Riflessione
GUERRA: LA NUOVA NORMALITA’

di Sandro Martis

Riceviamo questa riflessione di Sandro Martis di Cagliari, da don Aldo Antonelli che aggiunge di suo quanto segue:

"Forse non ci facciamo più caso, ed è pure peggio, ma siamo in guerra.

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Il capolavoro è stato quello di farci accettare supinamente la condizione di guerra perenne.

Non ci indigniamo più.

Non ci indigniamo più per i massacri.

Almeno finché non ci arrivano sotto casa.

Finché a morire sono gli altri.

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Non dirò, non mi interessa farlo, che "l’11 settembre" sia un complotto ordito da Bush per giustificare ciò ch’è avvenuto dopo. Altri lo dicono. Non dirò, non mi interessa farlo, che Bin Laden sia anima bella che si batte per difendere gli oppressi. Altri lo dicono. Io non lo so. L’uno e l’altro - ammesso che il secondo esista e non sia un’invenzione del primo, come il Goldstein di "1984" -, sono facce della stessa medaglia.
Medaglia che il demiurgo cesella con pazienza, in un percorso di decenni o secoli, passando attraverso la morte di Dio, o dell’Etica - "Se Dio non c’è tutto è permesso", (Karamazov) -, il consolidarsi di un tilitarismo rozzo, arraffone, individualista, violento con i deboli, servile coi potenti, amorale, erede dei colonialismi e dei fascismi, degenerato in quella mutazione antropologica che, nel passaggio dalla cultura contadina, legata alla terra - ai suoi ritmi, lentezza silenzi solidarietà -, a quella industriale e postindustriale - velocità frastuono competizione alienazione -, ha avuto compimento.

La società dei consumi, della televisione, e l’uomo ad una dimensione.

C’è una regia in tutto questo?

Non lo so.

Ma tutto questo è".

Le riflessioni mi vengono da Sandro Martis, di Cagliari.

Se vi interessa il discorso più ampio lo trovate in allegato.

Buona Notte.

Aldo


GUERRA: LA NUOVA NORMALITA’
Forse non ci facciamo più caso, ed è pure peggio, ma siamo in guerra.
Ce ne siamo accorti di tanto in tanto, quando, per dirla con Fabrizio de Andrè, "hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere". Dei soldati italiani. Gli altri non contano.
Di vecchi e bambini, di donne e di uomini, i civili - come li chiamano, forse per ridurli a entità astratta, forse per distinguerli dagli incivili, che fanno la guerra -, che i soldati si trovano a massacrare più o meno
casualmente, non si fa quasi menzione. Sono esseri lontani, di costumi diversi, e sotto sotto, diciamocelo, per una curiosa mistura di maldigerito relativismo culturale e fondamentalismo occidental-cristiano, ci paiono pure in qualche modo inferiori. In fondo, il loro dolore non è meno sopportabile di quello che ha dovuto patire quel pollo succulento che abbiamo divorato a pranzo, e che qualcuno ha ammazzato per noi.
Anche gli afghani o gli iracheni, qualcuno ammazza per noi.

Il capolavoro è stato quello di farci accettare supinamente la condizione di guerra perenne.
Non ci indigniamo più.
Non ci indigniamo più per i massacri.
Almeno finché non ci arrivano sotto casa.
Finché a morire sono gli altri.

Ci hanno spiegato che c’è il terrorismo internazionale.
Ci hanno spiegato che dopo l’11 settembre il mondo non era più lo stesso.

Non che prima non ci fossero guerre e massacri. C’erano. Le guerre venivano combattute in remoti angoli di mondo qualche volta da fazioni o stati foraggiati dall’Occidente, qualche volta per assicurare petrolio o diamanti all’Occidente, qualche volta per consumare armi prodotte in Occidente. O cose del genere.
Non era sempre così. Ma quand’era così, e lo era spesso, le nostre responsabilità di occidentali con la pancia piena e gli occhi chiusi diventavano, diventano, ancor meno sopportabili. In quest’ipotetico Occidente includeremmo l’Unione sovietica di allora, impegnata anch’ella a reperire risorse, e far crescere il suo bacino d’influenza. E per quella pax mafiosa che chiamavamo guerra fredda, per quell’equilibrio costruito sulla paura dell’apocalisse nucleare, i conflitti non si erano mai allontanati dalla dimensione regionale. Non ci toccavano.
Altri si scannavano per noi.
Poi a Berlino è caduto il muro e a New York le Twin Towers.
L’equilibrio si è rotto, e i morti hanno preso a fioccare anche qui.
In questo senso, e solo in questo, il mondo non è più lo stesso.

