Interrogativi teologici sollevati dall’Appello per la fedeltà alla confessione di fede
Sola confessione e/o sola Scrittura?
di SERGIO RONCHI
C’è il rischio di sostituire il riformato «Sola Scriptura» con l’essenzialmente cattolico «Sola Confessio». E di mettere fuori causa il rapporto (tutto riformato) Spirito-Parola
Riprendiamo questo articolo dal numero di Riforma di VENERDÌ 10 SETTEMBRE 2010 nella pagina dei commenti. Il testo fa riferiment all'appello che la "destra valdese" ha fatto al recente sinodo della Chiesa Valdese in merito alla questone della benedizione delle coppie gay. L'autore di questo articolo sostiene che l'appello è contrario allo spirito e ai principi della riforma protestante e che l'appello risponde più ad una logica di cui sarebbe invece impregnato il cattolicesimo romano. e riflessioni del prof. Ronchi ci sembrano interessanti anche perchè mettono in chiaro il senso del «Sola Scriptura» e della interpretazione della Bibbia. Per tutto il dibattito relativo vedi alla pagina www.ildialogo.org/chieselocali .
L’ Appello al Sinodo per la fedeltà alla nostra confessione di Fede (Riforma, XVIII [2010], n. 30, 30 luglio, p. 9) solleva, fin dal titolo, una molteplicità di interrogativi teologici.
L’appello è «richiamo», «implorazione»; non meno, ricorso a un giudice superiore. In ogni caso, è spia di una situazione grave e che potrebbe vieppiù aggravarsi. Per cui, bisogna correre ai ripari senza indugiare, prima che sia troppo tardi. Però, che cosa è in pericolo (e poi chi lo stabilisce, con sì ferma sicurezza)? La Chiesa valdese, la sua essenza e, pertanto, la sua testimonianza nel «mondo», essendone «tradita» la Confessione di fede? O, piuttosto, non è in pericolo ben altro, se si deve fedeltà a un testo contingente senza alcuna pretesa di «canonicità»? Se ne legga l’ultimo articolo.
La Breve confessione delle chiese riformate del Piemonte (1655) in trentatre articoli è contenuta alla fine di uno scritto, Suite de la relation véritable, nel quale si denuncia il massacro della minoranza valdese nel corso della «primavera di sangue» (si ponga attenzione sulle contestuali righe di premessa).Il protagonista di quelle tragiche giornate è quel Giosuè Gianavello che improvvisa la resistenza e che ha lasciato un manuale di guerriglia.
Per tornare a quest’ultimo, le virgolette alte che nella citazione di apertura racchiudono l’aggettivo dimostrativo per calcarne il significato «attuale» non sono certo attribuibili all’autore secentesco di quelle parole. Inoltre, nell’Appello vengono citati due articoli della Confessione, il secondo e il terzo. Al pari di ogni altro testo analogo o simile, ogni articolo è corredato di citazioni bibliche di avallo disposte secondo criteri logico-concettuali: l’art. II ne ha otto, non soltanto II Pt. 1, 20 (non vv. 20-21); l’art. III ne ha 20 e non solo Gal. 1, 9.
Il primo fra i detti «casi» è del tutto consapevolmente strumentale e non può che suscitare solo fondati «sospetti», oltre a scadere in un appiattente anacronismo. I restanti due, invece, conducono a un discorso delicato: quello dell’interpretazione dei testi scritturali. Quei nostri padri resistenti non disponevano certo di strumenti bibliografici «raffinati»; per cui ignoravano che la II Pietro è scritto molto tardo (ca. 120, se non oltre) e marginale (dato di estrema importanza, come vedremo). Mentre, circa la citazione dall’epistola paolina (anch’essa del tutto strumentale) è sufficiente consultare un buon commentario di alta divulgazione per scoprire come quel versetto apostolico parli di ben «altro».
Il testo dalla II Pietro, ma soprattutto II Timoteo («Ogni Scrittura è ispirata da Dio» [3, 16]), ha dato nome alla «dottrina dell’ispirazione» nelle sue espressioni più tardive, fino a sfociare nel fondamentalismo: la Bibbia è parola di Dio anche nei segni di interpunzione. Così ragionando, però, si giunge a identificare Bibbia e Scrittura e, di conseguenza, a legare la libertà di Dio a una parola di uomini, ovvero a mettere fuori causa il rapporto (tutto riformato) Spirito-Parola. Così, fra l’altro, è molto più facile far dire alla Scrittura ciò che meglio aggrada al lettore-interprete (come per Gal. 1, 9). Comprendere le pagine bibliche in tale angolo visuale equivale a eliminare una categoria della Incarnazione, «la mediazione» (Vittorio Subilia), che è «carnale», storica.
