VERSO IL 2 OTTOBRE
La scelta consapevole e coerente della nonviolenza

di Norma Bertullacelli

[Ringraziamo Norma Bertullacelli (per contatti: norma.b@libero.it) per questo intervento]

Credo che l’insegnamento di Gandhi e della nonviolenza possano aiutarci anche a riflettere sull’attuale crisi dei movimenti e della rappresentanza politica.

"La delega a pochi e’ una condizione di funzionamento della democrazia moderna", "Il rischio peggiore e’ stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi in cui si decide": sono due frasi di Massimo D’Alema (Kosovo, gli italiani e la guerra, p. 38 e 37) citate da Alberto L’Abate nella sua lettera aperta al direttore di "Repubblica" dell’aprile dello scorso anno. Mi pare che la caratteristica principale di chi milita in un movimento dovrebbe essere quella di rifiutare di delegare totalmente ad altri, sia pure capaci e stimati, di occuparsi di quella parte di "cosa pubblica" che gli a cuore.

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Parto da un’esperienza cui ho partecipato direttamente. Quando cominciammo a lottare a Genova negli anni ’80 contro la mostra navale bellica, esposizione biennale del "meglio" della nostra industria armiera, seguimmo inizialmente la solita prassi: appelli, incontri con le istituzioni cittadine, volantinaggi, ecc. Ma compimmo un salto di qualita’ quando convenimmo che, una volta esperiti tutti i tentativi per indurre gli eletti del popolo a modificare la loro posizione di appoggio a quella che consideravamo una vergogna inaccettabile, non ci restava che sdraiarci di fronte agli ingressi della fiera per impedire materialmente che la mostra fosse inaugurata. Il movimento che e’ stato chiamato "di Genova" si e’ posto questo genere di problemi, ma solo parzialmente e’ riuscito ad attuare la democrazia partecipata; espressione questa che proprio un quel periodo ed a partire da Porto Alegre cominciava ad essere conosciuta.

Chi ha partecipato ad azioni dirette nonviolente sa che una loro peculiare caratteristica e’ l’assunzione di decisioni con il metodo del consenso, e la consapevolezza della necessita’ di fornire ad ogni partecipante il massimo di informazione, in maniera che ciascuno possa decidere in modo consapevole se partecipare o no all’azione, e come farlo.

Non tutte le decisioni assunte prima delle manifestazioni contro il g8 ebbero questa caratteristica di democrazia partecipata: il peso dei rappresentanti di grosse organizzazioni e’ stato talvolta maggiore rispetto ad altri. Qualcuno, nel corso del dibattito che aveva preceduto il g8, aveva proposto di escludere i partiti dalle organizzazioni promotrici delle manifestazioni. Questa posizione divenne in breve tempo minoritaria, soprattutto sulla base di due considerazioni: innanzitutto non si vollero considerare i partiti come "associazioni a delinquere" e si giudico’ positivo il loro coinvolgimento. In secondo luogo si convenne che alcune organizzazioni, pur non avendo la struttura di partiti, potevano essere sufficientemente "pesanti" da condizionare lo svolgersi del dibattito; quindi escludere i primi e accettare le altre non avrebbe risolto alcun problema.

La consapevolezza dell’esistenza del problema, tuttavia, non impedi’ che il peso delle entita’ piu’ grandi e meglio organizzate divenisse via via prevalente. Si realizzava pero’ contemporaneamente un progressivo impoverimento dei contenuti delle iniziative che si stavano organizzando: vale la pena di ricordare che il documento del Genoa Social Forum, quello sottoscritto da oltre mille organizzazioni, non parlava ne’ di illegittimita’ del g8, ne’ dell’inaccettabilita’ dell’ordine mondiale da loro imposto, ma semplicemente di "diritto di manifestare a Genova anche nei giorni dell’incontro degli otto grandi". E tuttavia, nonostante quello che fu scritto nei vari documenti, non c’e’ dubbio che la battaglia culturale e di controinformazione fu vinta da chi sosteneva i contenuti piu’ radicali: certamente quanti vennero a Genova a manifestare lo fecero per contestare decisamente gli otto, e non semplicemente per ribadire il pur sacrosanto diritto a stare in piazza.

