Il Vangelo che abbiamo ricevuto
La cronaca e gliinterventi di alcuni dei partecipanti

Da Agenzia ADISTA n. 60 del 30 maggio 2009

Interventi di Enrico Peyretti, Giancarla Codrignani, Marcello Vigli



 di Franco Ferrari
Alla preparazione dell’incontro fiorentino “Il vangelo che abbiamo ricevuto” avevamo dedicato alcune pagine sugli scorsi numeri di Adista - Segni nuovi ed oggi pubblichiamo una sintesi dei lavori di Franco Ferrari, e di seguito i commenti di Enrico Peyretti, Marcello Vigli, Giancarla Codrignani. Su Adista - Documenti n. 59 offriamo inoltre una sintesi di molti dei contributi preparati per Firenze.
Per maggiori informazioni e per conoscere i testi integrali dei contributi e delle relazioni si veda il sito www.statusecclesiae.net
All’insegna dell’impegnativo appello “Il Vangelo che abbiamo ricevuto” si sono riunite a Firenze, sabato 16 maggio presso la chiesa di S. Stefano in Pane nel quartiere industriale di Rifredi (parrocchia che fu retta per oltre quarant’anni da don Facibeni, presbitero antifascista, annoverato tra i Giusti per la sua opera a favore degli ebrei durante l’Olocausto, animatore di importanti opere sociali), oltre 300 persone da tutta Italia: singoli cristiani e rappresentanti di gruppi, parrocchie, comunità di base, preti operai, teologi e teologhe, presbiteri.
A convocarli è stato un convincimento e una sofferenza: “la convinzione che il Concilio Vaticano II sia stato e sia ancora una grande grazia donata alla chiesa del nostro tempo” e “la sofferenza di non vedere al centro della comune attenzione proprio il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri, ai peccatori, a quanti giacciono sotto il dominio del male, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge.
Il Signore ci ha chiamati a edificare non una chiesa che condanna, ma una chiesa che manifesti la misericordia del Padre, viva nella libertà dello Spirito, sappia soffrire e gioire con ogni donna e con ogni uomo che le è dato di incontrare”.
Ai molti che possono pensare subito ad una rinascita della stagione della contestazione, gli organizzatori – il teologo don Pino Ruggieri (docente ordinario di Teologia presso lo Studio San Paolo di Catania e membro della Fondazione per le Scienze Religiose “Giovanni XXIII” di Bologna) e il monaco don Paolo Giannoni (oblato camaldolese dell’Eremo di Mosciano vicino a Firenze) – precisano fin dalla lettera di invito che lo scopo dell’iniziativa “non è volto alla creazione di un movimento o alla contestazione o chissà che altro, come una chiesa alternativa, ma nasce dal desiderio che la libertà dei figli di Dio, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano”. Il confronto, la sinodalità, il bene e l’amore per la Chiesa sono la cifra interpretativa, non solo dichiarata ma anche messa in atto, di questo appuntamento.
Prima dell’incontro sono arrivati agli organizzatori ben 41 contributi scritti di singoli e di gruppi o comunità (si possono leggere nel sito www.statusecclesiae.net) che insieme alla numerosa partecipazione danno uno spaccato interessante e variegato di un disagio puntiforme ma diffuso in tutta Italia. Si va da storiche comunità di base (Busto Arsizio), a comunità parrocchiali e religiose (S. Pietro in Modica, Catania, Barcellona, Pozzo di Gotto, Palermo) a gruppi e associazioni (Galilei - Padova; I Viandanti - Assisi/Parma; L’Atrio dei Gentili - Fossano; Il Guado - Milano; Chiesa oggi - Parma; Noi siamo Chiesa - Milano; Terra e cielo - Messina), ai preti operai, a chi ha già tentato a livello locale forme di dialogo con la propria chiesa, come “Il chicco di senape” di Torino e “Lettera alla chiesa fiorentina” di Firenze, a riviste come “Il Gallo” (Genova), “Sulla strada” (Roma). Un materiale che è stato presentato, in apertura dell’incontro, con una sintesi efficace da Enrico Peyretti e Ugo Rosemberg, e in cui secondo i presentatori “c’è freschezza, parresia, espressione di amore e sofferenza, nel segnalare fatiche, problemi e ostacoli, sempre però in ricerca dei punti d’appoggio nella fede, nelle esperienze positive, nei valori che orientano, nella collaborazione fraterna, nelle proposte operative”.
