" (Lc 2,19), "colei-che-mette-insieme" la carne e il Verbo, la mancanza del vino della gioia e della festa del Regno con colui che è l'adempimento delle promesse (Lc 4,21). Non è una pretesa orgogliosa ma il semplice servizio che ci viene chiesto e che abbiamo da compiere come chiesa.
Per impostare bene questo intento e dovere era necessario stabilire alcune coordinate. Piuttosto che obbedire a una generosità svelta si è preferito seguire il percorso austero di una presa di coscienza (Firenze 1 ) e di una chiarificazione del compito (Firenze 2). La serietà dei temi e dei relatori non vuole essere un paludamento teorizzante, ma la necessaria motivazione nella speranza che in questo modo si dia la efficacia di una piattaforma per una partecipazione attiva,"sinodale", di cammino insieme. Non è una presunzione, ma una convinzione motivata che per cogliere la vivezza dei particolari reali occorra un inquadramento che non pretende di definire, cioè di confinare il reale, ma di impostare una ipotesi di interpretazione, pronti a "gettar via la scala dopo che vi siamo saliti" (così suggerisce la sapienza di Wittgenstein).
 
 
IL VANGELO, FINE DELLA LEGGE: GESÙ E PAOLO
sintesi dell'intervento di Romano Penna
 
1.       Il concetto giudaico (non greco) di Legge di Dio. Sua variegazione: distinguere l'attuale giudaismo rabbinico (cf. Fromm, Neusner) dal giudaismo cosiddetto del Secondo Tempio (posizioni varie: cfr. Qumran).
2.       La posizione di Gesù. Precisazione metodologica sull'accessibilità al Gesù storico. Mt (cfr. 5,18-19) è un vangelo giudeo-cristiano (cfr. Ebioniti in Ireneo). Gesù non teorizza la critica alla Legge ma nella pratica si dimostra molto libero nei suoi confronti (esempi).
3.       La posizione di Paolo è certamente quella di un innovatore, ma bisogna distinguere:
 
a) non lo è tanto rispetto a Gesù quanto ai giudeo-cristiani (cfr. Giacomo in At 21,20-21: sono loro che danno di Gesù una interpretazione conservatrice-tradizionalista);
b) Paolo ammette la santità della Legge ma nel contempo anche la sua impotenza ai fini della giustificazione (Rom 7);
e) la sua posizione sulla Legge è connessa con il suo concetto di Peccato come realtà anteriore ai peccati;
d) il punto di partenza della sua critica alla Legge/Torah non è una Torahlogia ma è la cristologia cioè la fede in Cristo (cfr. Sanders);
e) chi regge la comparazione storico-salvifica con Gesù Cristo non è Mosè ma è Abramo (cfr. Gal 3);
f) «Cristo è fine della Legge» (Rom 10,4);
g) Paolo perciò, quando enuncia le sue esortazioni morali, non le fonda su testi legislativi, con la sola eccezione del comandamento dell'amore del prossimo (Gal 2,13; Rom 13,10 = Lev 19,18).
4. È interessante la distinzione propria della tradizione protestante sul triplex usus legis: (a) come principio di
giustificazione è ormai superata, (b) come mezzo per conoscere la propria debolezza ha una funzione
preparatoria, (c) come semplice norma per la vita cristiana (= non «Heilsweg», ma «Lebensnorm») può essere
seguita. Ma in quest'ultimo caso bisogna tuttavia accogliere la distinzione patristica (che però è appunto
cristiana, non giudaica) tra precetti rituali (negati) e precetti morali (sempre validi).

 

 

 

 
Giuseppe Ruggieri
Oltre il demone dell’etica: il Padre di Gesù
Firenze, 6 febbraio 2010
1. Collocazione

