Riflessione
Intervista Lidia Menapace sulla nonviolenza

di Marco Catarci

[Ringraziamo Marco Catarci (per contatti: catarci@uniroma3.it) per averci messo a disposizione questo suo dialogo con Lidia Menapace sulla nonviolenza, estratto dalle pp. 255-265 del suo recente libro Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007. L’intervista e’ stata realizzata il 6 febbraio 2007 a Roma.

Marco Catarci, da sempre attivo in iniziative di solidarieta’, per i diritti, la pace e la difesa della biosfera, e’ ricercatore e docente di Pedagogia sociale presso la facolta’ di Scienze della formazione dell’Universita’ degli studi Roma Tre, dove collabora con il Creifos (Centro di ricerca sull’educazione interculturale e sulla formazione allo sviluppo).

Ha partecipato a numerose ricerche in campo educativo e sociale, e’ autore del volume All’incrocio dei saperi. Una didattica per una societa’ multiculturale, e di numerosi saggi e articoli sui temi dell’immigrazione, della formazione, della mediazione culturale. Tra le opere di Marco Catarci: All’incrocio dei saperi. Una didattica per una societa’ multiculturale, Anicia, Roma 2004; "La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire", in "Studium", n. 4, 2004; "Il percorso formativo del mediatore linguistico-culturale: il modello proposto dal Cies" e "La mediazione in ambito educativo", in F. Susi, M. Fiorucci (a cura di), Mediazione e mediatori in Italia. La mediazione linguistico-culturale per l’inserimento socio-lavorativo dei migranti, Anicia, Roma 2004; "Formazione e inserimento lavorativo dei rifugiati in Italia", in M. Fiorucci, S. Bonetti (a cura di), Uomini senza qualita’. La formazione dei lavoratori immigrati: dalla negazione al riconoscimento, Guerini Associati, Milano 2006; Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007.

Lidia Menapace e’ nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e’ poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e’ tra le voci piu’ significative della cultura delle donne e dei movimenti della societa’ civile. Nelle elezioni politiche del 9-10 aprile 2006 e’ stata eletta senatrice. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e’ dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L’ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne’ indifesa ne’ in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste’, Il dito e la luna, Milano 2001; AA. VV., Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]



Lidia Menapace prende parte giovanissima alla Resistenza partigiana e nel dopoguerra e’ impegnata nei movimenti cattolici, nella Democrazia Cristiana e con varie organizzazioni progressiste. Insegnante, nel 1969 e’ tra le fondatrici de "Il Manifesto". Nell’aprile 2006 diviene senatrice della Repubblica.

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- Marco Catarci: Senatrice Menapace, lei ha partecipato alla Resistenza, come staffetta partigiana nella sua citta’, Novara, facendo una scelta particolare, quella di lottare nonviolentemente. Come si e’ lottato nonviolentemente nella Resistenza?

- Lidia Menapace: Io preferisco dire "lotta di Resistenza" piuttosto che "guerra di liberazione", anche se so che l’espressione "guerra di liberazione" non e’ impropria. Avrei perfino difficolta’ a dire che io ho preso parte alla Resistenza in nome della nonviolenza. Per dire la verita’ non sapevo nemmeno cosa fosse la nonviolenza, perche’ durante il regime fascista la nonviolenza era considerata una cosa da imbelli: si diceva che ci sono anche quelli che si rifiutano di portare le armi per la patria, ma sono dei vigliacchi. Questo dal punto di vista politico. Dal punto di vista religioso, la Chiesa cattolica diceva che l’obiezione di coscienza la fanno i protestanti, a cui non bisogna dare ascolto. Quindi qualunque voce io ascoltassi, mi veniva proposta solo una visione negativa, ma forse queste voci non risuonavano dentro di me. Quando decisi di prendere parte alla lotta di Resistenza, feci un certo itinerario, trovai le persone giuste, riuscii ad arrivare li’ dove potevano darmi delle cose da fare e mi chiesero ovviamente se volevo fare la staffetta, mi chiesero se conoscevo i rischi, risposi di si’ e dopo aggiunsi "non voglio portare armi", ma non per una scelta nobile o particolarmente significativa, dissi "ho paura, mi sparerei addosso da sola, quindi non ne voglio sapere perche’ mi farei male". Allora mi dissero "pero’ possiamo addestrarti", a questo punto interviene il mio primo consapevole rifiuto: "no, non voglio imparare, primo perche’ son sicura che non saprei mai sparare nella pancia di qualcuno e semmai non voglio proprio imparare a diventar capace di farlo", quindi era una cosa che mi faceva impressione, non volevo imparare.

