Ogni giorno la nonviolenza
Le conseguenze politiche della speranza

(PARTE PRIMA)


di Roberto Mancini

[Ringraziamo Roberto Mancini (per contatti: r.mancini@unimc.it) per averci messo a disposizione come contributo per la Giornata della nonviolenza il testo inedito di una relazione svolta a un convegno promosso dall’associazione Macondo ad Asiago a fine agosto]


Premessa

Parlare insieme di politica in un contesto come quello che ci accomuna qui non puo’ voler dire farsi una rappresentazione pessimista oppure ottimista delle cose; deve piuttosto essere un modo per rivitalizzare un potenziale di energia e per imparare insieme a contribuire a processi di liberazione, di risanamento, di democratizzazione, di umanizzazione. Vi propongo di entrare in questa prospettiva seguendo lo svolgimento di una riflessione che tocca questi nuclei tematici: la crisi della mediazione politica, la speranza, il metodo dell’agire politico e la possibilita’ di una politica di servizio. Tutto ruota attorno alle conseguenze politiche della speranza vera.

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1. La societa’ ridotta a economia

Su come vanno le cose oggi vorrei solo evidenziare quello che, secondo me, e’ il nucleo contraddittorio del nostro presente storico. La parte oscura e’ sintetizzabile nella riduzione della societa’ a economia e dell’economia a capitalismo distruttivo. L’indole distruttiva di questo sistema si coglie inoppugnabilmente gia’ dal fatto enorme per cui l’economia attuale potrebbe eliminare la fame e invece la produce.

Tale tendenza sistematica e’ a suo modo il culmine della logica di dominio che si e’ dispiegata lungo la storia dell’Occidente. Horkheimer e Adorno, nel mostrare il codice genetico e le trasformazioni storiche per cui la societa’ occidentale, e poi mondiale, ha organizzato tutto secondo tale logica, osservano: "il dominio sopravvive come fine a se stesso in forma di potere economico" (M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 2002, p. 110). Questa traccia va letta nella profondita’ di cio’ che mostra. Perche’ il dominio radicale, il dominio puro, assume nella societa’ proprio la forma dell’economia? Anzitutto occorre una precisazione. Quando parlo di economia non intendo solo l’economia puramente materiale, la produzione, la distribuzione, il consumo, la dialettica del capitale e del lavoro. Intendo anche e indissolubilmente una forma globale di vita, una sovracultura mondiale, una civilta’, uno sguardo collettivo sulla realta’. Anzi, oggi l’economia e’ soprattutto questo e, di conseguenza, e’ anche un modo di produzione, di distribuzione, di consumo. Pertanto l’economia attuale e’ una forma di religione, di metafisica, di senso totale, di antropologia effettiva (che cioe’ tende a realizzare l’immagine di uomo in cui si specchia), di etica, di cultura, di logica. Dunque deve essere chiaro che non sto criticando il predominio dell’economia, instaurato secondo una logica che di solito viene definita economicismo, adottando a mia volta un approccio che, senza avvedermene, sarebbe altrettanto economicista. Questo era l’errore del marxismo meccanicista e determinista. La mia critica si volge contro l’economia fattasi pensiero globale e unico, divenuta spiritualita’ perversa e concreta degli esseri umani, eretta a modello finale di ogni civilta’. Di tutte le sfere di esperienza dell’essere umano, l’economia e’ quella che riguarda la sopravvivenza. Ma la sopravvivenza pura, fine a se stessa, e’ tutt’altro che naturale. Quando essa, in quanto finalita’, viene assolutizzata si deforma la condizione umana. La vita, nell’anelito che la fa respirare - cioe’ la vita umana ma anche la vita delle altre creature e della natura - non cerca solo la sopravvivenza, tende a una vita liberata dal male e dalla morte come distruzione finale. Ridurre ogni cosa a economia significa fabbricare un sistema in cui la sopravvivenza bruta si sostituisce alla vita e, ancor piu’, a ogni possibilita’ di vita vera. Se noi siamo un tessuto di vite uniche e tutte legate tra loro e tutte tendenti a una liberazione integrale, allora ridurre la condizione dei viventi alla megamacchina dell’economia significa isolare ogni filo del tessuto e costringerlo a fare di tutto per continuare a sussistere in questo stato contronatura e anticreaturale. La sopravvivenza diventa lo sforzo di vivere al di sopra degli altri, senza e contro di loro. Una civilta’ della sopravvivenza resta incompatibile con una societa’ della convivenza, dove "convivere vuol dire sentire e sapere che la nostra vita, seppure nella sua traiettoria personale, e’ aperta a quella di tutti gli altri" (M. Zambrano, Persona e democrazia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 14).

Dal punto di vista della sua struttura ontologica, una simile "economia" e’ vita separata che pensa a se stessa, a riprodursi cosi’ com’e’, senza neppure pensare piu’ alla propria felicita’. Anzi, questa vita teme sia la morte che la felicita’ stessa, perche’ entrambe sono incompatibili con il fine della mera sopravvivenza. La radice dell’eclissi della speranza in una societa’ ridotta a economia sta proprio nella coazione a non credere piu’ nella felicita’ per perseguire sempre e comunque la sopravvivenza puramente biologica. Perche’ invece gia’ solo l’idea di felicita’ evoca l’armonia del tessuto degli unici, la sua possibile vita nuova comune.