Le relazioni introduttive di Giannoni e Ruggieri hanno affrontato le due questioni centrali dell’incontro. Da un lato, la forza del Vangelo proclamato da Gesù che ha assunto ogni realtà umana, ha “toccato” i corpi per infondere la guarigione, per rendere visibile ai nostri occhi e palpabile dalle nostre mani il mistero dell’amore trinitario. Un amore che costituisce la forma della chiesa. Dall’altro, la chiesa appunto, della fraternità e della sororità, che ha nella liturgia la sorgente della sua libertà e la base della sua sinodalità, che è chiamata a seguire Gesù povero. Una chiesa che deve convivere con il peccato, che porta in sé anche la zizzania, come dice la parabola; ed è per questo che si deve rivolgere agli altri solo con la tenerezza e la misericordia con la quale Dio la gratifica continuamente.
La sfida di questo incontro, che in un certo senso si potrebbe definire generazionale in quanto, come in più interventi si è rilevato, mancava la generazione under 40, resta ancora tutta da giocare.
Quale iniziativa per il futuro? Le proposte sono state diverse, anche se non c’è stata alcuna definizione: un forum, un evento sinodale periodico (Ruggieri); un consiglio dei laici, il creare una rete (da alcuni interventi). Sui contenuti è stata presentata l’esigenza di riprendere i testi conciliari, di approfondire il tema dell’ecclesiologia (Serena Noceti).
La conclusione è parsa consigliare una pausa di riflessione. Intanto ognuno ha portato con sé la positività dell’evento che è stato anche un darsi reciprocamente coraggio.


 di Enrico Peyretti
Forse non è prudente una valutazione immediata sull’incontro di Firenze “Il vangelo che abbiamo ricevuto” (che qualcuno ha già denominato il “sinodo di Firenze”). La prima impressione, tra i partecipanti, è stata molto positiva. Ma bisogna vagliare con calma sia il clima, sia i contenuti confluiti. Un criterio sarà anche la capacità di proseguire il cammino e il modo di orientarlo.
Il clima di soddisfazione può essere dovuto, almeno in parte, alla decompressione seguita ad una lunga stagione di oblio del Concilio, con le voci della chiesa popolare e pensante ridotte in sempre meno spazio e ascolto, in circoli locali piuttosto isolati, comunicanti tramite pochi fogli poveri e alcune reti sottili.
Però, la gioia provata ieri a Firenze è dovuta anche alla equilibrata composizione della libertà e franchezza critica con la serietà spirituale, la responsabilità comunitaria ecclesiale. La preghiera ha aperto e chiuso, e anche abbastanza impregnato la conversazione intensa. Le critiche alla conduzione gerarchica, raccolte in preparazione e durante il convegno, si sono fatte carico di ciò che più conta: la trasmissione del vangelo che abbiamo ricevuto, che ci è stato consegnato col battesimo e che abbiamo accettato nella fede. Questa trasmissione oggi è molto difficile, forse è drammaticamente interrotta. Una causa è nell’immagine esterna che la chiesa dà, di essere una forza sociale in competizione di potere con le altre. Ma ciascuno di noi sa di avere il compito arduo di trovare un linguaggio e dare segni adatti a comunicare il messaggio di Gesù all’uomo post-moderno, perciò ai giovani, oggi in gran parte ignari del tesoro che la chiesa ha nelle mani.
Nel complesso, i convenuti a Firenze hanno detto che non sono né contro né senza i vescovi e il papa, ma non stanno sotto come sudditi silenziosi, non sono cinghia di trasmissione di direttive morali cattoliche da tradurre in leggi e ordinamenti. Le leggi le fanno elettori e legislatori cattolici, nella mediazione democratica e laica, come cittadini in libero confronto con chiunque altro, nella realtà comune, cercando il risultato più giusto possibile, che non può essere sempre il valore cattolico.
Soprattutto, Firenze ha detto la volontà di stare in una chiesa che annuncia e testimonia la salvezza portata da Cristo a tutti, e non regole e giudizi troppo sicuri su problemi spesso nuovi e difficili. Dalla comunicazione liberante del bene che ci salva nella libertà, discenderà per ogni coscienza una pratica di giustizia e di amore e un contributo civile di ciascuno al tono morale della società. In radice, ciò riguarda anche il modo di pensare Dio e la vicenda di Gesù.