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- Marco Catarci: Perche’ questa parte della storia, e anche della Resistenza, fa piu’ fatica di altre a venire riconosciuta? Sembra quasi che tale tema sia ignorato dai grandi dibattiti pubblici e guardato dal mondo della politica con un poco di sospetto.

- Lidia Menapace: Fa molta piu’ fatica a venire riconosciuta oggi. Devo dire che allora non ci fu nessuno ostacolo. Durante la Resistenza questa scelta non incontro’ nessun impedimento. Una delle grandi cose della Resistenza e’ che, anche senza nominarla, pero’ ammetteva assolutamente anche una scelta nonviolenta, perche’ la lotta di resistenza, anche quando armata, non e’ militare, cioe’ non comporta una obbedienza cieca e assoluta: nessuno puo’ ordinarti di fare una cosa che tu non vuoi fare, se ti dicono "vai e ammazza qualcuno" e tu dici "no, questo non lo faccio", basta. Questo contesto rendeva allora possibile questa scelta, pero’ la rappresentazione che si usava di quell’esperienza era comunque quella "tradizionale": l’uomo armato, la donna che lo segue, le donne a casa a tenere i prigionieri, gli uomini allo scontro, una rappresentazione che poi non era nemmeno veritiera, perche’ anche quando e’ armata la guerriglia e’ specialmente di fuga, si tratta di far saltare un ponte, interrompere una ferrovia, cose che facevo anche io, perche’ il danno alle cose per proteggere le persone rientra nell’azione nonviolenta. Invece, finita la Resistenza, ci fu sicuramente una sorta di rivalsa della tradizione, per cui si comincio’ a dire "e’ l’ultima guerra del Risorgimento", "la patria"...

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- Marco Catarci: Quindi il problema del riconoscimento di questa forma di lotta si e’ determinato successivamente alla fine di quell’esperienza?

- Lidia Menapace: Si’, durante la lotta non ci fu nessuna imposizione e nessuna differenza tra i vari modi di partecipazione alla lotta. I partigiani sapevano benissimo che se le contadine dell’Appennino o delle valli alpine non li avessero ospitati, protetti, rivestiti, curati quando erano feriti, sarebbero morti tutti. E le contadine mettevano a rischio le loro case, perche’ ne vennero bruciate tante: ogni volta che i nazifascisti scoprivano che le contadine avevano ospitato qualche partigiano bruciavano le loro case.

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- Marco Catarci: Il pensiero nonviolento e’ femminile? Che legame c’e’ tra nonviolenza e lotta delle donne?

- Lidia Menapace: Anche questo e’ un pezzetto di storiografia rimasto inesplorato, perche’ Gandhi ammette di aver imparato dalle suffragiste inglesi, si puo’ dire che sono state loro a inventare questa forma di lotta. Erano molto attive, non erano solo persone che facevano prediche, ma poiche’ dovevano avere un impatto sull’opinione pubblica cominciarono ad inventarsi forme di lotta come incatenarsi alle colonne, oppure invadere l’assemblea, o sdraiarsi per terra: queste donne restavano sedute di fronte alla polizia a cavallo, non so come facessero, ma di certo avevano grande fiducia nei cavalli, dicevano che il cavallo scansa la persona, non la calpesta mai, dunque erano mirabili anche per la fiducia negli animali.

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- Marco Catarci: Quindi il legame tra modalita’ di lotta nonviolenta e movimento femminile e’ stretto?

- Lidia Menapace: Molto; si puo’ dire che il movimento delle donne invento’ la nonviolenza, non la teorizzo’. Le suffragiste inventarono poi degli abiti specifici: siccome non ci si puo’ sedere per terra con la crinolina, inventarono il tailleur che e’ un abito molto piu’ semplice per queste azioni. Quindi da li’ queste azioni si diffusero, anche se nel movimento delle donne non c’e’ una teorizzazione sulla nonviolenza.

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- Marco Catarci: E’ una prassi.

- Lidia Menapace: Si’; per il contrario, non esiste nessuna teorizzazione dell’uso della violenza, quindi li’ si tace e qui c’e’ una pratica. Pero’ nel movimento delle donne si procede eminentemente per pratica: internazionalmente "strategia" non si usa perche’ e’ un termine militare, si dice "best practices", le migliori pratiche, e’ proprio un approccio connaturale.