Le Pastorali sono frutto dell’età sub-apostolica, quando si comincia a «scivolare» verso una struttura gerarchico-autoritaria della Chiesa quanto ai ministeri e alla mutazione della sua auto-coscienza, percepibile anche nel linguaggio: la fede viene sostituita dalla «conoscenza», la parola di Dio diventa «sana» o «buona dottrina» (I Tim. 1, 10; 4 ,6), la Tradizione, che viene conservata in un «deposito» che qualcuno deve custodire preservare trasmettere: è il compito di una Chiesa che non è più apostolica e che comincia a essere cattolica, a trasformarsi in un istituto «base e colonna della verità» (I Tim. 3, 15).
La «sana dottrina» deve attenersi «al modello delle sane parole» (II Tim. 1, 13) trasmesse e il cui contrapposto è dato dalle dottrine eterodosse (I Tim. 1, 3; 6, 3) professate dagli eretici (Tito 3, 10). È l’eresia: «O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza» (I Tim. 6, 20). In detto quadro va collocata II Pt. 1, 20. «[…] si attribuisce [la dissidenza] a causanti deteriori di superbia, ignoranza e vacuità spirituale o di bassa condotta morale (I Timoteo 1, 19; 6, 3-5; II Timoteo 4, 3; Tito 1, 10-11.15-16) […]. Una impostazione di questo genere presuppone una coscienza di possedere oggettivamente la verità […]» (Vittorio Subilia).
Il «deposito» è il contenuto della Tradizione; e la Tradizione – come scrive un noto teologo cattolico, Louis Bouyer – «[è] un insieme di verità che sono state affidate dal Cristo agli apostoli e che sono custodite come un sacro deposito dalla chiesa, che non può togliere o aggiungere nulla a esse».
È lo stesso linguaggio dell’Appello, documento tutto e solo cattolico, nel quale la Tradizione viene sostituita dalla Confessione di fede del 1655. In altre parole, il riformato sola Scriptura è stato sostituito dall’essenzialmente cattolico sola Confessio; i custodi e interpreti del deposito – qui diventato «l’ordinamento valdese […] prezioso strumento per custodire la buona dottrina […] [che] regola il nostro essere chiesa – non sono il Magistero ma quei credenti protestanti, quei fratelli in Cristo, i quali constatano come «nella Chiesa si [affermino] progressivamente interpretazioni sempre più personali» e perciò chiedono che il Sinodo «prenda adeguati provvedimenti verso i comportamenti che violano l’ordinamento valdese». Richiesta, quest’ultima, altrettanto cattolica per linguaggio essenza prassi.
Ciò, in forza del fatto che siamo in presenza della «classica sintesi medioevale che assimilava Sacra Scrittura e dottrina ecclesiastica nel mistero unitario di una reciproca implicanza, per cui la tradizione veniva ad essere pensata come una specie di dilatazione della Parola nella chiesa, organo della sua trasmissione […]» (Vittorio Subilia). La medesima impostazione – nell’insieme – della costituzione del Vaticano II De divina Revelatione.
Allora, gli estensori del documento avvertono rammaricandosi che «da tempo la Chiesa Valdese […] impegna il proprio nome in iniziative, a volte anche lodevoli, almeno nelle intenzioni, che per la loro fallacia creano divisioni e non hanno nulla a che fare con ciò che essa deve essere: “la compagnia de’ fedeli” […]». È un giudicare gli altri fratelli e la loro fede; i quali non si attengono alle parole di Gesù che non passeranno, bensì alle «umane dottrine che oggi trionfano domani cadono nell’oblio o nel discredito […]». È un «dettare» indirettamente le contingenze, «luoghi» per una testimonianza autenticamente evangelica.
Qui, arriviamo a un’altra pruriginosa questione: la fede da ascolto del kérygma e risposta alla Parola è diventata concezione del mondo; e quando ciò si verifica siamo davanti a una comprensione statica della Parola e a una oggettivazione di Dio stesso, ormai ridotto a frammento di realtà e, in quanto tale, manipolabile, a disposizione dello homo religiosus.