Prima di affrontare direttamente il tema, lasciatemi dire la mia impressione sullo scambio che si è avuto in risposta alla lettera del gruppo promotore e in preparazione a questo incontro, a cominciare dai firmatari della “Lettera alla chiesa fiorentina” fino ai gruppi di “Noi siamo chiesa”, fino alla comunità S. Paolo di Roma, al gruppo di Modica e di Messina e fino alle singole persone, alcune decisamente critiche, altre critiche e positive al tempo stesso, altre ancora decisamente positive, rispetto al tema e allo stile del nostro incontro.
         Mi pare che siano emerse due tendenze principali: la prima, critica rispetto all’impostazione della giornata, perché essa somiglierebbe piuttosto ad un colloquio più o meno dotto, guidato dall’alto, anziché a luogo di risonanza dei vari attori ecclesiali, dal basso, dove essi possano esprimere il loro disagio; l’altra, spesso non alternativa ma combinata con la prima, di apprezzamento positivo per il tema scelto, perché effettivamente centrale. Vorrei dire che posso essere d’accordo, non solo con i secondi (e questo è ovvio, avendo partecipato in maniera determinante alla scelta del tema), ma anche con i primi. Il gruppo di Messina osservava come “l’iniziativa di quest’anno mentre è orientata a dare ascolto alle diverse esperienze e sensibilità espresse dai gruppi e comunità di cristiani, dal basso, finisca per riportare al centro - che non è chiaro da chi e come sia costituito – l’azione di sintesi e quella di prospettiva che ci vuol dare.” Il rischio a mio avviso non si può negare ed è reale e va dichiarato.
         Lascio al pomeriggio, allo scambio dopo la relazione Bartolomei – De Sandre, l’approfondimento di queste istanze e del metodo che abbiamo proposto che è quello sinodale, che va compreso in tutto il suo rigore. Ma permettetemi di esprimere con altrettanta chiarezza un altro punto di vista e cioè che, nella discussione che abbiamo condotto fino adesso, mi è sembrato assente il vero tema del nostro incontro. A mio avviso infatti, prima ancora di parlare di chiesa e di disagio, dobbiamo parlare d’altro perché, se non parliamo di quest’altro, tutto il resto mi sembra ovvio e ultimamente sterile.
         Io non solo sento altrettanto disagio, come quello che hanno ad esempio espresso gli amici della Lettera alla chiesa fiorentina e di coloro che si riconoscono nel gruppo di “Noi siamo chiesa”, nei confronti delle scelte dei vertici ecclesiastici, ma a volte persino sdegno e rifiuto (per es. riguardo al modo in cui è stata gestita la questione anglicana). Ma sono consapevole che limitarsi a gridare il disagio e lo sdegno, alla lunga, non porta da nessuna parte, non costruisce niente. Parto sempre dal presupposto che la chiesa sia stata sempre, secondo i termini usati da Origene, la "casa di Rahab", salvata tuttavia dal sangue di Cristo (nel vocabolario italiano c'è tutto un lessico che traduce l'espressione pudica del teologo alessandrino; Dante avrebbe tranquillamente parlato di “bordello”). Il credo cattolico ci impone questa consapevolezza: noi crediamo che questa chiesa sia opera dello Spirito nonostante i suoi peccati e le sue infedeltà. Non crediamo alla chiesa, come invece crediamo al Padre, al Figlio, allo Spirito. Ma crediamo che la chiesa sia strumento, luogo e segno dove lo Spirito continua a operare la memoria efficace del Cristo. Per il resto vivremo sempre dentro la casa di Rahab. La chiesa che emerge dalle lettere di Paolo ai Corinzi, non è migliore dalla nostra. Ma il peccato, quello mio e quello degli altri, deve essere sop-portato sulle nostre spalle con il sentire in grande di Dio. Occorre caricarsi di tutto - soprusi ecclesiastici e lamenti indignati –  ma vibrando in sintonia con il vangelo del Regno, stando davanti al Dio di Gesù Cristo, abitando un luogo che nessuno ci deve strappare, anzi che nessuno ci può strappare se stiamo saldi nella fede, e dal quale guardare con affetto e misericordia non solo alla nostra umanità e all’uomo peccatore, ma anche a quella prostituta casta che è la chiesa. Il problema è allora un altro e si chiama Dio: Dio a cui piace così, Dio che ha scelto le cose inferme di questo mondo per confondere i forti e i sapienti e far risplendere la sua grazia.
Tutta la grazia che ci è stata data nel concilio, ma anche attraverso i testimoni di Dio che sono apparsi nel secolo passato: da Barth a Bonhoeffer, da Teresa di Lisieux a Simone Weil, da Charles de Foucauld a papa Giovanni, tutta questa grazia ruota attorno al volto del Dio Padre di Gesù e Padre Nostro. L’argomento del nostro incontro in tal senso non è nemmeno quello dell’etica cristiana, ma quello del vangelo che annuncia questo Dio e della perenne giovinezza di questo annuncio. Il nostro problema cioè non è né ecclesiale, né etico, ma è strettamente teologico, riguarda Dio, il suo nome, e la possibilità per noi e per questa chiesa di invocare e di pronunciare il nome di Dio, perché Dio faccia risplendere su di noi il suo volto vero che, nel linguaggio biblico, è quello del Padre e della Madre in uno. Davanti alle debolezze dei vertici ecclesiastici e di noi tutti, l’atteggiamento è quello di ritornare tutti al mistero di Dio, radicandoci ancora più profondamente in esso. Solo così, davanti a lui, è possibile purificare i nostri sentimenti e intendere la Parola del Signore nella storia che viviamo.
2. Prima e al di là della conoscenza del bene e del male
         Ma vediamo di contemplare più da vicino questo volto di Dio, leggendo semplicemente alcuni brani del discorso della montagna in Matteo: “Avete inteso che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio … Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre nostro celeste.”
         Chi è allora questo Dio a cui Gesù dà soltanto il nome di Padre? Come è mai possibile che egli ci dica di non opporci al malvagio? Per comprenderlo occorre che abbandoniamo il piano dei concetti. Perché Dio non è un concetto, non è nemmeno il concetto più alto che possiamo formulare. Dio infatti non è in nessuno dei nostri concetti. Ce lo dice persino Anselmo quando nel suo Proslogion comprende che  il problema di Dio non è quello del concetto più alto che sia possibile all’uomo, ma di Qualcuno che è più grande di ogni concetto possibile, che è al di là dei concetti.
         Noi possiamo stare davanti a Dio solo se abbandoniamo ogni pretesa, fosse pure quella di conoscerlo. Per stare davanti a lui non è nemmeno necessario pensare a lui, ma invece occorre abitare dove Gesù ci ha detto che lui abita, laddove un uomo, una donna, un bambino invocano aiuto e salvezza, sia che abbiano fame, sia che siano in carcere, sia che giacciano vittime della violenza ai margini di una strada, sia che siano oppressi dai violenti di turno. Coloro che si sono collocati in quel luogo non sapevano di aver incontrato Dio (Mt 25, 37-39). In quel luogo non ha senso porre persino la domanda sulla dignità morale o religiosa di tutti costoro, perché, come dice Giobbe, con una delle sue parole più grandi (6, 14), all’uomo sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se si fosse allontanato al timor di Dio.
         Pronunciare il nome di Dio – e la chiesa è chiamata soprattutto a questo – in maniera tale che Dio non sia nominato invano è quindi possibile, così come ha fatto Gesù, solo a partire dalla sua presenza, ovunque egli la ponga (e le guide stradali per andarci ci sono tutte e si trovano nel magazzino delle Beatitudini) e dall’esperienza di questa presenza. Per questo Dio non è nemmeno presente alla fine della conoscenza del bene e del male, per quanto alta e raffinata questa conoscenza possa essere. Bisogna rileggere a questo proposito le splendide pagine che alla conoscenza del bene e del male dedica Bonhoeffer nella sua Etica. È il fariseo l’uomo che conosce il bene e il male e che imposta il suo rapporto con Dio a partire da questa conoscenza, ma proprio per questo resta preda della divisione e non riesce a porsi sul piano di Dio, quello in cui vive Gesù, quello della riconciliazione, dell’amore, della comunione originaria. “Il fariseo è quell’uomo veramente ammirevole, che subordina tutta la sua vita alla propria conoscenza del bene e del male e che è giudice non meno severo di se stesso che del prossimo – a onore di Dio, a cui va umilmente la sua gratitudine per tale conoscenza. … Così anche di fronte a Gesù cercano – senza poterne fare a meno – di trascinarlo nel conflitto, nella divisione, per vedere come egli sappia reagirvi. Basta leggere il capitolo 22 di Matteo con le questioni del tributo, della risurrezione dei morti, del comandamento più grande, inoltre la parabola del buon samaritano (Lc 10, 25: un dottore della legge … tentò: sottolineato da Bonhoeffer nel suo  Nestle) e le discussioni sulla santificazione del sabato (Mt 12, 1ss) per avere questa netta impressione … Come la domanda e la tentazione dei farisei provengono dalla divisione provocata dalla conoscenza del bene e del male, così la risposta di Gesù scaturisce dall’unità con Dio, con l’origine, dal supermento della divisione dell’uomo da Dio. I farisei e Gesù parlano su piani completamente diversi.” (Etica, Brescia 1995, 272-273).
Persino nei confronti del malvagio, dell’ingiusto, il Padre non smette di amare, non smette di far piovere su di lui e far fruttificare i suoi campi, esattamente come fa per i campi del giusto. Dio non conosce divisione, perché è l’uomo che la pone. Solo così possiamo comprendere i dati centrali del NT e cioè che Dio dimostra il suo amore per noi perché Cristo è morto per noi, mentre noi eravamo ancora peccatori (Rom 5,8) o che Gesù possa sedere a tavola con i peccatori. Chi volesse comprendere queste pagine dando fiato al registro morale – così come facevano i farisei  davanti a Gesù – non si accosterebbe alla realtà di Dio, resterebbe lontano da lui.
L’esperienza fondamentale di Paolo, così come è stata descritta da lui stesso nel cap. 3 della lettera ai Filippesi fu proprio questa. Quando, attraverso la conoscenza di Cristo, egli sperimentò la misericordia di Dio, il suo amore che è quello delle viscere di una madre per il proprio figlio – giusto o ingiusto che egli sia, giudeo o gentile – allora egli ritenne skybala, roba da gettare ai cani, sterco, la giustizia che deriva dalla legge e dalla conoscenza della legge. Allora, come farà ancora al cap. 8 della lettera ai Romani, dirà che il senso della storia è syn-paschein, giacere assieme a Cristo nelle doglie della creazione sottomessa contro voglia alla caducità e in attesa di liberazione.
3. Il carattere demoniaco dell’etica
Nel titolo di questa mia relazione c’è una paroletta che ho voluto testardamente mantenere nonostante le obiezioni: oltre il “demone” dell’etica. E l’ho voluta mantenere nella piena consapevolezza di correre il rischio di trarre in inganno, giacché il termine può essere inteso nel suo senso più facile, quasi che l’etica sia frutto del demonio, dell’avversario dell’uomo e di Dio. Avrei potuto scrivere, invece di “demoniaco”, “divino”. Ma allora avrei corso un altro rischio, per me ancora più grave, che è quello di perdere un significato che ritengo fondamentale per afferrare il senso e il destino della tendenza dell’uomo al bene.