La prima frode implicata nell’adattare la vita all’economia sta nel credere nella scarsita’ naturale e nella conseguente necessita’ della lotta di tutti contro tutti. La sopravvivenza cosi’ intesa ha le sue coordinate appunto nella scarsita’ di risorse e di beni e nella lotta universale. Coordinate ritenute nel contempo naturali, necessarie, logiche e promotrici di progresso, dunque benefiche. Percio’ l’economia diviene non solo la scienza della sopravivenza selettiva e mai universale, perche’ infatti e’ la sopravvivenza di pochi a scapito della sopravivenza di molti altri, ma anche la profezia autorealizzantesi della societa’ come giungla mortale.

Sotto la frode della scarsita’ che esige la lotta e’ all’opera una dialettica realmente metafisica che e’ quella del confronto tra il male e il bene. Non parlo di un’ideologia del bene, che coinciderebbe con la mia parte o tradizione, ne’ di un’identificazione di comodo del male, che risulterebbe impersonato da chi e’ altro per me, nemico o pericolo per la mia vita. Parlo invece del male come forza violenta e dinamica reale di distruzione, e del bene come corrente di condivisione della pace, della giustizia, del rispetto, della liberta’, della cura, dell’amore nonviolento. Se e’ chiaro che il male opera distruggendo, e che e’ in se’ distruzione, d’altronde, per cosi’ dire, il male non "vuole" cessare, estinguersi, "vuole" vivere. Quindi intrattiene con la vita un rapporto ambiguo e contraddittorio. La vuole distruggere, ma anche la vuole per se’. Deve assestarsi esso stesso e rigenerarsi al livello della sopravvivenza; deve distruggere la vita e insieme mettere un limite alla distruzione. In cio’ il criterio operativo del male assomiglia allo schema logico della tortura: offendere, negare, colpire, ma possibilmente senza giungere alla morte della vittima, o comunque senza giungervi troppo presto. Il male infatti non e’ una tortura per le creature che lo subiscono e, in altro modo, per gli esseri che lo servono? E il sistema economico vigente non tortura forse la vita del mondo naturale e la vita di milioni di persone?

Il male vuole usurpare il bene, sostituirglisi, ma non puo’ e non vuole distruggere totalmente la vita per sempre. Sarebbe distruggere la vita del male stesso. Lo schema logico e sistemico dell’operare del male e’ lo stesso dell’economia della sopravivenza selettiva. Ecco perche’ la forma sociale e storica piu’ pura di dominio, quella piu’ "adeguata" a esprimere e perpetuare il male, e’ l’economia impazzita, l’economia della sopravvivenza selettiva e della distruzione prevalente. Il male ha un interesse costante alla disuguaglianza, alla divisione, al privilegio e alla discriminazione, tutti frutti velenosi che l’economia attuale produce sempre di nuovo. E’ vero che il male puo’ avere mille forme e rivelarsi ubiquo: essendo una perversione delle relazioni (con se’, con gli altri, con Dio, con la natura, con la realta’ e con la verita’), esso sfugge a ogni localizzazione e identificazione determinata. Percio’ non sto identificando il male con l’economia, dato che l’economia puo’ e deve essere al servizio della vita e dell’umanita’, e nemmeno con il capitalismo, che e’ invece solo una forma storica del male stesso. Ogni identificazione di questo tipo e’ un cortocircuito e sfocia nell’ideologia, il che concede al male il vantaggio di prenderti alle spalle perche’ tu lo stai ravvisando solo in cio’ che critichi, mentre esso probabilmente e’ gia’ altrove e gia’ dentro di te. E’ la lezione di Hegel nella sua critica della coscienza giudicante (cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Torino, Einaudi, 2008, pp. 418-444). Sto dicendo una cosa un po’ diversa, cioe’ che il male e l’economia della sopravvivenza selettiva sono omeomorfici e omologhi, hanno una forma e una logica che si corrispondono. Quindi piu’ della politica o della morale, dell’arte o della religione, del diritto o della scienza, l’economia impazzita si presta al gioco del male, visto che l’economia e’ per vocazione la sfera d’esperienza piu’ direttamente impegnata con la sopravvivenza, la prospettiva piu’ esposta (insieme a ogni naturalismo metafisico) a cadere nell’errore di risolvere la vita entro la dialettica di scarsita’, sopravvivenza e lotta. In sintesi: l’economia della globalizzazione non e’ il male, e’ l’organo oggi piu’ sistematico dell’operare del male nella societa’.

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2. Ripensare la mediazione della politica

In una societa’ "dove ormai non solo la politica e’ un business, ma il business e’ tutta la politica" (M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 187) il rischio dell’impotenza e dell’inaridimento e’ molto forte. Sia per il funzionamento democratico delle istituzioni, sia in particolare per tutti coloro che vorrebbero un cambiamento vero. Oggi abbiamo bisogno di una deglobalizzazione liberatrice, in parte come ci fu, a meta’ del secolo scorso, una decolonizzazione. Ma naturalmente senza le ambiguita’ e le involuzioni neocolonialiste di quel processo in Africa e in Asia.