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- Marco Catarci: Senatrice, lei e’ stata anche docente sia nella scuola secondaria superiore che nell’Universita’. Che ruolo ha l’educazione nella costruzione di una prospettiva nonviolenta? Come e’ possibile un’educazione che costruisca le basi di una cultura della nonviolenza?

- Lidia Menapace: Penso che l’educazione abbia certo un ruolo. La scuola, sia come edificio che come ordinamento, e’ costituita - come tutte le istituzioni - sul modello dell’esercito, perche’ l’esercito e’ l’istituzione genetica. Tutte le istituzioni sono caserme poco modificate, un portone, un bagno in cima e uno in fondo, poi o aule di scuole, celle di carceri, camerate di ospedale o di caserma, ma e’ sempre un modello militare, cosi’ come l’impostazione gerarchica o il linguaggio contrappositivo. Tutto il linguaggio politico e’, infatti, un linguaggio militare; io qualche volta facevo un gioco e cioe’ chiedevo a un politico tradizionale di parlare senza usare il linguaggio simbolico militare: questo politico non arrivera’ alla fine della prima fase, perche’ non puo’ dire "tattica", "strategia", "schieramento" e non sa di cosa parlare. Persino lo straordinario Gramsci dice "egemonia", "casematte". Con la mia campagna di disinquinamento del linguaggio politico dal simbolico militare ho raccolto qualche successo, ma pochi, perche’ davvero si tratta di rovesciare completamente il linguaggio politico. La scuola ha queste caratteristiche: e’ gerarchica, sta in edifici che sono caserme poco modificate, orari, ma l’apprendere non e’ mai una cosa che si fa da qui a qui, matematica da qui a qui, lingua da qui a qui. Un modo di insegnare che abbia la stessa complessita’, promozionalita’ e anche curiosita’ dell’apprendere spontaneo purtroppo a scuola non c’e’. Allora io cercavo, gia’ quando insegnavo al liceo, di recuperare un po’ questa complessita’ di movimenti e, per vincere questa gerarchizzazione, cercavo di costruire un sistema "pattizio": io adesso vi spiego per tre lezioni cosa e’ il Rinascimento, vi fornisco le indicazioni bibliografiche, se avete cose da domandare ne discutiamo nella terza lezione, dopo di che, appena uno di voi e’ pronto, chiede di essere interrogato, io non interrogavo mai a sorpresa. Questa modalita’ la usavo fino al penultimo anno e l’anno della maturita’ dicevo "guardate se vi mando cosi’ all’esame di maturita’, vi mando al massacro, quest’anno vi insegnero’ come richiede il programma". Ed era una cosa che suscitava la rivoluzione. E quest’ultimo anno, in cui era vietato avere il libro al tema e suggerire era vietato, era una dimostrazione dell’assurdita’ degli ordinamenti scolastici: credo sia stato molto efficace.

All’Universita’ ce ne era un po’ meno bisogno, perche’ l’Universita’ e’ un po’ meno militarizzata, avendo un’altra tradizione, non so, quella dell’insegnare camminando dei peripatetici: e’ un rapporto gia’ piu’ tra adulti, anche se c’e’ questo carattere un po’ massificato delle grandi lezioni in aule anfiteatro. E anche li’ adottavo uno stile pattizio, nel senso che delle tre ore di lezione una era sempre di esercitazione e le esercitazioni le concordavo sempre con gli studenti che venivano in cattedra ad esporre il risultato dei loro lavori, potevano fare anche lavori di gruppo, io facevo anche esami collettivi, che allora erano vietatissimi. Devo dire che non ho mai detto "guardate dico queste cose perche’ bisogna essere nonviolenti", proprio no.

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- Marco Catarci: Era un ripensamento metodologico, quindi. E la ricerca che ruolo ha? La nostra Costituzione ci obbligherebbe a darci da fare per studiare come si fa ad affrontare una controversia internazionale senza fare ricorso alla guerra, cioe’ come si realizza una gestione nonviolenta di un conflitto. A che punto siamo in questa ricerca? L’impressione e’ che tutto sia rimasto come ai tempi di Capitini, non abbiamo fatto grossi passi avanti.