Il sito dei fratelli valdesi fedeli alla commistione sola Scriptura-sola Confessio presenta l’immagine di fondo di una Diodati aperta alla prima pagina dell’evangelo secondo Giovanni, l’evangelo dell’amore (cfr. 15,12-17). L’amore, secondo il Nuovo Testamento, non può essere codificato in formule fisse essendo un insieme di atti di amore determinati dalle circostanze. L’amore biblico è, per l’appunto, a tutto campo: nessuno può stabilire nel senso più assoluto – a meno che non confonda tra fede e concezione del mondo, tra visioni partitiche e di politiche governative e realtà del vivere quotidiano – chi amare e chi no, che cosa dire e fare e che cosa non dire e non fare. Il prossimo non ce lo scegliamo: ci è donato da Dio. Ecco che una lettura fondamentalista-politica (in senso deteriore e non già etimologico) stabilisce che cosa la Scrittura contiene e che cosa non contiene.
Il linguaggio biblico illustra la relazione di Dio all’uomo e comprende l’uomo posto «fra Dio e mondo» (Friedrich Gogarten). Se il mondo è tutto creazione di Dio, allora non ci si può affannare a stabilire quali questioni sono comprese nelle «sacre» pagine e quali ne sono escluse; non si può ragionare biblicamente e cristianamente secondo lo schema ideologico-infantile: «Quei valdesi che fanno/ dicono… sono di sinistra»; se ne deduce che essi non sono punto valdesi.
In un suo intervento letto nel sito «valdesi.eu», il fratello Lucio Malan, parlamentare, segretario di Presidenza del Senato, firmatario dell’Appello, sostiene che, per esempio, fra altro, «la cosiddetta privatizzazione dell’acqua» non si trova nella Bibbia. Eppure l’acqua fa parte del creato il cui autore non è il Supremo Architetto dell’Universo, ma il Dio vivente. Né in quelle stesse pagine si parla di xenofobia, di razzismo, di omofobia, di libertà religiosa, di direttive anticipate di fine vita, di libertà di stampa, di tortura, di diritti negati (di giustizia sociale, sì), di clandestini (di accoglienza dello straniero, sì), di riapertura di strutture concettualmente manicomiali (di recupero pieno dei malati psichici, sì) e di «case chiuse» (della riabilitazione delle prostitute, sì), di equiparazione fra vittima e carnefice (però, distingue), dell’appiattimento ed eliminazione di memoria e ricordo (bensì, dell’esatto contrario)… Invece, a esempio, dichiara «beati» quanti sbattono gli altrui bambini contro la roccia (Sal. 137, 9); oppure, di lapidare a morte «il figlio caparbio e ribelle» [Deut. 21, 21]; non gli omosessuali).
Che cosa fare, dunque? Tacere su tutto ciò e su quant’altro? L’Appello è pervaso da ossessione; e quando un credente è ossessionato non è libero. Al contrario, la libertà del cristiano (che è una libertà liberante) porta a non praticare artificiosi distinguo appieno e solo strumentali e ideologici o di natura ancora peggiore; implica che un credente può essere di destra o di sinistra, ma se la sua fede è tale (e, dunque, critica), e non al contrario una concezione del mondo, dovrà relativizzare radicalmente la propria militanza politico-partitica e scontrarsi con la propria rispettiva coalizione (e non meno con singoli individui), pena lo scadere nell’idolatria e nell’infedeltà (condannate dalla Scrittura).
La libertà del cristiano, di converso, significa «Eppure noi abbiamo la mente di Cristo» (I Cor. 2, 16). Ma si ha «la mente di Cristo» quando sulla questione rom, clandestini etc. etc. si rilasciano dichiarazioni identiche per linguaggio e contenuti a quelle del vice-sindaco di Milano Riccardo De Corato? Ma si ha la mente di Cristo se si tace su quanto offende e distrugge (sino alla morte fisica) chi è extracomunitario od omosessuale, sulla guerra all’Iraq, sulle torture, sulla legalità violata «legalmente»…? Ma si ha «la mente di Cristo» quando si urla a squarciagola contro Rita Levi Montalcini e gli altri senatori a vita al momento del voto, per poi praticare un assordante silenzio altrettanto pubblico su tutto ciò che anche e soprattutto da credenti non si può tacere?
Riflettiamo tutti quanti insieme e a uno a uno sul fatto che siamo salvati per grazia, ma giudicati in base alle nostre opere (Rom. 2, 2-11); che salvati per grazia implica anche essere salvati fuori dalla fede in Cristo (Huldrych Zwingli) in forza della libertà di Dio; il quale non ha bisogno di avvocati (gli amici di Giobbe) né di rendere conto a chicchessia del proprio agire. E quando si apre la Bibbia per porsi in ascolto della parola di Dio si mediti su queste parole di Karl Barth: «La fede si distingue dall’incredulità, dall’eresia, dalla superstizione per il fatto che si limita ad una conoscenza di Dio soltanto indiretta». Giovedì 09 Settembre,2010 Ore: 14:48 |