Per capire il rapporto tra le possibilita’ del cambiamento della storia, quelle del cambiamento della politica in quanto tale e gli eventuali risultati di quella medesima prassi politica che dovrebbe nel contempo appunto mutare se stessa e trasformare la societa’, occorre analizzare, tra gli altri, anche il problema della mediazione. Chiunque abbia imparato qualcosa da Hegel e, soprattutto, in modo con lui ormai pienamente adeguato e demistificato, da Gandhi sa che la forza dirimente e decisiva nella storia non e’ data nell’origine o nella meta, e’ data nella mediazione. La mediazione non e’ solo un mezzo, un processo neutro, uno strumento ambiguo, e’ la forza decisiva, qualitativa, orientativa della realta’. Anche se, come dovro’ precisare piu’ avanti, questo non dice affatto che sia il soggetto della storia.

La crisi della politica, in questo senso, deriva dal fatto che oggi e’ l’economia la forza mediatrice per eccellenza e la politica puo’ svolgere sottomediazioni o movimenti reattivi e di corto respiro. Se e’ cosi’ ne’ il diritto, ne’ la scuola e il sistema educativo, ne’ l’opinione pubblica e il sistema informativo e neppure le culture religiose in quanto mondi vitali e rappresentazioni della vita riescono a sfuggire a questa morsa. Il controsenso di questa condizione e’ stato reso efficacemente, una volta, da George Orwell in questo riadattamento ironico e realistico dell’inno di Paolo alla carita’ (1 Cor, 13, 7): "tutto copre, il denaro, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (G. Orwell, Fiorira’ l’aspidistra, Milano, Mondadori, 1960, p. 7). E’ il mediatore per eccellenza.

Un recupero di forza mediatrice da parte della politica sarebbe indispensabile anche per liberare queste sfere di esperienza sociale e queste correnti della cultura della societa’ dal predominio di un’economia impazzita. Per questa precisa finalita’ sistemica, oltre che per ragioni piu’ determinate e legate alle situazioni concrete, e’ urgente tornare ad agire politicamente o, per molti, iniziare a farlo. Tuttavia il problema non si risolve passando dall’economicismo al politicismo, enfatizzando il significato dei fatti politici o partitici in se stessi. Perche’ la politica puo’ essere e in parte e’ si’ la forza di mediazione che tesse la convivenza. Ma se non si ha cura della qualita’ di questa forza, della natura e dell’energia specifica della mediazione politica, se essa e’ pervasa a sua volta di energie oscure (paura, egoismo, indifferenza), allora la politica non assicura la buona mediazione e anzi aggrava le tendenze distruttive dell’economia impazzita.

Oggi sulla scena mondiale si aggirano mostri etici e politici: Stati Uniti, Russia, Cina, Iran sono paesi in vario modo totalitari, aggressivi, per nulla incapaci di essere distruttivi. Ci sono stati tragicamente ambigui, come Israele, e stati di recente democratizzazione, che vacillano sotto i colpi del ritorno della violenza, come il Sud Africa. Abbiamo poi molte democrazie indebolite, svuotate e inclini a degenerare in oligarchie, come l’Italia. Persistono solo poche isole di democrazia evolutiva, ossia di democrazia che tende a inverarsi, ad approfondirsi. La stessa Unione Europea, il cui spazio di democrazia e’ a rischio di erosione e di alterazione, potra’ consolidarsi nella sua fisionomia originale non certo rincorrendo tendenze e pratiche dei mostri politici, non con il cinismo e lo spirito mercantile, ma radicalizzando ed estendendo la qualita’ democratica della sua forma di convivenza.

Per ora la risultante di tale situazione e’ una crisi mondiale della democrazia dei diritti e dei doveri umani, della giustizia e della pace, dove "crisi" non significa situazione di stallo ma progressiva restrizione, erosione, frana, mutazione genetica. Questa crisi si potrebbe descrivere con le stesse parole con cui Habermas ha descritto una volta la precarieta’ delle relazioni dialogiche e democratiche tra gli esseri umani, le quali "assomigliano a isole minacciate da inondazione nel mare di una prassi, nel quale non domina affatto il modello della composizione consensuale dei conflitti" (J. Habermas, Etica del discorso, Bari, Laterza, 1985, p. 117). La politica e’ uno strumento al servizio della convivenza sociale. E’ umana appunto se e’ una politica di servizio (non di potenza, non di dominio, non di impero, non di un capo), ma proprio come strumento non e’ neutro; quasi tutti gli strumenti hanno una qualita’, un orientamento, sono gravidi del fine cui tendono. Lo strumento della politica e’ ambiguo e ha bisogno di essere affinato e umanizzato costantemente; se invece assumo la politica cosi’ come sembra essere, benche’ con le migliori intenzioni, non porto frutti buoni e anzi rischio di perpetuare gli effetti negativi che volevo superare. Lo strumento della politica e’ di solito lasciato a se stesso perche’ subito l’attenzione viene portata solo sui soggetti e sugli obiettivi e quindi su quell’inevitabile elemento mediatore che e’ il potere non come energia della cooperazione, secondo l’idea di Hannah Arendt, ma come potenza pura e semplice. Si afferma cosi’ una spirale coattiva per cui l’elemento mediatore stesso diventa la cosa piu’ importante: la potenza appunto, il potere per il potere. Per giunta, in una situazione in cui la potenza per eccellenza e’ economica, allora la politica stessa deve asservirsi al gioco capriccioso dell’economia globalizzata. E una politica asservita non potra’ mai essere una politica di servizio.