L’uomo “naturalmente” tende al bene e rifugge dal male. Storicamente questa tendenza si concretizza tuttavia e diventa effettiva attraverso l’identificazione di ciò che è bene e di ciò che è male, non per deduzione dalla massima astratta, ma in simbiosi col costume, che è anche luogo della maturazione delle coscienze o della loro obnubilazione. Infatti la massima secondo cui bisogna fare il bene ed evitare il male è ancora come tale indeterminata. Davanti a circostanze che ancora non sono state sufficientemente elaborate dalla coscienza collettiva, essa stenta a prendere forma. La cronaca del nostro tempo ci ha messo davanti a problemi terribili: è bene o male mantenere artificialmente in vita una persona il cui cervello è ormai distrutto ed è ridotta quindi allo stato vegetativo? Non entro nei dettagli di questo problema angoscioso, soprattutto per chi c’è dentro, mentre politici, teologi e filistei di ogni genere vi disputano sopra. Ma, in maniera più generale, per intendere la simbiosi tra etica e costume, pensate semplicemente al fatto per cui le chiese hanno tollerato persino la schiavitù lungo intere epoche della storia, senza aver la forza di reagire. Quando hanno preso coscienza della contraddizione, hanno reagito. Ma questa presa di coscienza, non è immediata.
Una cosa invece mi preme sottolineare. Ed è il fatto che da sempre la conoscenza del bene e del male è stata legata a Dio. E questo non in astratto, ma in concreto. Porto l’esempio più terribile, che è presente nella Bibbia, oltre che in tante tradizioni religiose dell’antichità, in due racconti opposti anche se simili, nell’episodio del sacrificio di Isacco e nell’episodio di Jefte: ambedue hanno al loro centro il sacrificio di un innocente per volere di Dio. Sia Abramo che Jefte pensavano che potesse essere volontà di il sacrificio di un bambino. Ciò è per noi ovviamente impossibile anche solo da pensare. L’episodio di Isacco è noto a tutti e forse nell’autore del racconto non è assente un’intenzione polemica verso l’usanza “religiosa” del sacrificio di bambini. Nel libro dei Giudici inoltre leggiamo che dopo aver ricevuto lo Spirito di Dio per liberare il popolo, Jefte emette un voto: se avrà ragione degli Ammoniti nemici di Israele sacrificherà a Dio “chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro”. Sarà quindi la figlia bambina ad essere sacrificata per ottemperare al voto. Nel racconto non affiora nessun biasimo per il gesto di Jefte, ma l’accento è sulla fedeltà al voto che aveva fatto.
La scelta di ciò che va fatto e perseguito come bene, e la quale storicamente è legata ai valori condivisi di una determinata società e dà origine ad un costume o dipende da esso, nella coscienza dell’uomo ha sempre un suo legame con il divino e da qui deriva il suo carattere di costrizione. Eraclito per questo ha scritto che “L’ethos è demone all’uomo” (fr. 119). In qualunque modo si traduca il termine ethos: costume, abitudine, dimora (Heidegger), carattere (Pasquinelli), è certo che Eraclito coglie perfettamente l’ancoraggio costitutivo del costume umano al divino. L’uomo non può non fondare la scelta del bene da fare, e del male da evitare, in qualcosa che lo sovrasta come una massima non disponibile (vedi lo stesso Kant, in La religione entro i limiti della sola ragione). Potremmo interpretare in questo senso la tentazione del primo uomo e di ogni uomo: conoscere il bene e il male significa diventare come Dio.
È questo il senso ultimo della “legge”, del nomos. Essa “costringe” l’uomo proprio per il suo carattere divino. Quando cioè la tendenza al bene si tramuta, nella concretezza della storia e dell’esistenza, in prescrizione, in legge, essa obbliga l’uomo e lo costringe dentro confini precisi, per cui chiunque e tutto ciò che sta al di fuori di questi confini diventa maledetto, nemico. La “costrizione” della legge non è cioè solo obbligazione, ma inseparabilmente e al tempo stesso, confinamento, divisione. È questo il carattere demoniaco dell’ethos. Allora l’umanità si divide in due campi avversi. Allora ci sono i fratelli da una parte e gli estranei o nemici dall’altra. Allora gli uomini lottano per il proprio dio, contro un altro dio e i suoi seguaci, fino ad annientare per ordine di dio tutto ciò che nel campo avversario vive (è questo il senso dello herem biblico).
L’amore di Dio non è giustificazione del male, che quindi va detto e chiamato per nome, ma è altro dalla divisione introdotta dalla conoscenza del bene e del male, è rifiuto della dannazione (non giudicate per non essere giudicati), è realtà che eccede qualsiasi legge, anche quella sacra, non perché più grande della legge, ma perché altro rispetto ad essa. Esso è compassione con l’uomo sfinito anche quando costui si è allontanato dal timore di Dio, è festa e danza dentro cui l’uomo che vive della propria giustizia, ma non della giustizia del Padre, non ha il coraggio di entrare (Lc 15, 25-32).
Proprio l’ultimo riferimento, quello della parabola di Luca sul figlio ritrovato, ci dice però due cose che riguardano il carattere demoniaco dell’etica nella sua concretizzazione in legge: la prescrizione, per quanto sacrosanta, non può perimetrare né il mistero di Dio né il mistero dell’uomo.
Il discorso, a dire il vero, riguarda ogni prescrizione, ogni definizione. I medievali, che erano molto più attenti di noi al mistero, applicavano questo principio anche alle definizioni di fede. Per essi l’articolo di fede, cioè la formulazione di una verità riguardante Dio, conteneva e  permetteva una percezione effettiva della verità che è Dio, ma solo come indicazione, non come confine: perceptio divinae veritatis tendens in ipsam. Anche il dogma, qualora perimetrasse Dio, ci allontanerebbe da lui.
Ma questo vale anche dell’uomo. Il mistero dell’uomo non è racchiuso dentro le sue scelte morali, di qualunque segno esse siano. L’orizzonte della prescrizione oscura il nostro sguardo, filtra e deforma il volto dell’altro. Gesù, che guardava i volti degli uomini e delle donne con occhio puro, dice ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo che i pubblicani e le prostitute “passano” (già al presente, non al futuro) loro avanti nel regno di Dio (Mt 21, 31). E il cristiano, e ancora di più la chiesa tutta, proprio in quanto chiamati a guardare gli altri “in Cristo” (la formula paolina!), non possono avere giustificazione alcuna per fermarsi alla perimetrazione etica del prossimo. Occorre guardare con un’altra prospettiva, occorre guardare l’altro con lo sguardo stesso di Dio.
4. Adorare Dio, il Santo, di fronte all’altro
         Quando l’autore della prima lettera di Pietro, esorta i cristiani al giusto comportamento davanti ai tribunali pagani, perché siano sempre pronti a difendere le ragioni della loro speranza, lo fa, con una reminiscenza di Is 8, 13, incitandoli alla santificazione del Signore nei loro cuori: “Santificate il Signore, il Cristo, nei vostri cuori, stando sempre pronti alla difesa davanti a coloro che vi chiedono le ragioni della speranza che alberga in voi.” (1 Pt 3,15) Isaia, quando fu preso per mano dal Signore per non seguire la via del popolo infedele, era stato infatti esortato a ritenere Santo solo il Signore delle schiere celesti.
         Per lo più, quando si cita quel brano della lettera di Pietro, si omette di citare quello che è l’elemento portante dell’esortazione: la santificazione del nome del Signore, il riconoscimento della santità di Dio apparsa sul volto di Cristo Gesù. Come dicevamo l’amore che Dio ci ha mostrato non è una qualità morale, ma l’essere stesso di Dio, la sua santità. Riconoscere Dio, la sua santità, adorarlo nei nostri cuori, significa riconoscere la trascendenza assoluta del suo amore, non costringerlo nella prescrizione anche la più santa. Per questo l’esortazione di Pietro indica, come stile della difesa della speranza cristiana, la dolcezza e il timore rispettoso (metà praüthetos kai phobou).
A mio avviso, un esempio luminoso delle conseguenze pratiche, di questo atteggiamento fondamentale è costituito dal cap. 18 di Matteo. Nel caso di uno che ha peccato (“contro di te”, al v. 15, è una lezione dubbia) la comunità matteana aveva adottato una disciplina che echeggiava la prassi della scomunica esistente in alcuni rami del giudaismo. I paralleli con Qumran, nonostante tutto, si impongono. Comunque il giudizio finale della comunità, di trattare il peccatore recidivo come “pagano e pubblicano” oggettivamente non può essere fatto risalire a Gesù. Ha ragione Luz, nel suo commento al capitolo, concludendo la sua analisi con la costatazione che forse Matteo non è venuto completamente a capo della contraddizione. Comunque Matteo ha giustapposto semplicemente alla prassi della comunità, per un verso la certezza che il Cristo rimane in mezzo ad essa, soprattutto quando c’è un accordo per chiedere a Dio qualcosa, e per altro verso il comandamento del perdono illimitato e la parabola del servo spietato che avendo avuto rimesso il proprio debito dal padrone, poi è incapace di rimettere un debito più piccolo ai propri colleghi.
         Nella difficoltà di venire a capo di certe situazioni, come nel caso del peccatore che continua a rifiutare la prescrizione della comunità, ecco la lezione di Matteo, la chiesa non può dimenticare di riconoscere la santità del dono ricevuto, che è la misericordia di Dio. La prescrizione della comunità non ha chiuso il discorso, non ha perimetrato il rapporto tra Dio e l’uomo. È il potere di legare e sciogliere enunciato al v. 18, che invece viene perimetrato dal complesso discorso di Matteo.
         Non sono stato presente al seminario di Milano, i cui risultati ascolteremo questo pomeriggio. Ho letto solo gli appunti dei partecipanti e letto il testo della relazione di Italo De Sandre, sulla necessità per la chiesa di non separare la comunicazione dei suoi messaggi dalla complessità dell’intercomunicazione, la quale implica il riconoscimento dei vari centri di elaborazione della conoscenza e non può ridursi a comunicazione unidirezionale. Non posso che essere d’accordo con lui. Al n. 44 della Gaudium et spes i padri conciliari ci hanno ricordato che la chiesa non deve ignorare quanto essa ha ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano. Ma al tempo stesso occorre mantenere vivo, almeno per la chiesa, il principio di complessità anche verso l’alto, verso l’adorazione e la santificazione del nome di Dio e del suo amore. Il rischio più grande per la chiesa è l’identificazione, la tentazione di costringere Dio nella prescrizione, quando invece va adorata sempre e soprattutto la santità del suo amore per l’uomo.