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E’ incontestabile il diritto di un partito e di un’organizzazione di far valere il peso dei propri aderenti: metterlo in dubbio significherebbe tornare a prima della rivoluzione francese e contestare il principio "una persona, un voto" (veramente a quei tempi si diceva "un uomo"...). Ma tentare di promuovere la partecipazione diretta di tutti e tutte alla politica deve andare al di la’ di questo.

I partiti "di sinistra" che sostenevano Prodi e votarono la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan si giustificarono, tra l’altro, con la volonta’ di evitare le elezioni anticipate e, come poi e’ avvenuto, di perderle. Ma proprio chi fonda la propria esistenza sul voto dei cittadini non dovrebbe temere il ricorso alle urne. Altrimenti sarebbe facile accusarli di ritenere le elezioni "buone" solo quando le si vince. E neppure dopo averle perse sono stati disposti ad ammettere che il sistema elettorale maggioritario andava bene ai tempi dell’antica Roma (ma forse neanche allora), ma oggi e’ la negazione della democrazia.

Il movimento non e’ stato in grado di indurre i partiti a modificare le proprie modalita’ di organizzazione, non ha creato un nuovo linguaggio e nuove priorita’ che sostituissero la parola d’ordine di raggiungere e trattenere il potere.

L’adozione consapevole e coerente dei metodi della nonviolenza forse avrebbe potuto caratterizzare in senso innovativo i movimenti. Ma tra i politici della sinistra radicale sono ancora molti/e quelli che pensano che nonviolenza significhi accettazione della prepotenza del piu’ forte.

Chi si richiama a prassi nonviolente non e’ ancora riuscito a comunicare che lo stesso Gandhi riteneva preferibile la rivolta armata alla passivita’; che le lotte nonviolente sono egualitarie e non discriminano i partecipanti in base alla forza fisica o al sesso; che richiedono solo consapevolezza e determinazione; e che sono state vincenti in piu’ di un’occasione.

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Devo ammettere di non avere una buona ricetta. Non so come sia possibile uscire dalla situazione attuale; e constato con amarezza che i colpi piu’ determinati alla partecipazione di tutte e tutti alla scuola pubblica li sta assestando in questi giorni la ministra Gelmini che ci fa tornare ad una scuola d’elite che non fornisca a tutti la possibilita’ di "prendere la parola".

Ma ribadisco la mia fiducia nelle prassi nonviolente che insegnano a "mettersi di traverso" una volta esperiti tutti i tentativi istituzionali di far cessare un’ingiustizia; e non c’e’ dubbio che la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan sia un’inaccettabile ingiustizia. E quindi vorrei che fossero recuperate e ripensate le pratiche di quanti, allo scoppio della guerra, avevano tentato di bloccare i treni che trasportavano le armi; e che chi blocchera’ i lavori della nuova base militare di Vicenza non sia solo/a. Vi sara’ chi obiettera’ che vi e’ protagonismo e azione diretta anche tra quanti si attivano per la propria squadra di calcio o contro la costruzione del campo nomadi. Condivido questa osservazione, ma sottolineo che nella nostra capacita’ di mobilitazione deve rientrare anche lo sforzo di rendere noti e condivisi i nostri contenuti.

Persuadere, per esempio, che non esiste nessun "prestigio internazionale dell’Italia" da promuovere e difendere in campo militare; che i morti afghani sono come i morti italiani; che produrre e commerciare armi non e’ come produrre e commerciare torte di mele; che il miglior governo del mondo non vale una vita umana. Che la sovranita’ appartiene al popolo.

Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

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Numero 595 del primo ottobre 2008



Mercoledì, 01 ottobre 2008