In questa deformazione logica, ontologica, antropologica ed etica della politica, in una parola in questo suo snaturamento, ricorrono alcuni tipici fenomeni negativi, che finiscono per essere condizioni normali del fare politica.

Uno di essi, l’immaturita’, si mostra nel fatto clamorosamente evidente e frequente che non solo i soggetti attivi in politica spesso non sono formati adeguatamente sul piano etico, umano, spirituale, giuridico-costituzionale, ma inoltre prevalgono piu’ facilmente soggetti narcisisti, prepotenti, talvolta ai limiti della patologia; anzi, non si tratta propriamente di soggetti autonomi e almeno realmente unici, essi sono piuttosto il crocevia di tendenze sistemiche che trovano in essi qualcuno che le impersona, personaggi piu’ che persone (cfr. M. Zambrano, op. cit., pp. 46-48). Basta pensare ai capi politici del nostro tempo, in Italia e all’estero, e si vede che un simile fenomeno si avvicina quasi alla regolarita’ di una legge statistica.

Un altro effetto tipico dello snaturamento della politica sta nel circolo vizioso di autocentramento e frammentazione. Accade cosi’ che si moltiplicano le identita’ partitiche o di schieramento e che esse siano sempre piu’ autoreferenziali, a volte addirittura identificate in un individuo. Cio’ aggrava la frammentazione dello spazio pubblico e delle soggettivita’ politiche, senza che aumenti invece l’attenzione riservata ai processi storici, alle dinamiche concrete di cambiamento e anche al metodo dell’agire. "Nella crisi - ha scritto Maria Zambrano - non c’e’ cammino, o non lo si vede" (ibid., p. 27). Di qui l’impressione di cambiamenti vorticosi alla superficie, ma l’immobilita’, quasi l’atemporalita’ rispetto alla dinamica del cambiamento reale e profondo in meglio. Di qui anche la lacerazione e la frammentazione nel modo in cui una collettivita’ pensa a se stessa: la crisi e’ infatti il luogo in cui si raggiunge il punto piu’ forte di divergenza tra la maggioranza e le minoranze e dove s’instaura il disaccordo delle minoranze tra di loro (cfr. ibid., p. 23).

In questa complessiva crisi della politica si inserisce anche una sorta di volontarismo delle rappresentazioni, per cui ognuno s’immagina a piacimento analisi, scenari futuri, obiettivi, tattiche, strategie, identita’. All’aumento della componente finzionale del fare politica non corrisponde affatto un aumento della capacita’ di vedere. Si fanno rappresentazioni delle cose proprio perche’ non si vedono ne’ la realta’, ne’ la situazione degli altri, ne’ il luogo storico in cui ci si trova. Percio’ non si riesce neppure a individuare le autentiche priorita’ d’azione. Rappresentazione e visione sono inversamente proporzionali. Tutto cio’ esaspera quello che sembra un difetto strutturale della politica, cioe’ che in essa al posto della verita’ conta il potere. Gruppi e organizzazioni che non riconoscono la superiorita’ della verita’ rispetto al loro punto di vista, interesse immediato o ideologia perdono il senso del limite, assolutizzano se stessi, non sanno dialogare e diventano violenti.

Da ultimo segnalo la sterilita’, ossia l’incapacita’ di affrontare le situazioni per cambiarle in meglio, il tradimento della vocazione trasformativa e, per cosi’ dire, sollevativa della politica, quella che porta ad attivare un’energia di trasformazione e di sollevamento delle pesanti conseguenze dell’incuria, dell’indifferenza, dell’iniquita’, della violenza. La politica, in questo modo, non alleggerisce le condizioni di vita delle persone e dei popoli, anzi spesso le appesantisce. Pertanto, anziche’ generare dinamiche di restituzione dei diritti, di assunzione dei doveri, di riscatto degli esclusi e di liberazione dei dominati, mantiene e aggrava l’iniquita’.

Proprio analizzando cause e natura di questi fenomeni si capisce che la politica non guarisce da sola. Credo che la crisi della politica sia superabile effettivamente se la sua forza mediatrice e’ sostenuta, trasformata e resa feconda da un’altra forza. Questa forza e’ l’amore, un amore che ha imparato a farsi nonviolento, fecondo, diffusivo e che tende a tradursi su scala collettiva, senza restare confinato ai rapporti interpersonali di coppia o di amicizia ristretta. Lo si puo’ chiamare amore politico, senza enfasi e anzi nella consapevolezza che e’ una forza relativamente rara, che prende corpo attraverso processi delicati e risvegli tutt’altro che diffusi. Esso richiede coraggio, generosita’, costanza, fiducia, speranza, intelligenza. Insomma condensa tutte le virtu’ dell’amore vero.