A rischio di apparire uno spiritualista ingenuo, credo che oggi il problema più importante in tanta difficoltà del dialogo all’interno della chiesa sia quello del diritto di Dio e non dei nostri diritti o di quelli dell’autorità ecclesiastica. Giacché solo nella comune adorazione del mistero che ci sovrasta nel momento stesso in cui ci accarezza e ci abbraccia, solo riconoscendo l’autorità della giustizia di Dio – che è la sua misericordia - e non della nostra, possiamo trasformare i nostri conflitti in sinfonia spirituale, le nostre assemblee in sinodi, il che vuol dire che rendiamo presente la chiesa (re-praesentatio ecclesiae). E questa capacità di rappresentare la chiesa deriva, stando alla grande Tradizione della chiesa stessa, dal Cristo attualmente operante quando due o tre si riuniscono nel suo nome. E ancora: questa presenza , della sua santità e del suo amore,operante del Cristo è resa possibile a sua volta solo perché una riunione ecclesiale è sotto l’assistenza operante dello Spirito. Precisando tuttavia sempre che il “radunati nel mio nome” di Matteo (19-20: “E in verità vi dico anche: se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli; poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”), non è fatto nominalistico, ma evento di adorazione del nome di Dio, invocazione della sua santità, attraverso il riconoscimento del proprio peccato. Per capire cos’è un sinodo, occorre soprattutto, che recitiamo l’Adsumus, la preghiera che tradizionalmente lo introduce, forse la preghiera più alta che la chiesa abbia mai redatto.
5. L’urgenza storica dell’etica
         Perché oggi parliamo tanto di etica? Perché la stessa chiesa cattolica sembra oggi dominata dalle problematiche morali? Perché è tornato di moda il moralismo e i moralisti, sia nel cosiddetto mondo laico che nella chiesa, con un’intensità che forse solo nel Settecento – ma non nella chiesa che scopre invece i problemi nell’Ottocento – è stata avvertita?
         I motivi vanno fatti risalire a due ordini di fenomeni. In primo luogo si tratta delle nuove possibilità offerte dallo sviluppo delle scienze che permettono un dominio inedito dell’uomo sul proprio corpo, non solo a scopo terapeutico, ma soprattutto nel controllo dei processi legati alla procreazione e, soglia mai prima oltrepassata, nella stessa ingegneria genetica. Nel passato gli uomini distinguevano tra natura e storia, riservando solo questa al campo della libertà. Oggi la differenza si dissolve e la natura sta per entrare nella storia fatta dall’uomo. Di fronte agli abissi che si spalancano ci troviamo senza difese. Conoscere il bene e il male, scegliere il bene e rifiutare il male, diventa questione di vita o di morte per noi  e per i nostri figli,  e non soltanto di questione di moralità.
  Accanto a questo primo ordine di fenomeni, qui solo evocato in maniera allusiva, ne esiste un altro che spiega soprattutto l’interesse predominante del magistero ecclesiastico al problema etico nel nostro tempo. Nonostante l’ambiguità del termine usato e la sua oscurità, siamo entrati, almeno in Occidente, in un’epoca post-secolarizzata. Le società secolarizzate avevano raggiunto un loro equilibrio nel campo dell’etica pubblica, dei valori da far valere sotto l’egida della legge. Questo equilibrio era frutto delle guerre di religione e non a caso il suo primo, compiuto, teorizzatore fu John Locke, nel declino del Seicento inglese. Lo Stato, fermo restando il nucleo di valori necessari alla convivenza ordinata dei cittadini, è incompetente di fronte alla diversità dei culti presenti all’interno dei propri confini e delle convinzioni attorno a cui essi si costituiscono come libere associazioni. Questo equilibrio, tra un’etica pubblica garantita dallo Stato e le altre convinzioni religiose e morali, consolidatosi in Europa attaverso l’esportazione della Rivoluzione francese, fu dapprima avversato dalla chiesa cattolica, soprattutto attraverso l’elaborazione del diritto pubblico ecclesiastico nell’Ottocento. La chiesa infatti rivendicò una competenza nella fissazione dei valori che interessano la vita civile: essa non è depositaria solo della conoscenza del fine ultimo soprannaturale dell’uomo e dei mezzi per raggiungerlo, ma altresì della conoscenza dell’ordine naturale della realtà e quindi vigila, per un mandato ricevuto nella rivelazione stessa sulla cui base essa si costituisce, perché questo non sia leso. Il contrasto fu, in linea di principio chiuso con il Vaticano II, attraverso la Dichiarazione sulla libertà religiosa, nella misura in cui la chiesa riconobbe il diritto della coscienza, anche errata, e il dovere dello Stato, nei limiti della salvaguardia del bene comune, di rispettare questo diritto.
Nei fatti la chiesa non ha mai cessato tuttavia di far valere la propria pretesa soprattutto in quei paesi nei quali l’opinione pubblica è fortemente segnata dalla sua presenza (si ricordino in Italia i pronunciamenti dei vescovi in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto, ma si può anche citare il comportamento della chiesa in Spagna etc.).
       Ma la tensione tra etica pubblica e dettati ecclesiastici,  più o meno controllata perché non raggiungesse un grado di calore insostenibile, registra adesso uno squilibrio notevole, nella misura in cui si è modificata la fonte di energia del polo civile-statuale. Il fatto nuovo è determinato dall’evoluzione delle società secolarizzate. Esso, nella letteratura giuridico costituzionale, è stato fissato nel cosiddetto Böckenförde-Diktum del 1967 (Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation): “Lo Stato libertario e secolarizzato vive di presupposti che da se stesso non può garantire.” Il detto di Böckenförde non è un’affermazione di principio, ma è la costatazione di un dato: la frantumazione crescente delle società post-secolarizzate mette alla luce un vuoto a livello statuale, giacché esse non appaiono in grado di generare in misura sufficiente quei valori comuni che fondano qualsiasi patriottismo costituzionale oppure, come diceva il vecchio Rousseau,  quei “sentimenti di sociabilità, senza dei quali sarebbe impossibile essere un buon cittadino o un soggetto fedele. Il sovrano (leggasi oggi: la carta costituzionale) non può obbligare qualcuno a crederli, può tuttavia bandirlo dallo Stato, come incapace di stare in società (= insociable), di amare sinceramente le leggi, la giustizia e di immolare, secondo la bisogna, la propria vita al suo dovere.”
        Non voglio affatto entrare nella discussione sul senso della secolarizzazione, sui suoi sviluppi attuali e via dicendo. Mi limito a dire che la richiesta attuale fatta alle religioni di svolgere la funzione di “religione civile”, di costituirsi cioè in agenzie centrali dei valori che impediscano la frantumazione sociale, non è avanzata anzitutto dalle religioni stesse, ma sorge all’interno della società postsecolare. Le chiese e le centrali religiose oggi cioè intervengono perché chiamate in causa. Che in questa richiesta e nelle conseguente risposta delle chiese e delle religioni ci sia un’eterogenesi di fini è altrettanto vero e forse è proprio questo il nodo dei vari problemi. Se cioè da parte dello Stato non può comunque mai essere messa in discussione la propria totale autonomia, per cui un eventuale apporto esterno va comunque da esso filtrato e controllato, le religioni tendono in forza dell’assolutezza dei propri convincimenti a relativizzare questa autonomia. Proprio quest’eterogenesi di fini impone allora quello che Habermas chiama un mutuo apprendistato.
        Il card. Ratzinger si è più volte cimentato con questo problema.  Nel suo dialogo con Habermas egli sembra affidare l’alimentazione dei valori delle società post-secolarizzate alle cosiddette minoranze creative, dove “laici e cattolici, coloro che credono e coloro che non credono, nel folto intreccio dei rami dell’albero con tanti uccelli, devono andare gli uni incontro agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca, d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati dalla fede cristiana.”

Ma la cronaca di questi anni ci sta mostrando come questa soluzione di fatto non venga perseguita dai vertici ecclesiastici nei suoi termini esatti. Prevale infatti il richiamo autoritario ai principi non negoziabili della legge naturale. E comunque non ritengo che le chiese, almeno nel breve termine, si sottrarranno, davanti ad uno Stato sempre più debole, alla tentazione di riacquistare quella funzione di controllo che hanno elaborato dopo la Rivoluzione francese e che adesso sembra insperatamente diventare possibile e attuale. La via alternativa indicata dal concilio, di un richiamo alla povertà dei mezzi nell’annuncio e nella testimonianza del vangelo, di un abbandono dei privilegi conquistati nel passato, sembra, almeno nel breve termine, abbandonata.