Riunirsi così è fare “chiesa sinodale”, è camminare insieme in stile conciliare, che è l’esatto contrario sia della sottomissione pavida, sia di quello scisma silenzioso e sommerso di tanti che si tirano fuori dalla fraternità che ascolta Cristo, perché non possono accettare di trovarvi diktat morali (a volte terribilmente duri) più che vangelo, giudizi più che misericordia, quando la loro vita è difficile, quando le coscienze serie sono davanti a interrogativi nuovi, e scoprono in sé sensibilità mutate, forse in meglio. Una chiesa di troppe certezze e direttive non accoglie, ma abbandona. In questa chiesa siamo tutti noi desiderosi di essere discepoli di Gesù, e l’immagine che essa offre, e la parola che porta, sono compito anche nostro. “Cristiani adulti”, diceva Bonhoeffer. Adulti si diventa non per presunzione, ma perché la vita con le sue prove ci matura. A quel punto sarebbe un peccato contro lo Spirito “rimbambire”, ritornare bambini, lasciarsi trattare da bambini, che è l’opposto dell’evangelico diventare trasparenti come bambini, senza deporre il peso e la dignità della responsabilità.
Non abbiano paura, i vescovi, di un “dissenso” organizzato. Stiano attenti anche al troppo “consenso”, e a quale consenso ricevono, e quali protezioni! L’importante è il “senso”, che sia quello del vangelo. E – forse possiamo dirlo – imparino anche loro a discutere, a confrontare serenamente le differenze legittime nell’ascolto dell’unico Cristo, e i differenti cammini spirituali, ma convergenti all’orizzonte. Ci sono anche tra loro le differenze, spesso senza il coraggio di emergere. Lo sappiamo. Chi ha ministeri nella chiesa di Cristo non sarà, noi lo speriamo, funzionario di una organizzazione, obbligato (o ricattato) dalla struttura più che guidato dallo Spirito. Diano ascolto alle donne, a tutti i laici, a chi è nel lavoro, nella famiglia, nella politica, nella cultura, e avvicinino il giorno evangelico in cui sarà loro possibile non essere più una categoria chiusa, innaturale perché solo maschile e celibe, che si riproduce spesso in fotocopia, per cooptazione. Il clericalismo insidia la chiesa più degli avversari. Dove non c’è umanità intera è difficile il discepolato cristiano intero. Sappiano che se si mettono a fianco di questi laici cristiani, trovano più aiuto che critiche. Aiutati, potranno meglio aiutare.
Dopo Firenze, dopo le parole liberate, viene altro lavoro, ma prima viene il silenzio, la riflessione interiore, davanti a Dio. Nessuno è maestro, né sostituto di maestri, ma tutti siamo discepoli e fratelli, in una fraternità “senza confini”, fino a tutto l’orizzonte umano. Ognuno guardi il pezzo di terra a lui affidato, da lavorare in silenzio, giorno dopo giorno. per poter trovare e scambiare ancora parole giuste, per una vita più giusta.
Dopo alcuni primi scambi di impressioni dopo Firenze, che devono continuare, ora direi: comprendo bene che si sia escluso di concludere il dibattito con delle mozioni, che richiedevano una procedura. Considero tutto l’evento di Firenze una prima preziosa occasione che raccoglie buone energie locali. Ma ora è importante che si sviluppino linee di sostanza, specialmente sulla barbarie crescente nella politica governativa italiana e nella psicosi popolare infettata e corrotta scientificamente dalla strategia mediatica dei poteri dominanti e rozzi.
Tocca alle religioni e alla cultura reagire attivamente, profondamente, chiaramente, e insieme. È necessario un nuovo illuminismo spirituale, filosofico, giuridico, umano, e popolare, che denunci la disumanizzazione in corso e indichi linee per superarla, praticabili dalle persone comuni.
Questo nostro movimento, manifestatosi per ora nell’incontro bello di Firenze, è ancora  tanto “ecclesiocentrico”, che è stato un limite, comprensibile, anche del Concilio. Va bene l’iniziativa nella chiesa, ma il centro delle cose non è la chiesa: il centro è, come dice Panikkar, “cosmoteandrico” (mondo-Dio-umanità), perciò laico. Quindi: il vangelo più della chiesa, la fede più dell’organizzazione della fede, l’umanità più della chiesa, e una chiesa “senza confini” (come scriveva sorella Maria a Mazzolari e a Gandhi), con l’orizzonte dell’umanità. E quindi le questioni umane, anzitutto, che sono la ragione per la quale Gesù Cristo ha vissuto e ci ha amato “fino in fondo”, per salvare l’umanità da se stessa, e per la quale, nonostante ogni male, lo Spirito di Dio soffia dove vuole, in molti modi e su molte vie, nell’umanità.