La conferma piu’ chiara di questa sua autenticita’ viene dal dato per cui l’amore politico nonviolento vede le persone, nessuna esclusa, e sempre va verso di esse. Mentre ogni altra forza mediatrice (al massimo grado il denaro) tende ad assolutizzarsi, cioe’ a farsi soggetto sovrano e unico della realta’, l’amore vero non e’ mai fine a se stesso, e’ sempre per altri, per gli unici e per la loro comunione infinitamente ospitale; serve, non domina. L’amore non e’ per l’amore, e’ per qualcuno. Questa rimane la grande differenza tra la concezione hegeliana della mediazione, dove lo Spirito e’ per se stesso, e la visione di Gandhi o, anche, della Scrittura biblica. Tale differenza e’ riassunta in un lampo di intelligenza da Aldo Capitini, quando proprio per superare Hegel egli scrive che bisogna passare "dal Tutto ai Tutti" (A. Capitini, La realta’ di tutti, in Scritti filosofici e religiosi, Perugia, Protagon edizioni, 1994, p. 184). E’ l’alternativa tra totalitarismo e democrazia effettiva, tra astrazione e visione reale.

Piu’ si coglie la bonta’ dell’amore vero e piu’ sembra impossibile da vivere. Eppure l’amore politico nonviolento non e’ impossibile; infatti e’ storicamente apparso in non poche circostanze a qualsiasi latitudine e in ogni congiuntura politica, anche la piu’ tragica. Esso matura e opera quando si sente e si comprende che ogni cosa belle e felice della vita non possiamo ritagliarla e custodirla in un piccolo spazio privato, quasi fosse un privilegio, ma dobbiamo condividerla, perche’ essa non vive senza giustizia, senza liberta’, senza partecipare a una comunita’ "bene ordinata" direbbe John Rawls (si veda di lui in particolare il testo Giustizia come equita’. Una riformulazione, Milano, Feltrinelli, 2002, dove Rawls non esita ad approfondire la consapevolezza del rapporto con il bene nella vita politica).

Ora non faro’ un inventario, non dico delle esperienze storiche dell’amore politico (che puo’ essere anche quello dei nazionalisti e dei fanatici ed e’ comunque un amore distorto), ma piu’ precisamente dell’amore politico nonviolento (che e’ invece l’amore guarito e illuminato); mi interessa rilevare piuttosto come cio’ che attesta la possibilita’ effettiva di questo amore sia l’accessibilita’ graduale dell’agire secondo la sua forza specifica. Faccio alcuni esempi quotidiani in ordine di crescente coinvolgimento: non limitarsi a vedere il proprio interesse privato, informarsi con cura circa i fatti politici, orientarsi criticamente per votare, ascoltare gli oppressi, prendere la parola per denunciare le iniquita’, promuovere un pensiero dialogico e democratico, partecipare alla vita collettiva del quartiere, della scuola, del comune, della regione, rendersi disponibili a fare del proprio meglio in cariche elettive e in ruoli di pubblica responsabilita’, agire per portare giustizia, tutelare i diritti degli altri assunti come un proprio dovere, associarsi con altre persone e altri gruppi e in ogni caso accettare di rischiare qualcosa delle proprie sicurezze o acquisizioni private per fare tutto questo. Si tratta di forme e gradi diversi di coinvolgimento che molti hanno sperimentato come modalita’ quotidiane della loro esistenza, non sono eroismi irraggiungibili. A questo punto ciascuno puo’ scorgere, forse, la parte luminosa del nucleo contraddittorio del nostro presente, di cui all’inizio del discorso dicevo appunto che e’ una tensione tra tendenze alternative. Questo versante positivo e’ quello di quanti non solo resistono alla logica di dominio prevalente nella societa’ globalizzata, ma sanno anche costruire situazioni e avviare processi alternativi: per far nascere un’economia di servizio e una politica di servizio, per una scuola che educhi le persone, per situazioni interetniche di pace, per una scienza che serva a partecipare alla vita del mondo, non a distruggerla. Sono persone e minoranze creative di cui non conta che non abbiano tutta la potenza necessaria a "vincere", conta che siamo mosse dall’amore vero.

Ora, per passare dalla lettura sintetica del nocciolo del nostro presente storico all’individuazione del percorso per la svolta, dalla diagnosi della crisi al riconoscimento del punto d’accesso della via dell’esodo, e’ necessario attingere anzitutto a una forza specifica dell’amore vero.