6. Imitare il sentire in grande di Dio
         Cosa fare, in questa congiuntura, da parte di quanti invocano il nome di Dio? I vescovi del Vaticano II, all’inizio della costituzione Lumen gentium, si mostrarono preoccupati di illustrare la natura e la missione universale della chiesa quale sacramento e segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano. Dio infatti, affermano, “in principio creò la natura umana una e volle infine radunare tutti i suoi figli che si erano dispersi”. Per questo motivo il popolo di Dio, radicato in mezzo agli altri popoli, porta con sé il dono dell’universalità e tende alla ricapitolazione di tutta l’umanità in Cristo nell’unità dello Spirito (LG 13).
         La chiesa porta dentro di sé, nel proprio codice genetico, questo impulso all’unità dell’unica famiglia di Dio. Che Simone Weil, pur credendo profondamente in Gesù Cristo, abbia dichiarato di non voler ricevere il battesimo ed entrare così nella chiesa cattolica, per non separarsi dalla massa dei non credenti, mostra soltanto il paradosso e lo scandalo di una chiesa che dà l’impressione di tracciare muri e steccati, anziché essere la patria di ogni uomo e ogni donna.
         Non penso che tutti debbano entrare fisicamente nella chiesa. La ricapitolazione di cui parla il concilio è quella escatologica del Cristo giunto alla piena maturità, ma mi piace contrapporre alle parole di Weil le parole di un operaio del mio quartiere di una volta a Catania, che mi diceva: “Quando la sera torno stanco dal lavoro e passo davanti a casa vostra, sono contento. Non busso e non entro, ma so che ci siete.” Si riferiva al prefabbricato di legno, dove abitavo con il parroco.
         Vedo così l’esistenza della chiesa, della chiesa di sempre. Le resistenze attuali dell’istituzione ecclesiastica, il tentativo di riconquistare secolari ruoli di controllo pubblico, portano, nonostante tutto, i segni del suo disfacimento ma non sono tali da oscurare la vita umile e semplice del popolo di Dio che, attraverso tante testimonianze, comunica la speranza e il desiderio dell’unica famiglia umana. L’unità di questa famiglia non è data dalla prescrizione, ma dall’immagine di Dio in noi, l’Adamo che è dentro noi tutti, che si contempla nel secondo Adamo, Cristo che è evento dell’amore del Padre per tutti e tutti riconcilia con il Padre.
  Un punto di discrimine oggi è certamente questo: dove si gioca la cattolicità della chiesa, la sua capacità di parlare ad ogni uomo e di mostrare dentro di sé la pienezza, la ricapitolazione di ogni suo desiderio? Una conclusione dovrebbe apparire evidente: se interrogato nel suo centro delicato e più intimo, il messaggio cristiano manifesta una sua universalità originale che non è quella di una ritrovata etica comune, ma sta piuttosto nell’energia, nella dynamis dell’amore del Padre per noi peccatori, reso manifesto nella croce, nella sua capacità di riconoscere e dare dignità all’altro, chiunque lui sia, nella capacità di sedere a tavola con i peccatori come segno positivo dell’irruzione del Regno.
Si apre qui lo spazio della figliolanza e della fraternità: diventeremo così figli del Padre che fa piovere sui malvagi e sui buoni. Lo spazio dell’etica, della ricerca di regole più umane, più rispettose della dignità e della persona, non viene svilito, anzi viene riconciliato, condotto a compimento: Cristo è fine e compimento della legge. Dobbiamo ogni giorno faticare con umiltà nella compagnia degli uomini e delle donne che incontriamo per costruire regole più umane di convivenza, di rispetto vicendevole, di conservazione del creato. Ma dobbiamo sempre aver presente il sentire in grande di Dio che non vuole che alcuni periscano, ma che tutti arrivino a conversione. E dobbiamo considerare salvezza questo sentire in grande di Dio (cf. 2 Pt 3, 9.15). Il vangelo quindi è magnanimo nei confronti di questa dimora, questo costume etico, che è carcere dell'uomo diviso, dell'uomo peccatore. Il vangelo è magnanimo nei confronti del cammino etico dell'uomo, non dirime le contese degli uomini: cf. Lc 12, 13ss.).
Il Dio di Gesù Cristo non è infatti, manicheisticamente, il principio del bene opposto al principio del male; e il Nuovo Patto che Dio stringe con gli uomini non è, come pretendevano gli gnostici, l'amore opposto alla legge dell'Antico Patto, ma è l'amore che è "prima" di ogni legge la quale, direbbe Paolo, è provvisoria rispetto alla Promessa. Quest'amore del Padre non viene coinvolto né nel trionfo della legge, né nella sua rovina ad opera della trasgressione. Esso è infatti capace di accogliere il peccatore, colui che trasgredisce la legge: Dio ci ha amato mentre noi eravamo ancora peccatori.
La legge quindi rimane, anzi viene sop-portata nel suo cammino. Per ciò stesso viene messa però in discussione la sua pretesa fondazione, sia pure religiosa. Ma viene messa in discussione con magnanimità, giacché sappiamo, come afferma Paolo a proposito degli idolotiti, che "in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo, sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e signori, per noi c'è un solo Dio , il Padre dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui." (1Cor 8, 5-6). La carne offerta all'idolo, la fondazione religiosa della norma, non è qualcosa che il cristiano debba necessariamente rifiutare. Egli la sopporterà come legge, ma la sopporterà nell'amore del Padre che non vuole che alcuno perisca e perciò sente in grande e vuole che tutti arrivino a conversione.
Il mio discorso non è né vuole essere espressione astuta e contestataria del disagio di tanti nella chiesa, nemmeno del mio. Esso vuole invece essere fedele alla saggezza che ha animato sempre gli uomini di chiesa autentici. Il contesto storico ripropone infatti l’urgenza del nodo (che è quello della riscoperta sempre nuova del vangelo) che si è sempre ripresentato nella chiesa in relazione alle grandi transizioni epocali: quelle che hanno visto il sorgere del monachesimo e quelle che hanno opposto i movimenti ereticali a coloro che hanno cercato di vivere, per usare le espressioni di Francesco, secondo la “forma del santo vangelo” e nella comunione con la “forma della santa chiesa romana” al tempo stesso.
Ma dobbiamo avere il coraggio di questa fede nel santo vangelo di Gesù di Nazaret, che ci impone di sentire in grande, con lo stesso cuore del Padre suo e del Padre nostro. Il problema resta, in primo luogo nella chiesa, la santificazione del nome santo di Dio nei nostri cuori. Il resto è clericalismo e setta.
 
 
 
AFFRONTARE LA COMPLESSITA’: DIALOGO E MONOLOGO
italo de sandre – materiali in bozza non pubblicabili - Milano-Firenze 2009-10
1.         Affrontare o aggirare la complessità.
Per tentare una interpretazione di fatti e parole che vediamo espressi nella chiesa globale e italiana - alcuni dei quali di recente hanno provocato fin imbarazzo - non si può non cercarne la “genealogia”, e allora se ne cercano le tracce nelle decisioni che hanno portato alle strutture e culture religiose di oggi (che costituuiscono anche le radici del futuro possibile). La cronologia proposta alla fine serve a ricordare fatti concreti, sequenze di soggetti, scelte, parole, che hanno contribuito a costruire il sistema di relazioni e di idee, di risorse e di vincoli sociali-religiosi di cui viviamo oggi, segni di quella genealogia che interessa far emergere.
Una stringatissima considerazione epistemologica: dagli anni ’60 nel mondo scientifico si è parlato di complessità, perché si è capito che:
- il cosiddetto ordine ed il contrapposto disordine nella realtà interagiscono,
- questo porta di continuo a ri-costruire riflessivamente (e ricorsivamente) i rapporti con cui si ri-organizzano le persone e le agenzie sociali,
- dà vita ad “organizzazioni” (viste come sistemi autodiretti ma sempre incompleti) che sono sempre di più, e contemporaneamente anche di meno, della somma delle parti, dei soggetti che le compongono (E.Morin).
Complessità della vita del mondo e delle persone che la chiesa in quegli anni ha saputo affrontare con azioni adeguate alla complessità stessa (perché ci sono innovazioni, differenze creative che emergono, e perciò i “giochi” tra i soggetti hanno una somma sempre diversa da zero), evitando di voler ridurre e semplificare autoritariamente le cose (riportando il gioco a somma zero, com’era una volta, quando c’è un solo soggetto che decide, “ordina”, e per gli altri è prevista l’obbedienza).
2.         Coralità vissuta o  dispersa.
In occidente (USA ed Europa), quando si è aperto il Concilio V.II, durante e dopo la guerra si era già avviata la rivoluzione conoscitiva, scientifica e tecnologica contemporanea. La Chiesa con il Concilio ha affrontato e “aggiornato” il proprio sguardo con una metodologia a suo modo complessa, chiamando da tutte le parti del mondo 2500 vescovi, agendo e riflettendo in dialogo, come un “sistema sociale aperto”, che sapeva di dover re-imparare, ri-discernere dopo aver ri-ascoltato.
Il senso della complessità sociale è stato culturalmente condiviso da Paolo VI nelle sue Encicliche sul dialogo nella chiesa e nel mondo e sullo sviluppo dei popoli, ma è rimasto nelle intenzioni nell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, in realtà attivato come modalità consultiva dell’autorità papale e non deliberativa come il Concilio. Ma si è bloccato nel corso della riflessione sulla procreazione responsabile. Il Papa aveva attivato una commissione internazionale di esperti, però – non condividendo l’orientamento maggioritario della commissione, e non ascoltando il parere di altri prelati e conferenze episcopali - ha ritenuto di dover decidere per propria autorità pontificia promulgando nel’68 l’Humanae Vitae, seguendo l’idea tradizionale, autoreferenziale, di natura-bios, e di legge naturale interpretata autoritativamente solo nelle modalità tradizionali della chiesa cattolica. La bio-politica (secondo un’espressione di M.Foucault) ha cominciato ad assumere nel cattolicesimo una centralità che oggi si è ulteriormente radicata, ancora per iniziativa del papa. Fin da subito però, moltissimi fedeli donne e uomini, dopo aver letto l’enciclica e molto discusso, hanno deciso diversamente, secondo quel principio di coscienza e responsabilità personali valorizzato dallo stesso Concilio, facendo emergere una vera e propria delegittimazione etica reciproca (autorità vs fedeli). Una trasformazione silenziosa dell’obbedienza in quanto tale, e di bassa accoglienza personale delle norme ecclesiastiche nei comportamenti affettivo-sessuali (arrivata oggi a frequenze bassissime mentre massimi si sono fatti gli sforzi della gerarchia religiosa affinché l’etica cattolica, poco interiorizzata e praticata dai fedeli, sia stabilita dalla legge dello stato). Negli anni immediatamente successivi all’esperienza paradossale dell’Humanae vitae, ci sono stati nel ’74 il referendum per l’abrogazione del divorzio, nell’81 i referendum sia per liberalizzare sia per restringere la legge sull’IVG: entrambe le proposte di abrogazione sono stati respinte. Da anni le ricerche socio-religiose documentano una amplissima autoreferenzialità morale delle persone, in particolare dei giovani, ed un affievolirsi delle credenze. Un'ampia parte degli auto-dichiarati cattolici ha stili di vita e riferimenti etici assai diversi dalla linea dettata dalla gerarchia (sessualità, pena di morte, atteggiamenti verso gli immigrati).
Da una coralità che era in sé il meta-messaggio forte alla chiesa ed al mondo, si è passati ad una sinodalità formale, non decisionale, e infine alla voce del vertice, che però nella vita quotidiana ciascuna persona decide di accettare o tralasciare, certa di non essere rilevante per coloro che decidono a cosa si deve credere.
3.         Conoscenza teologica  critica o organica.
In Italia nell’arco di pochi anni, dal ’69 al 71, sono sorte realtà associate come CL (scelta di presenza, sociale economica e politica), mentre l’ACI manteneva la sua scelta “religiosa” e di mediazione culturale-sociale, con forti tensioni tra le due aree, e la Caritas italiana, promossa in Italia e nel mondo da Paolo VI. Erano già sorte o stavano nascendo in diversi paesi occidentali altre associazioni definite “movimenti” che proponevano proprie vie di esperienza cristiana, e chiedevano di essere riconosciute da Roma. Guardando al mondo, in Europa ed in America Latina c’erano voci di vescovi che portavano riflessioni forti sul modo di autocomprendersi e di vivere della Chiesa: basti pensare alla prima Assemblea dei vescovi latino-americani di Medellin, nel ’68, vescovi e teologi, e comunità cristiane, che hanno prodotto e praticato – al di là della formulazione teorica della “teologia della liberazione” - una presa di parola ed un agire comunitario che hanno profondamente segnato la vita della società oltre che della chiesa cattolica. Eppure, nonostante l’effervescenza creativa degli anni prima e durante il concilio, la crescente pluralizzazione e differenziazione delle proposte e dei cammini religiosi-culturali, la strutturazione istituzionale (vale a dire nella impostazione datane dalla istituzione) della conoscenza teologica è tornata rapidamente nei ranghi, via via più mono-logica, legata a relazioni istituzionali che chiedono accettazione-esecuzione, con poca attenzione alla dimensione personale delle stesse. Relazioni che prevedono un rapporto comunque centrato sul Papa, come figura e come persona.
Con Papa Giovanni Paolo II (’78), che presto ha chiamato il teologo-vescovo J.Ratzinger a tutore della dottrina della fede (’81), la teologia della liberazione è stata per quanto possibile criticata e contestata, e quell’esperienza ecclesiale ridimensionata con opportuni rinnovi dei vescovi locali. Ed i rapporti in generale con i teologi critici sono diventati presto tesi: alla fine degli anni ’80 furono espresse da numerosi teologi, in Germania (la “Dichiarazione di Colonia”), in Italia (la lettera di 63 teologi), in Francia, alcune serie richieste di riflessione, che chiedevano, a distanza di vent’anni dalla chiusura del Concilio (ed anche dall’”Humanae Vitae”), di ri-discutere alcune questioni ritenute fondamentali. La reazione romana fu netta (in Italia a teologi come L.Sartori non fu più rinnovato l’insegnamento in una università pontificia, e dall’Associazione teologica italiana ATI si staccò addirittura un gruppo di teologi che formò un’altra associazione, la SIRT, in sintonia con l’indirizzo del vertice ecclesiastico, teologi che nella chiesa italiana sono stati successivamente chiamati a coprire posizioni rilevanti). Verso il lavoro teologico è stato espresso nel ‘98 un fermo indirizzo di lavoro, esplicitato in un motu proprio che ha delimitato nettamente il loro impegno, considerato istituzionalmente inquadrato e sottoposto al magistero dei vescovi.
Contemporaneamente, nemmeno le voci “femminili” hanno fatto breccia, e non solo per la minima attenzione e altrettanta accoglienza che hanno avuto le tesi della teologia femminista. Questo però era comprensibile data la cornice storicamente non favorevole alle donne. Nonostante le periodiche lodi dei papi al “genio femminile” (va ricordato in particolare nell’88 l’enciclica di Papa GP.II, che nel 1995 e nel 2000 ha chiesto perdono anche per le violenze sulle donne, ma anche le critiche di Ratzinger nell’85 alle tante suore di vita attiva attirate dal femminismo, rispetto alle quali lodava piuttosto le scelte più composte delle claustrali), il pensiero di genere è rimasto sempre ai margini se non avversato, le differenze di genere sono rimaste quelle tradizionali e quindi piuttosto disuguaglianze, Pur prescindendo dalla questione dell’ordinazione sacerdotale, vi è tuttora una sistematica scarsissima valorizzazione delle donne, presenti ai livelli di base come catechiste e collaboratrici, impiegate in uffici, a livello di qualificazione ISSR e di baccalaureato lo stesso, a livello di curia romana e di commissioni internazionali rarissime come consultrici o esperte. E singole nomine non modificano la logica dell’impianto e della cultura organizzative della chiesa.
Il richiamo delle (non)voci femminili porta ad ampliare in altra direzione lo sguardo, verso le persone e gli Istituti di vita consacrata (nei quali le donne sono la stragrande maggioranza), arcipelago articolato, diffuso nonostante il notevolissimo declino vocazionale (anche se vi sono nuove esperienze, dagli eremiti nella città a nuovi tipi di comunità monastiche autogenerate), molto frammentato al proprio interno, con la presenza di istituti femminili che non sopportano più volentieri la condizione di minorità che persiste sia rispetto agli istituti maschili sia alla chiesa gerarchica diocesana. Persistendo una scarsa propensione a collaborare tra istituti affini (è difficile passare dalla concorrenza alla cooperazione, essendo ciascun istituto preoccupato a mantenere l’identità del proprio carisma fondativo), molti nella vita attiva sono assorbiti – anche contro le proprie aspirazioni spirituali - dal mantenimento in vita dei propri servizi educativi e di aiuto alle persone, per cui sostengono volentieri le richieste “politiche” della gerarchia ecclesiastica in modo che ciascuno possa sopravvivere.
Nella vita monastica invece si esprimono alcune voci attente alle radici dell’esperienza di fede, alla familiarità con le Scritture, con una presenza religiosa-spirituale che non ha molta ribalta pubblica ma contribuisce a tener vive delle reti di relazioni spiritualmente significative.