- Lidia Menapace: E’ vero, anche perche’ nel frattempo l’istituzione non si e’ fatta permeare per niente. La scuola continua, ad esempio, ad essere gerarchica, burocratica, continua ad avere nei programmi di storia un’impostazione che anche se non detta e’ questa: ci sono dei momenti di grande difficolta’, avvengono delle guerre che sono delle grandi tragedie e che pero’ risolvono dei problemi. Appiccicare in fondo a un corso con questa impostazione il contenuto dell’articolo 11 della Costituzione o anche la figura di Capitini non serve proprio a niente, se l’impostazione e’ quella. O in fondo a un capitolo le condizioni sociali dell’Inghilterra. Ma se il professore all’esame di maturita’ chiedesse questo sarebbe proprio una carogna perche’ non c’entra con quello che e’ stato insegnato. Quindi anche li’ bisognerebbe vedere se e’ possibile attraverso tracce storiografiche, quella per indizi, che da’ voce ai soggetti muti, sapere cosa facevano le donne, cosa facevano i contadini, cosa facevano gli schiavi, intanto che i guerrieri si ammazzavano; se non si ricostruisce questo e non lo si immette nel flusso dell’insegnamento, si continuera’ ad avere solo un angolino in cui si parla dei buoni.

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- Marco Catarci: La politica che ruolo ha in questo impegno, se per cio’ che concerne gli strumenti non c’e’ stata grande innovazione? Quali sono le difficolta’ del nostro tempo di costruire una prospettiva di politica nonviolenta?

- Lidia Menapace: La politica dovrebbe avere un ruolo simile a quello che dovrebbero avere la ricerca e la scuola, anzi questa triade sarebbe da promuovere. Solo che anche la politica e’ rimasta molto indietro e anzi secondo me ha avuto in questi anni una vera regressione di impostazione, perche’ il pensiero militare ha ripreso alla grande. Intanto l’offerta del servizio militare volontario e’ stata l’unica politica attiva di occupazione giovanile fatta dai governi ultimi e ha avuto successo, perche’ se uno e’ disoccupato che cosa devo dirgli? E una volta che diventa militare, non posso pretendere che tutte le mattine si guardi allo specchio e dica "sto facendo un lavoro inaccettabile", deve dire "sto facendo un lavoro importante". Sembra che i militari italiani in giro non facciano altro che spupazzare tutti i bambini che incontrano. Non c’e’ nessuno che utilizza un linguaggio piU’ politicamente corretto dei generali. Quando vengono in audizione in Commissione difesa, se io dico "fabbrica di armi", mi dicono "industria della difesa, senatrice", armi non si dice, "guerra per la pace", e’ tutto perfettamente inglobato e ripartito, la politica non si e’ difesa da questo.

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- Marco Catarci: A questo proposito, la carta che fondava le Nazioni Unite affermava, dopo un breve accenno alle rovine della seconda guerra mondiale, che si poteva dire da quel momento che la guerra e’ sempre un crimine. La guerra e’ ritenuta un crimine anche oggi?

- Lidia Menapace: Credo di si’, pero’ questa espressione e’ censurata. Per la verita’ un passo avanti e’ stato fatto, nel senso che non c’e’ nessuno che osa piu’ parlare della "bella guerra", cioe’ l’armamentario culturale dell’avanguardia del Novecento, la "guerra igiene del mondo", queste cose che diceva Marinetti, questo non lo dice piu’ nessuno per la verita’, adesso si parla di "guerra come extrema ratio", "per un fine buono", e’ un po’ mascherata, e’ un po’ censurata, pero’ sotto sotto...

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- Marco Catarci: La prospettiva nonviolenta richiede l’impiego di metodologie e strumenti. Si distingue dall’azione violenta in quanto esclude la distruzione dell’avversario, ma richiede comunque di attraversare il conflitto e di gestirlo, per comprendere i rapporti di forza nella societa’. Perche’ tale azione appare ancora oggi poco praticabile nei conflitti sociali? Spesso questa prospettiva viene accusata di essere utopica.