Non dirò, non mi interessa farlo, che "l’11 settembre" sia un complotto ordito da Bush per giustificare ciò ch’è avvenuto dopo. Altri lo dicono. Non dirò, non mi interessa farlo, che Bin Laden sia anima bella che si batte per difendere gli oppressi. Altri lo dicono. Io non lo so. L’uno e l’altro - ammesso che il secondo esista e non sia un’invenzione del primo, come il Goldstein di "1984" -, sono facce della stessa medaglia.
Medaglia che il demiurgo cesella con pazienza, in un percorso di decenni o secoli, passando attraverso la morte di Dio, o dell’Etica - "Se Dio non c’è tutto è permesso", (Karamazov) -, il consolidarsi di un tilitarismo rozzo, arraffone, individualista, violento con i deboli, servile coi potenti, amorale, erede dei colonialismi e dei fascismi, degenerato in quella mutazione antropologica che, nel passaggio dalla cultura contadina, legata alla terra - ai suoi ritmi, lentezza silenzi solidarietà -, a quella industriale e postindustriale - velocità frastuono competizione alienazione -, ha avuto compimento.
La società dei consumi, della televisione, e l’uomo ad una dimensione.
C’è una regia in tutto questo?
Non lo so.
Ma tutto questo è.

Cosa siamo diventati?
Verrebbe da sorridere, se non ci fosse da piangere, per le reciproche accuse che La Piazza e Il Principe si scambiano.
Anche se, a definir principi Prodi o Berlusconi, ci vuol coraggio. La Piazza accusa Il Principe di essersi arroccato, chiuso in una casta, di impunibili arroganti privilegiati, intenta solo ad amministrare clientele a
suo esclusivo profitto. Quasi tutto vero. Il Principe accusa La Piazza di essere agitata da invidiosi che solo
lamentano di esser stati esclusi dalla grande abbuffata. Quasi tutto vero. Con un’unica non trascurabile differenza: chi detiene il potere ha enormi responsabilità, controllando l’industria culturale, sulla degenerazione etica ed estetica delle popolazioni, di cui è anch’egli vittima (pensate a Fassino che va da Maria De Filippi); ed avrebbe anche gli strumenti per porvi rimedio. Se solo volesse.

Da sempre, il popolo chiede panem et circenses, e questo Il Principe lo sa. E solo quando il pane, o le brioches, cominciano a scarseggiare, il popolo prende a scalpitare. Questo Il Principe ha imparato a sue spese.

Ma cosa siamo diventati?
Se assistiamo senza fiatare alle stragi di innocenti in guerre compiute in nome nostro e per il nostro benessere? Se sulla spiaggia dove prendiamo il sole approdano cadaveri di esseri che fuggono la fame, la miseria, le guerre, e noi lasciamo tranquillamente affogare, salvo rinchiudere, se per ventura scampino alle onde, in campi di concentramento, e rispedire, se sopravvivono, nei luoghi da cui fuggono?
Cosa siamo diventati?
E non ci consoli pensare che forse così siamo sempre stati.
Mostri.

Il 4 novembre, ogni anno, si celebra una festa.
Celebrazione dei caduti della Prima Guerra. Una mattanza che soldati poveri e malvestiti, molti partiti dalla nostra isola, hanno inflitto o subito, per nome e conto di governanti che oggi come ieri non pagano dazio, e non mandano figli in guerra.
Ogni anno assistiamo alla retorica patriottarda degli eroi e dei martiri. Niente di male, forse, se si pensa al giusto e commosso ricordo di figli e nipoti di tante persone talvolta umili che, senza chiedersi perché,
partirono, quando non era di moda la disobbedienza, ad ammazzare e farsi ammazzare, per allargare gli orizzonti di gloria di governanti di mezza tacca, nelle guerre di sempre. Tanto di male, invece, se si pensa alla cultura che si propaganda: quella del credere, obbedire, combattere. Quella del non chiedersi il perché delle cose. Quella di chi strumentalizza le guerre di ieri - imbellettandole con fanfare e pennacchi, quando sono invece sangue, ventri sbudellati, rantoli e puzza -, per non far pensare a quelle di oggi. Tanto di male, invece, se si pensa, alla teoria di nostalgici figuri vestiti di nero che tali celebrazioni riportano a galla. Tanto di male, invece, se si pensa alla vetrina che costituiscono per livree, porpore e divise, intente tutte a legittimare e perpetuare un sistema di potere basato su indottrinamento, irreggimentazione, ignoranza, asservimento al modello di consumo e razzia dominante.

Occorre fermarsi a pensare. E occorre esprimere dissenso. Quantomeno se si sia convinti che questo non sia il migliore dei mondi possibili. Ma stiamo attenti.
Sistemi consolidati come il nostro prevedono, consentono, auspicano una moderata azione di dissenso proprio per propagandare un pluralismo, una tolleranza che di fatto non esistono.
Agitare bandiere della pace, marciare per la pace in marce organizzate dai partiti che votano le guerre, e cose simili, può servire a poco. Anzi, serve a zittire le nostre coscienze, a convincerci che quanto potevamo abbiamo fatto, e tirare i remi in barca. Il nostro marciare, ancorché pacifico (altrimenti si giustifica la criminalizzazione del dissenso), in questo inizio secolo, ha mai salvato una e una sola vita umana? Chiediamocelo.


Sandro Martis, Cagliari




Mercoledì, 31 ottobre 2007