4.         Le strutture ecclesiali italiane dagli anni ’90: un progettoculturale e politico. Nei primi anni '90 la Chiesa aveva prodotto un indirizzo “Educare alla legalità”, impostato ancora con spirito conciliare; ma dopo il '92 (Tangentopoli) con la crisi della rappresentanza cattolica, la nuova presidenza della CEI ha ritenuto di dover avviare un proprio progetto culturale ('94-95-97). In parallelo alle strutture pastorali esistenti è stata costruita una articolata nuova organizzazione, con uno staff di teologi ed intellettuali laici legati al vertice, e da allora la presidenza CEI ha dato la linea alla nuova presenza pubblica della Chiesa. Nuovo stile di comando, ri-costruzione dell'organizzazione interna della chiesa, nomine dei nuovi vescovi e degli assistenti delle associazioni cattoliche in armonia con il nuovo governo della chiesa in Italia. Una riduzione delle differenze, la parola centrale e dirimente è del Presidente (verso i parlamentari cattolici valeva la cosiddetta “lista" Ruini: tutela della vita, scuola, ecc.), le assemblee CEI di fatto diventano irrilevanti nell'elaborazione ecclesiale dando rilevanza piuttosto alla prolusione del presidente, con il silenzio – nella vita normale della chiesa italiana - degli altri vescovi. La gerarchia italiana esordisce come soggetto politico che agisce direttamente nella sfera politica (E.Pace, I.Diamanti), guardando con favore alle forze politiche con presenze cattoliche fedeli alla sua autorità etica, in supporto alle proprie strutture educative e di servizi in genere. 
Pressoché unica voce di tutt’altra impostazione, biblica e dialogica, il Card.Martini, che dall’87 aveva istituito a Milano la “Cattedra dei non credenti”.
In Italia, paradossalmente, è presente un ampio pluralismo di sub-appartenenze in associazioni, 'minoranze attive', riviste, reti, ma la linea del Presidente CEI si è costituita dominante. Qui interessa porre l’attenzione non sulla persona del presidente, ma sulla struttura e cultura organizzative che si instaurano, che divengono sociologicamente molto vicine al tipo autoritario Nella chiesa si ritiene che ci debba essere una guida univoca di tutti e molti accettano volentieri di ubbidire, e di non parlare pubblicamente pur avendone la responsabilità; purtroppo da questo tipo di autorità molti si sentono anche legittimati nei loro comportamenti ostili e punitivi verso i cattolici ed i laici che dissentono.
Le relazioni tra livelli gerarchici non sono fluide (centro-vescovi, vescovo-preti, forse sono migliori anche umanamente tra parroco e laici, anche se alla base i consigli pastorali hanno ruoli incerti, di consultazione, non molto rilevanti sul piano decisionale). I "movimenti" sono sul piano religioso-culturale totalmente autoreferenziali, separati e in competizione orizzontale, ma ciascuno con un proprio forte legame verticale con l'autorità ecclesiastica che assicura legittimazione e spazio (scambio politico-religioso). A livello nazionale, di comunicazione "di massa", fino a poco tempo fa l'Avvenire dettava la linea e in modo piuttosto aggressivo, a livello locale i settimanali diocesani sono fortemente dipendenti dal vescovo locale, anche se alcuni hanno una propria autonomia critica.
Dagli anni ’90 quindi è cresciuta nella Chiesa, globale e nazionale, una linea verticale all’interno, che ha il forte appoggio di movimenti ecclesiali, autoreferenziali nello stile di vita ma molto legati all’autorità nelle sue scelte politiche. L’autorità ecclesiastica negozia con l'autorità politica quello che in termini politologici si definisce uno "scambio politico" (che in generale si ha ogni volta che un’autorità politica approva un provvedimento favorevole ad un soggetto, che in cambio promette e fornisce adeguata legittimazione e bacino elettorale). Il fatto è che se in una organizzazione non ci sono pensieri e pratiche di dialogo interno, non è possibile vivere la democrazia come dialogo nella sfera pubblica. Si vuole l'"unitas" accettando solo quel "multiplex" in realtà consonante con chi guida, nei limiti del conveniente, perché nella sfera politica pesa di più chi è omogeneo ed ossequiente, meglio ancora se lo manifesta con clamore mediatico. Come ha detto-scritto Alfredo C.Moro in una relazione tenuta poco prima di morire, la chiesa ritiene di evangelizzare promuovendo o vietando delle leggi civili, in modo che l'etica cattolica sia la "religione civile" italiana. Di fatto si legittima un rovesciamento del modo di valorizzare la legalità, che ora diventa importante nella misura in cui viene improntata dagli interessi “superiori” della chiesa cattolica: da condivisione della cittadinanza, delle regole, della laicità dello stato come garanzia di libertà ed uguaglianza delle coscienze di tutti, a pressione come soggetto politico per ottenere leggi cattolicamente corrette.
La gerarchia non critica più molto le manomissioni della legalità “normale” (mentre nel '91 aveva parlato contro la corruzione, non si è invece sentito pressoché nulla contro la modifica del reato di falso in bilancio), ed anzi si è arrivati fino ad assimilare impropriamente alla propria intenzione etico-politica l'ampia percentuale di astenuti (verificata in misura crescente nei recenti anni di vita politica), raccomandando lo strumento legale dell'astensione per far fallire il referendum sulla procreazione assistita. Una democrazia (quella definita "sana" dalla gerarchia) diventa gradita se e quando "conveniente" ad una società che dovrebbe tornare ad essere cristiana. A questo fine si usa volentieri una retorica ideologica: si accusano i laici (definiti laicisti) di voler zittire la chiesa che interviene, chiede, appoggia, disapprova, mentre le persone critiche, riconoscendole ovviamente il diritto di parola, vorrebbero piuttosto che la chiesa non cercasse di influenzare direttamente l’agire dei partiti e dei parlamentari.
5.         Radici cristiane e neo-illuminismo cattolico.
In una struttura ecclesiastica come quella che si è formata dagli anni ’90, e che forse oggi mostra qualche leggero segno di cedimento, si intuisce che due processi psico-sociali fondamentali sono a dir poco problematici. La comunicazione e le relazioni personali, fondamentali in ogni gruppo sociale ma qualitativamente decisivi in una comunità ispirata al cristianesimo, che dovrebbe vivere in modo inscindibile proposta della Parola e relazioni interpersonali  basate sull’attenzione e l’ascolto reciproci. Il Concilio come medium di comunicazione aveva cercato di realizzare questo, ma come si è visto, rapidamente si è tornati a logiche tradizionali, aggiornate nelle modalità e nella forza. La ri-verticalizzazione del pensare e del decidere hanno condizionato tutti gli sviluppi recenti. I vertici cattolici propongono una filosofia ed una teologia che intendono dare risposte, definite talora non negoziabili, in termini di una ragione auto-definita “sana”, su qualsiasi campo del sapere e del vivere, che vuole produrre un pensiero normativo “religioso” fondamentalmente eticizzante e vòlto a guidare i sistemi istituzionali oltre che le persone. Questo pensiero dà forte rilevanza all'identità ed alla presenza pubbliche della chiesa cattolica, la quale sollecita apprezzamenti ed alleanze con le forze politiche che hanno convinzioni e/o convenienze complementari. E’ proprio questo insistere sulla capacità della fede di farsi ragione, di vitalizzare una ragione “sana”, unica capace di guidare la società e comprendere la “natura della natura”, che può essere visto come proposta di un neo-illuminismo religioso (significativa la proposta paradossale dell’etsi Deus daretur) cattolico, un codice simbolico sostanzialmente autosufficiente, quindi monologico, che intende recuperare la tradizione istituzionale della chiesa, con tutte le implicazioni possibili nel recupero ecumenico di antiche o recenti scissioni.
Ma i cristiani, i cattolici, le chiese nelle diverse culture e nella stessa società italiana, le associazioni, costituiscono una realtà assolutamente complessa, infinitamente più complessa di quanto già non fosse negli anni del Concilio e che il Concilio stesso ha contribuito profondamente a trasformare. Oggi il pluralismo c’è, ha una strutturazione socio-culturale irreversibile: in qualsiasi situazione umana ancor prima che religiosa, per trovare intese dove non ci sono non si può che attivare relazioni reciprocamente rispettose e comunicativamente dialogiche. La pluralità di soggetti oggi vivissima, già da tempo ha cercato e continua a cercare modi e luoghi di comunicazione. I “movimenti” hanno creato università religiose, convegni internazionali, aperto siti web proponendo le proprie posizioni, le associazioni vicine alla gerarchia cattolica italiana hanno dato vita a retinopera, proprio per manifestare anche con nuovo orgoglio una presenza pubblica dell’associazionismo cattolico accreditato dalla Chiesa italiana. Le persone e i gruppi, i teologi laici e religiosi, monaci e persone consacrate, che invece si sentono a disagio in quel codice simbolico, hanno già sviluppato forme di elaborazione, luoghi di incontro, reti sociali, iniziative che le tecnologie comunicative di oggi rendono possibili in forme molto rapide ed efficaci. L'autonomia delle persone nel loro libero associarsi e riflettere insieme c'è, sono cose che non possono essere né eliminate né affrontate come ingombri, come perdite di potere in un gioco a somma zero impossibile da ricreare. Di fronte ad un'autorità che ritiene di poter concentrare su di sè ogni potere di pensiero e di azione, alcuni ritengono valga la pena opporsi con un contro-potere che cerchi di battersi sulla stessa scena istituzionale e con armi simili. Azioni di voice, di protesta che molti sentono anche emotivamente necessaria.
Altri invece ritengono necessario cercare le radici, i fondamenti dell’essere cristiani ed “umani” insieme, praticando modi di comunicare e relazioni tra persone e gruppi che non mettano mai la verità in alternativa alla carità. Come il medium  sociale conciliare è stato tanto importante quanto i messaggi prodotti dal Concilio, così la cura delle relazioni tra le persone nella ricerca comune della verità può essere esperienza e testimonianza insieme di una costruzione diversa della chiesa, che sa convivere con altri modi di costruirla, in uno sguardo ecclesiale e storico più ampio del qui-ed-ora.La creatività viene realizzata nel dialogo tra differenti, nella ricerca delle radici che generano carità, verità e libertà, discernimento ma non “giudizio”. Molte voci che – per il fatto che non gridano o non vincono - non sono silenzio, non sono rumours, sono altri registri comunicativi, vivi e da far crescere.
CRONOLOGIA E “GENEALOGIE”
Anni ’40-’60: mutamenti sociali enormi, distruttivi e ri-costruttivi, ed anche rivoluzione scientifica, tecnologica, epistemologica (teoria dell’informazione, cibernetica, teoria dei sistemi, “ecologia della mente”, approccio sistemico-relazionale alla comunicazione-relazione,  la costruzione sociale della realtà, teoria della complessità).
1958-63 Giovanni XXIII (Mater et magistra ’61, apert. Concilio ’62, Pacem in terris ’63)
1962-5 Concilio: strumento organizzativo collegiale dialogico per affrontare la complessità “senza nulla lasciar perdere e tutto considerare”.
(Post concilio: in Italia presidenti CEI Urbani ‘66-69, Poma ‘69-79, Ballestrero ‘79-85, Poletti ‘85-91, poi Ruini)
1962 * Primo riconoscimento del Movimento dei Focolari (nato alla fine della guerra)
1963 Eletto Papa Paolo VI,  nel ‘64 Ecclesiam suam
1964 * Nascita movimento neocatecumenale
1964 Bachelet ('64-'73) presidente ACI: "scelta religiosa"
1965 Paolo VI istituisce in forma permanente il Sinodo dei Vescovi
1967 Paolo VI Populorum Progressio.
1968 Paolo VI: Humanae Vitae, starting point post-conciliare della biopolitica religiosa cattolica moderna (pur se si deve ammettere che interprete ultima è la retta coscienza); P.VI decide da solo nonostante il parere diverso  maggioritario di una Commissione internazionale qualificata  di esperti: l’autorità religiosa riprende a non dialogare, ascolta e decide in aut-archia. Ma l’autonomia viene attivata anche dalle coscienze degli uomini e donne nel dialogo responsabile di coppia, che non può non distinguere gesti unitivi e atti  procreativi, in una generatività relazionale e comunicativa globale.
1968 e segg. Teologia della liberazione in America Latina, CELAM Medellin (oggi Teologia e liberazione).
1969-71 * In Italia nascono CL, Caritas (su spinta di Paolo VI, organo pastorale), l’Azione Cattolica prosegue nella “scelta religiosa”, nella mediazione culturale-religiosa
1974 Referendum e cattolici democratici per il no
1978 elezione P.Giovanni Paolo II: stigmatizza teologia della liberazione, marxismo, capitalismo e consumismo, è  contro aborto, sacerdozio donne, e per il celibato dei preti.
1979 reazione di Woityla contro la teologia della liberazione, Ratzinger ’84, ’86, nell’80 ucciso Mons.Romero. Normalizzazione a mezzo di nomine vescovili docili.
1980 * GP II e il Movimento del Rinnovamento dello Spirito
1981 Ratzinger nominato Prefetto della congr.per la dottrina della fede.
1981 A.Monticone presidente ACI: continua la "scelta religiosa". Boffo (CL) antagonista.
1982 * Opus Dei prelatura personale,
1983 Nuovo CDC
1984 (’85) Ratzinger con Messori “rapporto sulla fede” (primi anni 2000, lettera vaticana sui delitti più gravi: R. incriminato nel Texas per ostacolo alla giustizia sulla vicenda dei preti pedofili, nel 2005 dichiarato non processabile perché il Vaticano è stato sovrano)
1984-85 Istituito l’8‰: Poletti dichiarerà che non tutti i parroci sono stati solerti
1985 Giornata mondiale gioventù, "fenomeni collettivi di aggregato" graditi da GPII, eventi fusionali attorno ad un leader di cui cresceva il carisma
1986 Incontro interreligioso di Assisi: pregare ciascuno il proprio Dio per la pace, GPII chiese una “tregua di Dio”. Assente ad Assisi Ratzinger
1987 C.M.Martini: inizio Cattedra dei non credenti a Milano
1988 Mulieris dignitatem GPII
1989 Papa respinge la “dichiarazione di Colonia” di oltre 150 teologi, e conferma tale orientamento nel 1998 sugli obblighi dei teologi nel seguire i vescovi. Nasce in Italia la SIRT, teologi filo-autorità (Fisichella ecc.) usciti dall’ATI. Sartori non può più insegnare alla Lateranense; disconoscimento della JOC
1990 Redemptoris Missio, per raddrizzare il timone dopo Assisi
        * Riconoscimento da p. di G P II del Cammino neocatecumenale
1991 Educare alla legalità (anche contro la corruzione)
1991 RUINI  Pres. CEI
1992 Cattedra dei non credenti (libro)
1993 Doc. Interpretaz.della bibbia nella chiesa: interpretazioni contestuale della bibba, lettura femminista, della liberazione…(2006/7 notifica contro Jan Sobrino)
1994 GPII Varcare le soglie della speranza
1994-5 (Palermo)-6, 1997: Progetto culturale orientato in senso cristiano; D.Boffo direttore de l'Avvenire, dal 1998 SAT 2000; nel ’97 viene “commissariata”la Società S.Paolo e sostituito d.Zega responsabile di Famiglia Cristiana
1995 Giovanni Paolo II Ut unum sint sull’ecumenismo
2000 Dominus Jesus Woytila-Ratzinger (freno sull’ecumenismo?)
2002 Legge che modifica le norme sul falso in bilancio. Indifferenza della chiesa.
2002 Nasce retinopera per rilanciare il Progetto culturale e la Dottrina sociale della Chiesa unendo tutte le sigle delle associazioni cattoliche legate (d)alla CEI.
2002 Accettate immediatamente le dimissioni del card.Martini (75 anni).
2003 Nassyria: omelia Ruini per i caduti; 2003-04 (2007), affinità con il governo di dx, e distinzione dal Papa che aveva parlato contro ogni guerra, e messo sempre al centro la dignità di ogni persona. Immissione in ruolo insegnanti IRC
2004 Legge 40 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita" (Berlusconi)
* Riconoscimento dei Cursillos de cristianidad
2005 Elezione Benedetto XVI; in una situazione di incertezza nella chiesa e nella società, invece di riprendere un orientamento sinodale-conciliare, si è preferito affidarsi al pensiero di un teologo, già Prefetto per la dottrina della fede, custode dell’ortodossia; questo ha rafforzato al massimo vertice la strategia ecclesiastica “politica” italiana. Creazione di Scienza & Vita, C.Casini ideatore astensione referendum del 12-13.6. Ruini istituzionalizza politicamente ed estende la scelta; 26% circa votanti: non valido
Littizzetto: dic. <eminenza, a natale panettone o pandoro, non è che possiamo scegliere da soli…>
2006 Welby: funerale religioso negato da Ruini
Bertone alla Segreteria di Stato Vaticano
Ratzinger a Regensburg
2007 Prodi - Bindi: DICO vs Family Day
Polemiche sull'8 ‰ (C.Maltese 2008, La questua)
Bagnasco Presidente CEI. Lettera Bertone a Bagnasco: riserva del politico alla Curia romana
Benedetto XVI Motu Proprio sulla messa tridentina (A.Grillo Oltre Pio V)
2008 minaccia riduzione finanziamenti scuole cattoliche, protesta e rientro ampio
2008 B XVI in Francia: “nessuno è di troppo nella Chiesa (pensando ai lefebvriani). Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire a casa sua e mai rifiutato. Sforziamoci di essere sempre servitori dell’unità!” (critiche forti dall'espiscopato francese).
2008-09 (febbraio) Caso Englaro: Barragan: assassinio, cattolici portano panini alla clinica
2009        mar Senato testamento biologico
mag Famiglia Cristiana, le veline, il capo del governo
lu - reato clandestinità, ronde ecc.; Mons.Marchetto su ronde, su sicurezza,  prese di distanza del portavoce vaticano
agosto Feltri - Boffo
ago - sett divergenze Osservatore Romano - Boffo "esagerato" (CEI)
cerchio-botte su scudo fiscale, purché  soldi utilizzati bene
nov dichiarazioni Bagnasco (Bertone) clima di odio 'pericoloso' per l'Italia e con una 'conflittualita' sistematica'
cinismo feroce-ironico di Feltri: quelle su Boffo erano bagatelle.
Padania e Calderoli: Tettamanzi come imam, inadatto al territorio "cristiano".
http://www.statusecclesiae.net/status/vangelo_tre.php?pagina=affrontare_compless.php - _ftnref1 Ed a questo va aggiunto un altro problema, un altro tipo di carenza etica: già negli anni ’90 l’antropologo Tullio-Altan era giunto a considerare che l'Italia era (è) una nazione anche senza "religione civile", cioè senza diffuso senso civico, senza attaccamento alla costituzione ed al senso dei legami basati sui diritti-doveri della cittadinanza, anche perché era la chiesa a volerne essere il protagonista e l’interprete etico.
http://www.statusecclesiae.net/status/vangelo_tre.php?pagina=affrontare_compless.php - _ftnref2Può interessare ricordarne i caratteri evidenziati negli USA degli anni ’50 da Adorno et al. in: La personalità autoritaria: appelli dell'autorità ed alla autorità, ordine, sottomissione, pensiero stereotipato, pregiudizi, percezione di minaccia che viene da quelli che dissentono, accusati di essere un'élite che si considera superiore, colpevolizzazione ed aggressività verso questi e in genere verso gli “altri” (allora gli ebrei), desiderio di punizione dei devianti, ossessione per il corpo, la sessualità, centralità-autoreferenzialità della propria cultura-religione, diffidenza per la democrazia.
 