- Lidia Menapace: Secondo me, questa accusa e’ proprio una sciocchezza, perche’ se c’e’ un soggetto storico, oltre al movimento delle donne, che non ha mai usato la violenza, che non ha mai programmato la violenza, e che non ha mai promosso o voluto delle guerre e’ il movimento operaio. Ha fatto molti danni un’infelice frase di Marx "la violenza levatrice della storia" (si occupasse di cose di cui si intendeva, sulla levatrice non ha proprio niente da dire, una levatrice violenta non farebbe nascere nessuno, quindi ha detto una sciocchezza, puo’ succedere anche ai grandi), o la questione dell’"odio di classe", che e’ una frase di passaggio, che poi riguarda anche la borghesia, perche’ semmai anche la borghesia dovrebbe smetterla di aver odio nei confronti dell’altra classe; a parte queste due frasi, nella teorizzazione e anche nella pratica sono usate tutte e solo le forme dell’azione nonviolenta, tutte: scioperi, petizioni, manifestazioni, fino al picchetto, al boicottaggio e al sabotaggio, che e’ vero che Gandhi considerava non piu’ attinente alla nonviolenza, pero’ il sabotaggio io l’ho visto nel Sessantotto nella fabbrica, era un sabotaggio fatto sulle automobili nella fabbrica, ma non sabotavano i freni, semmai il sedile non lo cucivano bene, uno si sedeva e finiva con il sedere per terra e basta, nessun danno. L’attenzione nei casi di sabotaggio, che sono rari, e’ sempre a non danneggiare la persona, quindi e’ stranissimo che non si sia riconosciuto questo: i due grandi soggetti che hanno praticato, sia pure senza teorizzarla, la forma di lotta nonviolenta sono il movimento operaio e il movimento delle donne. Lo stesso sindacato e’ prevalentemente uno strumento di composizione dei conflitti. L’unica vera e grande sconfitta che il movimento operaio ha avuto e’ stata la prima guerra mondiale: in quell’occasione si e’ spaccato in due e Rosa Luxemburg e’ stata mandata in galera. La ferita non e’ ancora rimarginata.

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- Marco Catarci: Perche’ allora, secondo lei, se questi strumenti sono geneticamente insiti nella storia e nelle prospettive, ad esempio, del movimento operaio fanno cosi’ fatica ad essere riconosciuti e anche formalizzati?

- Lidia Menapace: Io credo che sia passata, non innocentemente ma insomma e’ passata, l’idea che la nonviolenza e’ passivita’, il nonviolento e’ quello che prende le sberle in faccia, che porge l’altra guancia. E infatti io dico sempre "azione" nonviolenta, per dire "ma guardate che non siamo pappemolli, della gente che sta li’ con le braccia conserte", perche’ altrimenti passa questa idea della nonviolenza come irenismo, evangelismo. Persino il famoso esempio del porgere l’altra guancia, io lo interpreto dicendo che la nonviolenza e’ sorprendente, mentre la violenza e’ monotona, si ripete sempre, uno ti da’ una sberla, si aspetta che tu rispondi con un’altra sberla, mentre invece si distrae, tu gli fai lo sgambetto e scappi.

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- Marco Catarci: La nonviolenza e’ legata alla creativita’?

- Lidia Menapace: Si’, e’ sorprendente, non te l’aspetti, e’ la’ dove non t’aspetti. Mentre la violenza e’ terribilmente monotona. Il militare ha persino l’abito che e’ "uniforme". Persino, per stare sempre agli esempi evangelici dato che sono molto diffusi nella nostra societa’, Gesu’ Cristo che condanna acerbamente i farisei perche’ non pagano le tasse, a Pietro che andava in giro armato, perche’ era uno zelota, tanto e’ vero che taglia un orecchio al soldato romano che voleva arrestare Gesu’ Cristo, lui risponde "chi di spada ferisce, di spada perisce", vale a dire che la violenza si ripete continuamente, non serve nemmeno per tener libero me. Io insisto molto su questi aspetti attivi, creativi della nonviolenza, perche’ bisogna renderla attraente, se e’ una serie di immaginette, di persone che guardano in cielo e intanto pigliano sberle da tutte le parti non funziona, io credo che bisogna dare un impulso di vivacita’, anche di ironia e allegria.

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- Marco Catarci: E infatti anche Capitini chiarisce che la nonviolenza non e’ semplice assenza di violenza, bensi’ una forma di lotta, una modalita’ attiva e un impegno alla trasformazione della realta’. Senta, esiste un legame tra la prospettiva nonviolenta e una critica radicale ad un sistema economico che genera di fatto dinamiche di esclusione?

- Lidia Menapace: Si’, c’e’ un legame con l’anticapitalismo. Non solo perche’ il capitalismo genera esclusione, sfruttamento, oppressione dell’uomo sullíuomo, ma anche perche’ include la guerra: la guerra e’ uno strumento previsto. Quando ci sono crisi economiche molto forti, il capitalismo risponde ñ questa e’ una teorizzazione di Rosa Luxemburg che corregge un errore di Marx ñ non andando definitivamente in crisi, ma allargando i mercati, e per allargare i mercati ha bisogno di conquistare del territorio e inventa l’imperialismo; insomma la guerra e’ inclusa nel programma, non e’ un incidente, non e’ un evento che accade perche’ non puoi far fronte a un problema in altro modo, no, la guerra e’ inclusa. E poi c’e’ la violenza oppressiva dei rapporti di produzione, che genera l’esclusione sociale e politica.