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3. Il ritorno della speranza

L’amore vero infatti e’ composto di tante correnti qualitative e oggi una di esse e’ decisiva per la svolta che desideriamo. Questa corrente, questa forza luminosa e’ la speranza. E’ la forma di passione, di risveglio, di intelligenza e, in radice, di risposta che permette di uscire dall’incubo della vita mortificata. Oggi siamo sgomenti di fronte alla degenerazione della politica, ai disastri dell’economia e ai trionfi della violenza. Ma se ci chiediamo, ricordando le situazioni in cui si sono date primavere culturali, politiche e storiche, quali erano allora la luce e l’energia che le hanno suscitate, troviamo che luce ed energia erano date dalla speranza. Si puo’ pensare ad esempio alla svolta della nonviolenza con Gandhi dal 1906 in poi, alla svolta di meta’ Novecento con la nascita delle nuove democrazie costituzionali e dell’Onu, con l’esperimento dello stato sociale di diritto, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, con i trattati e le convenzioni che essa ha ispirato negli anni seguenti. Penso poi ai processi di decolonizzazione in Africa e in Asia, alla primavera del Concilio Vaticano II nella Chiesa cattolica e alla primavera mondiale del 1968, alle lotte sindacali e dei lavoratori, all’azione del movimento delle donne, alla lotta della popolazione nera negli Stati Uniti, alla parte trasformatrice e nonviolenta degli anni Settanta, con la fine dei manicomi o l’impegno per una scuola educativa e democratica, alla fine dell’apartheid in Sud Africa, ai movimenti politici nonviolenti in America Latina dal Brasile al Paraguay, ai gruppi per la difesa della natura, al movimento mondiale contro la globalizzazione, alla lotta contro le mafie.

Tutte queste esperienze storiche di risveglio, di esodo, di espressione di una politica di servizio erano ispirate e sospinte dal vento di una speranza speciale, unica, eppure risorgente nel corso dei secoli con la stessa natura. Non si tratta della speranza di una parte dell’umanita’ per se stessa, non e’ la brama di vincere su qualcuno. Quelle esperienze che ho ricordato sono state emersioni dell’unita’ della speranza umana, la speranza riunita dell’umanita’. Questo tipo di speranza, l’unica intera e universale, crede e vuole la liberazione dal male, dall’infelicita’ e dalla morte, la trasfigurazione della vita in un’armonia per noi ancora sconosciuta. Si tratta di una speranza per tutti, nella cui visione si riconosce che il bene degli uni non e’ compatibile con il male degli altri, perche’ la realizzazione del sogno della speranza e’ un bene condiviso sino a comprendere l’umanita’ intera e il mondo vivente. E’ una speranza per la terra e per la storia.

Solo questa speranza dischiude lo spazio della laicita’ positiva, che consiste nell’assunzione della creaturalita’ dei viventi, nella corresponsabilita’ per il bene comune, nell’imparare a stare nel tessuto della vita del mondo senza rovinarlo. Oltre le angustie della laicita’ negativa e contrappositiva - per cui "laico" vuol dire colui che non e’ cattolico o non e’ religioso nella societa’, e colui che non e’ sacerdote o comunque non consacrato alla vita religiosa nella chiesa -, la laicita’ positiva da’ alle culture, alle tradizioni, alle prospettive politiche uno spazio cosi’ ampio da permettere la loro convivenza e cosi’ vincolante da esigere il loro impegno leale per il bene di tutti. Quando invece la speranza si eclissa, le culture decadono a mentalita’ sclerotiche, le visioni a fanatismi e rappresentazioni arbitrarie, la politica s’inaridisce, i processi educativi a schemi di addestramento che mortificano la novita’ incarnata da ogni bambina, bambino o giovane, la vita si ritrova privata di ogni bellezza.

Ma se e’ vero che stagioni, eventi, rivelazioni e frutti della speranza riunita ci sono stati, oggi si tratta di favorire e anzitutto di desiderare il ritorno della speranza. Un desiderio simile non e’ un auspicio, e’ gia’ una concentrazione interiore, un raccoglimento, una nuova lucidita’ comune tra quanti si ricordano della felicita’ che e’ la vocazione dell’esistenza umana e delle sofferenze di quanti sono tenuti a forza lontani da quella felicita’. Desiderare un futuro vero e’ desiderare in primo luogo di sperare e riuscire a diventare piccole fonti di speranza per altri. Questa conversione interiore ed esistenziale non ha nulla a che fare con la fortuna, l’immunita’ al patire, le rappresentazioni astratte. Devo essere chiaro su questo punto: augurarsi un cambiamento della situazione economica, sociale, politica e storica attuale e’ ben altro che attendere la rivincita, rimpiangere qualche stagione passata o ergersi a giudici degli altri. Volere davvero il cambiamento significa anzitutto esporsi al proprio cambiamento, accettare di fare un viaggio, approfondire la propria umanizzazione affinche’ l’agire sia davvero un servizio per il bene comune. Trovo una grande saggezza nella scelta di muoversi, mentre ci si trova nell’impotenza, verso una maggiore integrita’ anziche’ verso la conquista di strumenti di potenza. Quando Gandhi subiva una sconfitta, non cercava un modo per garantirsi maggiore potenza per poi rivalersi alla prossima occasione. Faceva un digiuno. Cercava cioe’ di trasformare il proprio errore, di portarsi sino a un grado piu’ alto di integrita’, a uno stadio piu’ profondo della realta’, li’ dove fosse possibile attingere alla mite forza del vero cambiamento. Era una costante conversione, conversione per la fecondita’, non per la perfezione individuale. Tale atteggiamento non va confuso con il narcisismo morale di chi pensa alla propria purezza. Se giustamente l’azione politica e storica non e’ tanto per se stessi, quanto per il riscatto dei dominati, tale impegno viene comunque riconfermato da chi sente il bisogno di risanare se’ e il proprio modo di agire, come ha dimostrato la storia di Gandhi. La coscienza di chi agisce con questa responsabilita’ si rende conto del fatto che non e’ seguendo la scorciatoia eventualmente offerta da mezzi di potenza a consentire davvero quel riscatto. Esso potra’ essere preparato solo da persone consapevoli, disposte a purificare il proprio modo di essere, umili, consapevoli del limite della propria soggettivita’ e anche dei propri progetti. Questo e’ l’ineludibile passaggio personale e, in altra maniera, collettivo che attende chi si interroga seriamente sulle sorti della politica, del paese e del mondo. Il cammino di maturazione della capacita’ di sperare e’ indicato, a mio avviso, dalla traccia lasciata da san Paolo nella Lettera ai Romani. Qui egli offre una chiave che va al cuore del nostro presente. Scrive Paolo che "la sofferenza genera la pazienza, la pazienza l’esperienza e l’esperienza la speranza" (Rm 5, 3-4). Io leggo questa sorprendente sequenza generativa come un viaggio di trasformazione della persona, ma si potrebbe anche dire di comunita’ e di popoli interi. E’ necessario dapprima sentire il carico di sofferenza che grava sul tessuto della vita del mondo, sentire quanto sia insopportabile la violazione dei diritti degli altri, come fosse una ferita nostra, intima. Anziche’ identificarci con i persecutori, anziche’ difendere la nostra normalita’ che si erige gravando sulla fatica, sulla mortificazione, sull’esclusione di molti altri, iniziamo a renderci conto della sofferenza dei perseguitati, cominciamo a conoscerli di persona, ad ascoltarli, a stabilire relazioni quotidiane con loro.