 
 
 
IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO
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CONOSCENZA E RICONOSCIMENTO
Le riflessioni che qui seguono sono concepite come seconda parte della relazione di Italo De Sandre1 ,  e sono quindi intese a completare un quadro introduttorio al dibattito comune, non aggiungendo altri dati, ma evidenziando e sviluppando alcuni nodi e  alcuni impliciti risvolti. 
I nuclei salienti intorno ai quali si è strutturata la documentata analisi  e prospettiva interpretativa proposte da Italo De Sandre sono il rapporto polare tra complessità/apertura/dialogicità, da un lato, e, all’opposto, semplificazione autoritaria/ordine/monologia. Essi ci offrono una base per aprire la riflessione sul come sia da interpretare la situazione della Chiesa (cattolica2 ) italiana.
Alcuni aspetti sintetizzati in tali cifre ci interpellano particolarmente a un ulteriore cammino di approfondimento.
Peculiarità della Chiesa italiana
1. In primo luogo, un aspetto formale. Dovendo e volendo contribuire a delineare la situazione della Chiesa italiana, De Sandre ha richiamato sia nella analisi sia nella cronologia significativi fatti e decisioni riguardanti la Chiesa ‘universale’ e promananti dalla Sede apostolica, intercalandoli col riferimento a fatti e orientamenti contrassegnanti la vita della Chiesa italiana. Colpisce la forte specularità dei secondi rispetto ai primi, generando l’impressione che la Chiesa italiana nel suo livello istituzionale rispecchi fedelmente la linea della Curia romana, senza non solo divergenze o frizioni, ma anche senza ‘personalizzazioni’, coloriture locali. Il che, come è noto, non è il caso di altri paesi e di altre conferenze episcopali, che pure sono pienamente nella comunione cattolica. Con tutto il rispetto, così come si dice che l’Italia fu a lungo un Paese a sovranità limitata, altrettanto e analogamente si potrebbe pensare che lo si possa dire anche della CEI. Non si dice che non vi siano le legittime varietà di sensibilità e orientamenti tra i vescovi. Esse però emergono localmente, a livello diocesano, ma non sembrano trovare sufficiente eco nella voce della CEI che nelle sue espressioni più alte canta a una sola voce, perdendo tutta la ricchezza della polifonia e del contrappunto; e questo indebolisce anche la possibilità dei singoli vescovi di esprimere del tutto liberamente nella loro diocesi  i loro orientamenti, quando questi non coincidano con quelli dei vertici della CEI. I legami tradizionalmente particolarmente stretti con la Sede apostolica sono certo comprensibili, per ovvi motivi, a cominciare dal duplice ruolo del Papa che è tale in quanto vescovo di Roma. Tali legami, tuttavia, senza essere negati, dovrebbero spingere al contrario a una particolare cura di distinguere, non per separare, ma per unire senza confondere e appiattire realtà.
La tendenziale monodicità della voce della CEI ha un effetto di allontanamento dal corpo ecclesiale italiano, che, invece, è tutt’altro che monodico 3. Così accade che solo una  ‘voce’ del corpo ecclesiale si trovi rispecchiata nella voce della CEI; tutte le altre, anche quando non siano apertamente sconfessate, non sentendosi confermate e accolte, subiscono un effetto di straniamento, ricevono un pur involontario e spesso inconsapevole messaggio - che può essere recepito addirittura come invito - implicito di disappartenenza e distanziazione.
2. Dinamismo e immutabilità:  Et … et…/ aut… aut
Ciò ci conduce al secondo punto. Che cosa intendiamo quando diciamo Chiesa? Con un solo nome designiamo due realtà: l’istituzione nella sua dimensione gerarchica, le autorità ecclesiastiche (che agiscono in persona Christi capitis) e la sua dimensione di corpo ecclesiale globale, fatto di concrete comunità locali e, al di là ancora di questo, della dimensione mistica della “Ecclesia ab Abel”, della Chiesa di cui Dio solo conosce i confini. La Chiesa è l’una e l’altra cosa  insieme: “et… et”. Ci si può chiedere se tale et… et… si attui (come dovrebbe essere) secondo il modello trinitario dell’unica natura nella pluralità delle persone o non, invece, secondo quello cristologico, delle due nature in un’unica persona: ma in questo caso si tratterebbe di due nature che faticano a stare insieme, invece di comporsi in armonia (come accade nel caso della persona di Gesù Cristo). Infatti  questo ‘insieme’ non c’è, semplicemente, come un fatto da constatare, ma va sempre di nuovo costruito. E non può essere costruito se non sulla base di una circolazione e reciprocità di ascolto e riconoscimento. Quando questo circolo virtuoso viene meno, all’ “et… et” si affianca l’ ”aut…aut”, talvolta come necessità evangelica e di coscienza; nasce comunque il conflitto, la lacerazione, la sconfessione reciproca. La carenza di ascolto del sensus fidelium, della base ecclesiale4 , la carenza della sua possibilità di espressione (la mancanza, si dice in termini laici di una ‘opinione pubblica’ nella Chiesa) è strutturale, non essendo prevista a livello istituzionale, eccezion fatta per le assemblee ecclesiali, i sinodi diocesani, che nascono però tendenzialmente pre-impostati dall’alto, nei quali hanno parola coloro che già si è verificato concordano con la linea prevalente. Le istituzioni aiutano a marciare insieme, ma si misurano anche sulla  capacità di favorire il cammino comune. I centri culturali ecclesiastici (anche la modalità stessa ‘dall’alto’ – come ha già sottolineato De Sandre - con cui si è proposto il progetto culturale, non partendo dall’ascolto delle competenze culturali presenti nel popolo di Dio, e in particolare nei laici, nel nostro paese) sono verticistici, non retti dal principio di fiducia. Nella Chiesa,  i messaggi scendono dall’alto, ma non accolgono ciò che sale dal ‘basso’; non conoscono realmente i loro destinatari, e ignorano altresì le richieste di questi ultimi, la specificità delle situazioni. Scindono, quindi,  la comunicazione dalla relazione, per esempio per quanto riguarda la prassi sacramentale (il divieto della celebrazione della penitenza secondo il III rito, divieto attualmente esteso anche in quelle chiese locali – per esempio quella elvetica - dove tale prassi era invece consentita da alcuni Ordinari diocesani e molto radicata; altrettanto dicasi per  le attuali pressioni in favore del ritorno alla comunione data in bocca). 
Et… et è possibile solo con istituzioni “in progress”, cioè che accompagnino la vita delle comunità. Così come sono oggi, le istituzioni ecclesiastiche cattoliche, in specie italiane, si mostrano invece tendenzialmente rigide, poco duttili e modificabili, né offrono molte speranze di essere modificabili, essendo autoriproduttive e autocertificative.
Non si tratta, però, allora, di scegliere l’unica via della contestazione, né di negare la necessità storica delle istituzioni, ma di rispondere in situazione e di tenere conto della situazione nel proporre positivamente cammini evangelici. Le critiche mosse da chi contesta sono giustificate nella misura in cui rilevino in certi comportamenti, stili, decisioni, strutture, un allontanamento dal Vangelo. A questo stesso rilievo, altri rispondono non con la denuncia, ma cercando di risvegliare in sé e nel corpo ecclesiale la attenzione a centrali aspetti dell’Evangelo, proponendo un ripensamento della fede che vada al suo cuore, a volte un po’ in ombra, sapendo che da essi nasce la sempre nuova riforma della Chiesa.
3. Riconoscimento e relazione
Sotteso a tutto ciò vi è il nucleo dolentissimo del riconoscimento5 . La sede apostolica, e in generale l’autorità ecclesiastica, si autoriconosce ma non dà riconoscimento. La comunicazione è monodirezionale, allocutoria. Non ascolta prima di parlare né dopo, non accetta domande, questioni, obiezioni né risponde ad essi. E’ autoreferenziale. E va sottolineato che il riconoscimento, come disposizione di fondo nei confronti dell’altro, è implicito, sotteso anche alla possibilità di conoscere, è un trascendentale che apre alla conoscenza, più ancora che essere frutto di conoscenza.  Si ‘riconosce’ anche chi non si conosce: l’ospite, lo straniero. È solo perché previamente e implicitamente si riconosce l’altro come uguale, come degno di rispetto, che si può aprirsi alla conoscenza della sua peculiarità e riconoscerlo di nuovo e più pienamente. 
Ciò emerge in modo esemplare nel caso delle donne. Il loro mancato riconoscimento va ben oltre la questione della loro esclusione dall’agere in persona Christi capitis, cioè dal ministero ordinato presbiterale ed episcopale6 . In un certo senso, le donne esprimono la sofferenza della percezione di una non piena ‘comunione’ -non formale ma di fatto- della istituzione ecclesiastica con le battezzate7 . Dopo Teresa d’Avila e Caterina da Siena, che lo erano state nel 1970, nel 1997  Teresa di Lisieux venne proclamata Dottore della Chiesa, in particolare per la sua scienza dell’amore di Dio. Un amore che, benché immersa in una temperie di spiritualità che premeva molto nella ricerca dell’acquisto di meriti, con lucidissima e penetrante intelligenza teologica Teresa oppose a ogni ricerca di giustificazione tramite le opere, lei che scrisse:
«Al tramonto di questa vita, comparirò davanti a Te a mani vuote, perché non Ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è macchiata ai Tuoi occhi. Voglio dunque rivestirmi della Tua propria giustizia e ricevere dal Tuo amore il possesso eterno di Te stesso». 
Un messaggio che non sembra ancora essere stato pienamente compreso e accolto nell’insegnamento di quella stessa Chiesa che l’ha riconosciuta tra i suoi Dottori8 .
Le parole pronunciate da Giovanni XXIII la sera dell’apertura del Concilio Ecumenico:
«la mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato Padre per la volontà di nostro Signore, ma tutto insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Fratres sumus!»,
così come quelle di sant’Agostino:
«Ubi me terret, quod vobis sum, ibi me consolatur, quod vobiscum sum. Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus. Illud est nomen suscepti officii, hoc gratiae; illud periculi est, hoc salutis. Nel momento in cui mi dà timore l'essere per voi, mi consola il fatto d'essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell'incarico ricevuto, questo della grazia; quello è occasione di pericolo, questo di salvezza (Serm. 340, 1)»,
queste parole non risuonano nella coloritura affettiva delle comunicazioni ecclesiastiche. Non si percepisce, anche se certo non manca, la forte consapevolezza da parte dell’episcopato dell’essere membri del popolo di Dio, innanzitutto fratelli. Per questo, è importante, insieme alla richiesta di luoghi istituzionali di parola e di ascolto della base ecclesiale, dei laici in quanto tali, la pratica della sinodalità, il convenire da uguali (indipendentemente da ogni altra funzione e posizione ecclesiale) sulla base del comune battesimo; questa infatti non è solo un espediente pratico per riunirsi e dar voce alla pluralità delle esperienze e sensibilità, non è un mero mezzo, ma è un fine in sé, è un modo di far vivere un aspetto essenziale dell’essere Chiesa. Ed è una prassi di fede importante per rafforzare la coscienza della dimensione mistagogica, del fatto che il nostro essere Chiesa si fonda, insieme che sull’Evangelo, in una dimensione sacramentale (Battesimo-Cresima-Eucarestia), e non invece sul metro della conformità o non conformità con le contingenti direttive ecclesiastiche.
Le giuste spinte volte a promuovere una maggiore consapevolezza e autonomia del laicato, in particolare in Italia, sono una necessaria e utile risposta entro un quadro che però va superato in quanto tale, che è l’accettazione della separazione tra laicato e clero, separazione che è tutt’altro dal riconoscimento della distinzione, della specificità del ministero ordinato entro il popolo regale, profetico e sacerdotale di Dio, e al suo servizio.
Tutti i nodi fin qui richiamati sono riconoscibili come modulazioni del rapporto Evangelo-legge, modulazioni nelle quali si rileva un attuale sbilanciamento dalla parte della legge9 . Ma vi sono due casi, il secondo dei quali riguarda particolarmente la realtà ecclesiale italiana, in cui tale tensione è il tema stesso.  
4. I contenuti
Come rileva De Sandre, la questione dell’etica (in particolare nella sua declinazione di bioetica) è quella in cui più acutamente emerge la tensione tra annuncio dell’Evangelo, da un lato, e, dall’altro, identificazione di prescrizioni etiche nelle quali si pretende che questo sia ‘tradotto’. Dal punto di vista culturale, negli attuali  documenti e prese di posizioni ufficiali della Chiesa, sia della Sede Apostolica sia della CEI, trattando in particolare, ma non solo, delle questioni (bio)etiche si insiste fortemente sul concetto di natura, che risulta più importante del riferimento al Vangelo10 .  Il riferimento è a una  natura normante; una natura non però conosciuta e riconosciuta, in base alle attuali conoscenze scientifiche, nella sua complessità, bensì costruita concettualmente come metafisicamente definibile e conoscibile, de facto ridotta alla biologia, senza tener conto che, per la visione cristiana, la natura umana ha indole escatologica e che tale indole riguarda anche tutta la natura della creazione (secondo Romani 8, 19-25). In generale, si punta alla identificazione tra ragione universale e contenuto dell’Evangelo, configurando una sorta di paradossale neo-illuminismo cattolico.
5. L’etica ope legis?
Specifico per il caso italiano è poi il modo in cui la istituzione ecclesiastica si fa presente nella scena politica, rivendicando il diritto di intervenire (come istituzione) nel discorso pubblico politico a livello della formulazione o discussione di leggi, nella prospettiva di fondo che intende difendere l’etica mediante lo strumento legislativo, identificando in ciò la modalità dell’impegno cristiano per la promozione umana e per la maturazione della vita sociale e culturale.
Questo tema incrocia quello della laicità, come dimensione della esperienza cristiana, come dimensione delle istituzioni politiche e civili e, soprattutto, come dimensione della coscienza in quanto tale. Un tema enorme che non può essere qui affrontato, ma che non può non essere menzionato.
Esso infatti, oltre ad avere un suo specifico contenuto nel dibattito civile e politico attuale, si riallaccia al tema del  tipo di conoscenza (e di coscienza) che si tende a promuovere nella Chiesa. Funzionando, come osservava De Sandre, secondo il principio di ordine contro complessità, le istanze superiori ecclesiastiche non si fanno carico della ‘conoscenza della conoscenza’, del senso e responsabilità del conoscere. In luogo di stimolare la comune ricerca, esse vi oppongono una definizione (“sana ragione”, “sana dottrina”, “sana laicità”) in cui il principio di autorità che certifica il “sana” smentisce e svuota i concetti di ragione, laicità e anche dottrina. I conflitti etici e giuridici che vanno sotto la cifra “laicità” hanno come sfondo l’idea di una (indebita) ingerenza normativa nel conoscere, in cui di nuovo è in gioco il rapporto Evangelo-legge.
Come osservava nel seminario milanese Ugo Rosenberg, richiamando alcuni significativi passi del Nuovo Testamento sul tema della conoscenza (in particolare,  Efesini 3,14-21; 4,11-14; Colossesi 2, 1-8),  per il discepolo la conoscenza è in primo luogo conoscenza del “mistero di Dio, che è Cristo”, nel quale “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza”. E in Cristo Gesù, che «ha annullato la legge dei comandamenti che sono decreti…», «abbiamo gli uni e gli altri, in un unico Spirito, accesso al Padre». Questo è il principio anche del riconoscimento intraecclesiale e del comune riconoscimento che, se per la convivenza umana le leggi sono indispensabili, l’Evangelo tuttavia non è mai traducibile in legge.