 di Marcello Vigli
I  fatti danno valore alle parole e le fanno diventare pietre. Il successo per i numeri e per i contenuti del convegno che si è svolto a Firenze il 16 maggio rende particolarmente significative le parole scritte in preparazione e quelle pronunciate durante l’intensa giornata di lavoro. Non era scontato alla vigilia che un incontro autoconvocato da cattolici che vivono “in disagio” l’attuale stagione della chiesa (molto attenti a non confondersi con quanti sono “in dissenso”, ma altrettanto disponibili a confrontarsi con loro) potesse raggiungere lo scopo di realizzare «uno scambio aperto del vissuto della fede, nell’esperienza della forza del Vangelo» senza che nessuno si sentisse «ospite o straniero».
Non si trattava del solito convegno sulla pace, la fame nel mondo, l’immigrazione, la giustizia sociale. Il tema proposto era la chiesa e lo scisma sommerso che l’attraversa. Non era neppure inteso a rivendicare spazio per i laici, piuttosto si proponeva di riaffermare la loro responsabilità nell’annunciare, come recitava il documento di convocazione, «il Vangelo che abbiamo ricevuto».
La scelta del canto del Veni creator come momento conclusivo della breve liturgia introduttiva può essere interpretata proprio come segno delle legittime apprensioni dei promotori sulla possibilità di garantire un sereno confronto data la diversità delle esperienze e degli orientamenti dei partecipanti, già emersa nell’ampia e articolata serie di contributi inviati alla vigilia da singoli e gruppi. Della loro ricchezza, ma al tempo stesso della loro varietà ha dato la misura la relazione introduttiva che ne ha tentato, con successo, non un’impossibile sintesi, ma una tematizzazione funzionale allo svolgimento del confronto, che si è, infatti, svolto senza sterili battute polemiche, precisazioni o distinguo.
Ciascuno ha potuto pronunciarsi distintamente sui diversi temi, secondo le chiavi di lettura proposte, in modo da offrire ai partecipanti la possibilità di autonome valutazioni sulle prassi emergenti dalle esperienze, sugli orientamenti frutto di studi e letture più o meno condivise e, infine, anche sulle proposte concrete, sul modo di continuare il cammino e su eventuali iniziative da prendere nell’immediato.
Coerentemente con il modello di convegno scelto, queste non sono state offerte al voto, così come non è stato stilato un documento conclusivo al termine delle oltre tre ore di dibattito. La sua ricchezza è stata assunta, invece, come patrimonio d’idee e d’indicazioni per il lavoro futuro per il quale si sono auspicati un collegamento, una rete di relazioni e la convocazione ogni anno di uno o più convegni, magari decentrati al nord e al sud, per favorire lo sviluppo del confronto e la contaminazione delle esperienze. Non premessa per un nuovo “movimento  ecclesiale” ma sperimentazione di modi nuovi di essere chiesa senza ostracismi, senza la pretesa di offrire modelli o soluzioni da generalizzare, nella consapevolezza del limite che tutto ciò che è umano porta in sé. Un collegamento rispettoso delle diversità: non tollerate, ma assunte come valore senza l’ossessione di separare chi è dentro e chi è fuori.
Questo nella prospettiva temporale risulta essere un falso problema come emerge dall’esperienza delle comunità cristiane di base. Nel lontano 1984  un vescovo ha “scomunicato” due comunità presenti nella sua diocesi. Poche settimane dopo un altro vescovo, dopo aver portato il suo saluto ad un loro seminario nazionale, ha voluto esprimersi sul tema in esso proposto: Eucaristia, ricerca e prassi nelle comunità di base. L’anno successivo la Comunità dell’Isolotto, che era stata bandita dal suo vescovo, Florit, perché “solo gruppo politico”, si è sentita dire dal suo vescovo, Piovanelli,  in visita alla sua sede, «vi ringrazio perché ci siete». Non basta affermare che era cambiata la persona chiamata ad essere il suo vescovo, forse bisogna ricordare la funzione delle pietre “scartate” di ieri e di oggi.
È indubbio che il Vangelo ha bisogno della chiesa per essere “annunciato” e la profezia ha bisogno dell’istituzione per assolvere alla sua funzione. Questa può, però, ridursi ad «uno scheletro istituzionale, necessario e utile come sostegno, ma non sufficiente ad una vita piena, e pericoloso se tende a promuovere l’ossificazione di tutti i tessuti». È altrettanto essenziale, perciò, che non «si esaurisca il processo di ecclesiogenesi dal basso».
A Firenze, di là da ogni pur legittima soddisfazione e fuori di ogni trionfalismo, si è acceso un segno: la speranza che di questo processo siano in molti, «accomunati dalla passione per la chiesa», ad assumersi la responsabilità senza attendere deleghe o investiture.