La sofferenza viene sperimentata a causa dei colpi del male, ma essa di per se’ non e’ l’antidoto. Paolo nel testo non si riferisce pero’ alla sofferenza come se di per se’ fosse dotata di virtu’ generatrici, ne’ si mette a parlare di sacrificio. Egli parla della sofferenza di chi si e’ aperto all’amore di Dio ("noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesu’ Cristo" Rm 5, 1). Quindi le forze in campo sono tre, diverse l’una dall’altra. La forza del male, quella della sofferenza e quella dell’amore. L’essenziale e’ portarsi nella corrente d’azione di quest’ultima forza. E’ allora che nella sofferenza l’amore risponde generando pazienza. E la pazienza non e’ mera sopportazione, ne’ tanto meno rassegnazione. E’ la perseveranza in quanto capacita’ di "portare" nel senso di resistere, di fare fronte, di sostenere, di andare avanti e oltre senza farsi sommergere. "Portare" la sofferenza dunque, da un lato, e’ la vera alternativa all’ignorarla, eluderla, scaricarla sugli altri o addirittura produrla, moltiplicarla, esportarla; dall’altro lato, questo "portare" non vuol dire subire, al contrario vuol dire sollevare e attraversare. Pazienza e passione sono i nomi appropriati per dire cio’ che, in un’ottica distorta e pericolosa, evoca la parola "sacrificio". La pazienza e’ il farsi carico della sofferenza, anche della sofferenza di altri, per superarla, per non cedere ne’ a essa ne’ al male. E la passione, che qui accosto alla pazienza, e’ nel contempo sia il patire con questo coraggio del farsi carico senza fuggire, sia l’appassionamento amorevole che non smette di cercare il superamento della sofferenza stessa e del male in direzione della felicita’ di tutti.

Dice poi Paolo che la pazienza genera l’esperienza ("dokime’"), parola tradotta spesso con "virtu’ provata", ossia una forza che resiste, collaudata, comprovata, consolidata nella conferma e capace di fedelta’. E’ evidente che qui non viene evocata un’ostinazione cieca. Non si tratta di ripetere quello che si e’ sperimentato in passato, ne’ di fare della propria esperienza un modello conclusivo e insuperabile. Infatti l’esperienza non si risolve in se stessa, genera la speranza. Qui viene indicato qualcosa di diverso dall’idea che l’esperienza inventi la speranza, la produca da se’ e arbitrariamente. La speranza umana, infatti, e’ sempre anzitutto la risposta a un appello, a una promessa, a una vocazione, a un bene, a qualcuno il cui amore suscita appunto, come corrispondenza, la speranza.