1 Sia la presente relazione sia quella di Italo De Sandre sono state esposte in un primo abbozzo e discusse in un seminario svoltosi nel dicembre 2009 a Milano presso la Rettoria di san Gottardo e al quale hanno preso parte don Gianfranco Bottoni (che lo ha ospitato), Mario Cantilena, don Angelo Casati, Francesco Castelli, Ursicin G.G. Derungs, don Paolo Giannoni, Luciano Guerzoni, Giancarlo Martini, don Giordano Remondi osb cam, Ugo Gianni Rosenberg. La stesura definitiva di entrambi i testi accoglie i contributi emersi nel comune lavoro seminariale.
2 Precisare -aggettivando- Chiesa ‘cattolica’ non è pignoleria, bensì un minimo, necessario atto di riconoscimento della pluralità delle Chiesa cristiane; tuttavia ciò non è un restringimento, che sminuisca la portata ed eventualmente la gravità del tema della riflessione, in quanto nella Chiesa cattolica sussiste la Chiesa di Dio; ogni Chiesa è quindi responsabile per la sua parte di come fa vivere in sé e testimonia al mondo la Chiesa di Dio; per questo – e non solo per evitare inutili appesantimenti alla esposizione- si userà in seguito l’espressione Chiesa, senza aggettivi.
3 La chiesa italiana non solo presenta una grande libertà e ricchezza nella vita concreta delle comunità reali coi loro ministri, ma è stata segnata da molte, splendide voci profetiche nelle quali possiamo trovare rispecchiate, sia pure in diverse proporzioni, un po’ tutte le componenti del corpo ecclesiale. Tutti le conosciamo e molte di esse sono state evocate anche nell’incontro del maggio 2009. Mi sia consentito però richiamare – oggi,  6 febbraio, anniversario della morte di padre David M. Turoldo, nel 1992 – qui la memoria di Padre Camillo De Piaz, dei Servi di Maria, morto a quasi 92 anni lo scorso 31 gennaio. Una persona tanto silenziosa, quanto straordinaria per ricchezza, coraggio, ampiezza, profondità  è stata la testimonianza del suo cammino di vita. Con lui se ne è andato l’ultimo vivente di una generazione di grandi maestri (tra essi, nella chiesa italiana, padre Ernesto Balducci, dom Benedetto Calati, padre David M. Turoldo, don Giuseppe Dossetti, padre Giovanni Vannucci, don Abramo Levi, don Michele Do, don Girolamo Giacomini, Giuseppe Lazzati, e - ad essi accostabile, benché più giovane- Giuseppe Alberigo) che - insieme alla generazione cui appartennero grandi maestri, tra i quali don Primo Mazzolari, don Giulio Facibeni e altri-  ha vissuto il travaglio civile ed ecclesiale del fascismo, della Resistenza, la Liberazione, la rinascita del nostro paese, e che, avendo conosciuto a lungo la chiesa preconciliare, hanno anticipato, sostenuto, e poi difeso il Concilio. La lista dei nomi è incompleta e non vuol far torto a quanti non sono menzionati, ma solo richiamare rapidamente alla memoria la ricchezza della esperienza e tradizione della Chiesa italiana.
4 L’espressione “base ecclesiale” non va qui equivocata. Non fa allusione  alle esperienze delle comunità di base, ma -senza escluderle!- intende riferirsi all’intero corpo ecclesiale, al popolo di Dio dei battezzati in quanto tali e alle reali comunità piccole e grandi (a cominciare da quelle parrocchiali) nelle quali vive la sua dimensione di Chiesa.
5 Il riconoscimento non è nella Chiesa la rivendicazione di soggetti nei confronti di altri soggetti. E’ il frutto del comune riconoscimento di essere membra del corpo di Cristo. Nel non riconoscersi è sempre coinvolto un certo grado di non riconoscimento del Signore. E questo ferisce e indebolisce l’esser Chiesa. Per questo, la ricerca della reciprocità non sconfessa i principi evangelici della gratuità, dell’amare per primi ecc. E’ che la Chiesa si costruisce nella reciprocità del riconoscimento dei carismi e dei ministeri, secondo la metafora paolina del corpo; gli ‘organi’ del corpo debbono riconoscersi, riconoscere i segnali che si inviano, cooperare armonicamente affinché l’organismo sia sano e viva. E’ anche vero che quando un organo (per esempio un organo di senso; ma ciò vale anche per l’equilibrio dinamico tra respirazione, battito cardiaco e pressione sanguigna) viene meno, altri organi cercano di compensare con un maggior lavoro la funzione indebolita. Ciò vale anche e anzi ancor più fuor di metafora nella Chiesa.
6 Dal compito di guida e di governo, dall’agere in persona Christi capitis, è invece ora escluso il grado del  diaconato, dopo che col Motu proprio Omnium in mentem, del 15 dicembre 2009,  Benedetto XVI ha modificato gli articoli 1008 e 1009 del CJC che, in forza della unicità del sacramento dell’ordine, attribuiva a tutti i suoi tre gradi la partecipazione allo stesso munus.
7 Anche se ha delle possibili controindicazioni (può venir frainteso come autoghettizzazione) e se, soprattutto, appare per il momento utopico, un sinodo delle donne non gestito autonomamente da esse, ma ‘riconosciuto’ dalle autorità ecclesiastiche sarebbe un interessante esperienza. Non senza precedenti locali. Per esempio, a Milano, nel 1993, in collegamento col 47° sinodo della diocesi ambrosiana, su iniziativa del gruppo Promozione Donna, si tenne un sinodo delle donne (i cui Atti sono pubblicati in: Gruppo Promozione Donna, L’utopia dell’intendersi, In Dialogo, Milano 1993); seguito da lontano, con discrezione e attenzione, dal card. Martini, tale sinodo ha visto la partecipazione a quasi tutti i lavori del vicario generale diocesano, mons. Giovanni Giudici, che ha presieduto la celebrazione eucaristica conclusiva.
8 A partire dal 1298, il titolo di Dottore della Chiesa è stato attribuito (da un papa o da un Concilio) a 33 santi, vissuti tra il III e il XIX secolo, tra i quali 3 donne.
9 La formulazione della tensione Evangelo-legge può essere equivocata (ed infatti è stata molto messa in discussione ed è stata oggetto di critica – anche da parte di chi scrive- pur venendo alla fine approvata), in quanto può far pensare a una opposizione tra Chiesa (Vangelo) e Israele (Legge), o, peggio, a un richiamo allo schema sostitutivo per cui la Chiesa subentrerebbe a Israele, sarebbe il verus e novus Israel. La formula non è stata affatto intesa in tale accezione, bensì come espressione della opposizione tra vigenza del criterio dell’Evangelo ovvero vigenza nella Chiesa del ‘criterio’ legale della norma. La Torah, legge di Dio, è una legge d’amore, e se e in quanto essa venga intesa in modo casistico-legalistico, ciò è opera degli uomini, dal tutto analoga alla trasformazione in legge dell’Evangelo. 
10 E’ interessante rilevare che, al contrario, e nonostante il diverso orientamento espresso da alcuni Padri conciliari nella fase della discussione, la Costituzione conciliare Gaudium et Spes faccia dell’Evangelo il suo unico principio e riferimento fondante per entrare in rispettoso, aperto e leale dialogo col mondo, evitando di fondare il proprio discorso sul piano di ragione e morale naturale, pur dialogando alla pari con tutti, in modo comprensibile alla comune ragione umana.

 



Luned́ 08 Febbraio,2010 Ore: 16:27