Un segno di speranza che va ad aggiungersi ad altri già diffusi come il rilancio, anche nella base parrocchiale, dello studio dei testi conciliari e l’aumento dello spazio di comunicazione e di confronto intraecclesiali offerto dal nuovo “fascicolo arancione” dell’agenzia Adista.
Sono tutti segni di un impegno che non intende esaurirsi in un ghetto ecclesiocentrico, ma farsi altresì carico, pur nella distinzione di ruoli e di strumenti, sia della grave crisi della democrazia, che grava sul nostro paese anche a causa dell’interventismo della gerarchia ecclesiastica in netta contraddizione con il dettato conciliare, sia della ripresa di iniziative dal basso che liberino l’ecumenismo dalle secche della diplomazia istituzionale.
tratto da www.cdbitalia.it

 di Giancarla Codrignani
Nessuno potrà mai spiegare perché un incontro come questo non sia stato fatto trent’anni fa (a parte il fatto che molti – adulti quando si concludeva il Vaticano II – si lamentavano già allora del contenimento dello Spirito giovanneo operato da un Paolo VI troppo prudente nei confronti della curia). Anche se la chiesa non definisce mortali i peccati di omissione, dobbiamo – noi “vecchia generazione” – assumerci le nostre responsabilità. La Lumen gentium aveva dato autorevolezza ai laici, che non se la sono presa. Poi si sono succedute le generazioni che, via via, hanno assunto posizioni più o meno autonome, nel senso che dimenticano ogni significato del sesto comandamento, ma non si scandalizzano se il papa dà ordini al governo e, se arriva in parrocchia un vescovo, gli baciano l’anello: per l’istituzione è abbastanza per definirli buoni cristiani.
Questo è reso possibile dall’ignoranza sostanziale dei cattolici italiani per ciò che concerne la loro fede. E spiega perché i presunti contestatori di oggi facciano parte di gruppi di approfondimento biblico o di spiritualità e si rendano conto di questioni fondamentali, come la collegialità, solo perché finalmente qualcuno rilegge con loro i valori del Vaticano II. Così finalmente, arrivano a conoscerne l’apertura a un futuro che, dopo quarant’anni, sta premendo per avanzamenti ulteriori.
Bene, dunque, questo risveglio che, come dice p. Giannoni, non è “contro”, ma “per”. Bene, allora, riprendere a lavorare. Non sarà facilissimo, perché i linguaggi sono cambiati e l’argomentare richiede qualche cognizione più solida per diventare appetibile per i più giovani. Certamente i gruppi dovranno continuare i loro percorsi e mantenere e, anzi, moltiplicare i collegamenti di rete, mantenendo le loro specificità, ma facendosi sensibili allo spettro intero della problematica.
Per esempio, nei bellissimi interventi introduttivi era del tutto silente la questione della presenza delle donne in una chiesa androcentrica. Non basta dire “sororità” dopo fraternità o parlare di “nuova Eva” a continuazione con il nuovo Adamo. Il discorso clericale ha sempre parlato di “viscere materne”, di “doglie del parto” senza conoscenza reale dei fatti di cui parla. La sessuofobia è il dato di realtà che esclude la donna, come se ancora se ne conservasse introiettata l’impurità.
Bisogna riconoscere che la sola “novità” in filosofia è la rottura dell’aristotelismo dell’Uno prodotta dal femminismo. E bisogna leggere le teologhe, che analizzano questa fattispecie di violenza maschile che è il potere clericale, estraneo alle intenzioni di Gesù, di escludere il femminile dall’area del sacro. Nell’ambito clericale non è richiesta neppure quell’omologazione che è l’insidia principale della norma laica, disposta a cedere qualche “posto” di autorità alle donne in cambio dell’accettazione del modello unico. D’altra parte nessuna donna, neppure se consacrata, vorrebbe diventare “questo” prete.
Anche nell’ambito familiare è stupefacente che l’amore sia entrato nella sacramentalità del matrimonio solo con il Vaticano II: provate a spiegare ai giovani che prima c’era solo il “crescete e moltiplicatevi” e il remedium concupiscentiae (da dirsi in latino per non vergognarsi) e vedrete le reazioni. Dare riconoscimento al “genio femminile” per consacrarlo alla famiglia è ridurlo a un puro complimento galante. Anche le donne hanno ricevuto la grazia del Vangelo: se onorassimo la competitività per il potere, avremmo domandato da sempre “chi” è stata invitata ad annunciare la resurrezione ai fratelli rimpiattati in casa per la paura. Ma nessuno può dimenticare che, almeno per il futuro, siamo concretamente – per cultura, non per ragioni biologiche – “segno dei tempi”.
 


Luned́ 25 Maggio,2009 Ore: 12:21