Questo tratto essenziale, che si colloca nel cuore della ricerca metafisica, e’ fondamentale al tempo stesso anche per la riflessione sull’agire politico e per il tipo di consapevolezza che lo guida. A riguardo non basta dire che ognuno deve verificare con se stesso le ragioni ultime del suo sperare. Questo e’ vero, ma non costituisce un’indicazione risolutiva; se tutto si risolvesse in una opzione individuale, l’esito sarebbe quello, oggi diffuso, della mera privatizzazione delle questioni ultime, come se riguardassero semplicemente l’individuo isolato. Il dibattito culturale in Italia, ad esempio, non e’ riuscito a superare la falsa alternativa tra l’integrismo e l’uso politico-partitico della fede da un lato, e la privatizzazione del senso della vita e della speranza, in nome della laicita’, dall’altro. Tale strettoia tra integrismo e laicita’ minimale ha intanto permesso un rapporto equivoco tra fede religiosa e politica, per cui e’ facilissimo dichiararsi paladini della fede, basta far propria qualche parola d’ordine cara alle autorita’ religiose. Inoltre questa autentica strozzatura culturale ha lasciato senza respiro e senza visione, in particolare, sia le tradizioni della sinistra, sia l’azione politica dei cristiani. Questi ultimi hanno guadagnato un pluralismo ambiguo e, in fin dei conti, apparente, pagando tutti il prezzo dell’equivocita’, e poi pagando, alcuni, il prezzo della complicita’ con i dominatori e, altri, il prezzo della sterilita’ politica. Quindi si tratta si’ di rinunciare alla pretesa che la propria configurazione del senso e della speranza sia vincolante per tutti, ma anche di non ridursi a considerarla politicamente e storicamente nulla in quanto privata; occorre invece assumere la propria prospettiva di speranza nell’unita’ della speranza umana. La sua inappropriabilita’, dato che sperare e’ rispondere a un bene piu’ grande di noi, si traduce sul piano politico in una costante consapevolezza dei limiti del proprio progetto e in una disponibilita’ a non assolutizzare analisi, mezzi, finalita’. La speranza non e’ un progetto e la sua meta non e’ ne’ disegnabile ne’ realizzabile semplicemente per opera del nostro pensiero e della nostra azione. Il compimento della speranza si puo’ e si deve preparare, ma non e’ la mera applicazione di un disegno che abbiamo gia’ tracciato. La coscienza di questo limite salvaguarda la capacita’ autocritica di ogni soggettivita’ politica e le permette di agire come uno strumento di servizio e non nello spirito totalitario dell’identita’ conclusa ed escludente.

Per la sua natura universale, solidale, ospitale e per l’impossibilita’ di chiuderla in un orizzonte personale privato o in una identita’ collettiva esclusiva, si comprende che la speranza e’ un movimento della responsabilita’. Quando Paolo dice che l’esperienza genera la speranza mostra non gia’ la sua scaturigine prima, bensi’ come sorga in noi la capacita’ di sperare, la forza di rispondere sperando a cio’, anzi a chi ci chiama alla speranza. Il senso da cogliere qui, percio’, non e’ quello che invita a darsi una speranza per tirare avanti, non e’ un invito all’ottimismo. Il senso sta invece nel comprendere che solo chi nel patire giunge alla pazienza e si forma cosi’ la sua esperienza, matura in se’ la forza della vera speranza. Si puo’ esplicitare anche, a riguardo, che chi spera in questo modo, lasciandosi trasformare da questi passaggi, diventa una fonte di alimentazione della speranza per altri.

La riprova che la speranza cosi’ maturata non e’ un’invenzione soggettiva e arbitraria, ma sorge in risposta all’attrazione di un bene cosi’ universale da riguardare la vita del mondo, sta nel fatto che tale speranza riguarda ciascuno e tutti, non e’ per qualcuno contro qualcun altro perche’ questo vorrebbe dire volere e produrre nuova sofferenza da infliggere a degli altri che, oltre ogni identificazione distorcente, vanno riconosciuti come fratelli e sorelle. Ebbene, e’ precisamente questa speranza a permettere le primavere della storia, a illuminare e a suscitare forme di convivenza e di giustizia prima ritenute impossibili. E infatti se la sofferenza portata con amore, se la pazienza, se l’esperienza sono tutte forze capaci di generare, quanto piu’ la speranza sapra’ generare una realta’ liberata.

La speranza sa risvegliare all’impegno politico, permette di vedere un orizzonte di bene per cui vale la pena mettersi in cammino. Puo’ allora generare un metodo dell’azione storica, come pure uno spirito di convergenza operativa e feconda, un agire di concerto che non si lascia distrarre o paralizzare dai narcisismi, dai settarismi, dal culto dell’identita’, dal sentimento di impotenza. La speranza non solo consente di superare la paura e l’indifferenza, ma vissuta e interpretata onestamente sa ispirare un agire storico che non incute paura agli altri, che anzi si presenta ospitale nei confronti di tutti. Perche’ mette finalmente a nudo la non necessita’ della violenza e dell’ordine del mondo esistente, lasciando intuire che ha senso cercare qualcosa di meglio e di molto diverso.

Queste conseguenze politiche della speranza possono essere apprezzate proprio quando si comprende che essa non va mitizzata, ne’ ammette automatismi e comunque non fa da sola. La speranza vera illumina, rende visibile e credibile il bene latente, cosi’ come quello gia’ evidente eppure non visto. Attrae e mette in cammino. Pero’ spetta all’azione metodologicamente sapiente di svolgere la speranza nelle situazioni date, di coinvolgere molte persone, di estendere le zone di realta’ che gia’ anticipano il bene che essa annuncia. Senza questa azione la speranza si eclissa, lasciando alcuni nella disperazione e altri nel cinismo che irride il sogno della realta’ liberata.

(Parte prima - segue)

Tratto da
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento settimanale del martedì’ de
La nonviolenza è in cammino

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Numero 240 del 7 ottobre 2008



Marted́, 07 ottobre 2008