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- Marco Catarci: Senta, quale sono le prospettive che lei vede oggi per questo approccio di gestione dei conflitti?

- Lidia Menapace: Io forse sono un po’ matta, ma fa parte del gioco. Io ho come l’impressione che il capitalismo abbia imboccato la sua via finale, io non lo vedro’ concludersi perche’ siccome non e’ un castello di carte ci mettera’ un bel po’ a venire giu’. Pero’ io seguo molto Rosa Luxemburg e lei aveva un’idea della catastrofe come cosa non negativa, come rivolgimento, e quindi questo esito catastrofico lei lo temeva, solo perche’ se appena avvertiamo che sta per arrivare la catastrofe non costruiamo l’alternativa, quando poi questa arriva "o socialismo o barbarie": e’ piu’ probabile la barbarie che il socialismo o la nonviolenza o qualcosa ancora a cui daremo un nome, se non prepariamo l’alternativa. Allora, secondo me, dobbiamo assolutamente costruire un’alternativa, anche non curandoci troppo di difficolta’ che ci possono essere. Quindi occorrono altre relazioni tra le persone, altri modi di relazione tra i ceti e le classi, altri modi di relazione tra gli Stati. Allora delle Nazioni Unite occorre prendere gli elementi che sono proiettati avanti, come "la guerra e’ un crimine", "si puo’ reprimere solo con la polizia e quindi prevenendola", e occorre lasciar stare i "residuati bellici" che ci sono dentro, come "noi abbiamo vinto, quindi siamo membri permanenti del Consiglio di Sicurezza". Insomma, io penso che costruendo l’alternativa si gestisce la catastrofe. Io sono molto appassionata anche di Ilya Prigogine, le leggi del caos, perche’ quando sei ai margini del caos, se ti lasci prendere viene fuori un omogeneizzato, una pappetta, se resisti si aprono tutti gli orizzonti possibili. Io mi esprimo con queste immagini, la "crisi finale", l’"alternativa", "socialismo o barbarie", il "caos", perche’ ho l’impressione che siamo in questa fase. Queste fasi, poi, di solito sono piene di contraddizioni, perche’ ci sembra che la guerra trionfi, pero’ dopo la seconda guerra mondiale nessun esercito regolare ha piu’ vinto una guerra: in Corea no, in Vietnam no, ne’ la Francia ne’ gli Stati Uniti, in Algeria no, in Afghanistan no, ne’ l’Unione Sovietica ne’ gli Stati Uniti, persino Israele, che ha un esercito molto potente e assai motivato, non riesce a venire a capo dei palestinesi, che sono un popolo senza terra.

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- Marco Catarci: Questo dovrebbe essere sufficiente a concludere che la guerra e’ uno strumento che non funziona.

- Lidia Menapace: E’ una "mastodontica residualita’", che siccome e’ mastodontica se si muove fa comunque disastri. E’ come un elefante impazzito. Ecco questi sono i sentimenti che io coltivo.

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- Marco Catarci: E forse anche per questo appare rilevante confrontarsi con il pensiero di Capitini: sono i drammi quotidiani della violenza generalizzata che costringono a ripensare oggi il rapporto fra realta’ politico-sociale e violenza. Quale e’ l’attualita’ di questa prospettiva oggi? Cosa e’ rimasto di questa esperienza di Capitini?

- Lidia Menapace: Dunque, potrei dire troppo poco, pero’ io ho di questi movimenti una certa immagine. Ad esempio il movimento delle donne e’ un movimento carsico, ogni tanto si inabissa non lo vedi piu’ e invece lavora sotto terra. A me piace molto questa immagine, perche’ avviene nel ventre della madre terra, perche’ l’acqua e’ molto legata a tutte le cose che capitano nel corpo delle donne, pero’ io sento e vedo che questa immagine dei movimenti carsici inizia a diffondersi, il movimento nonviolento e’ uno di questi, ogni tanto sbuca quando c’e’ bisogno, ma lavora sotterraneo.

RIFLESSIONE. MINIMO E TRISTISSIMO UN COMMENTO AL TESTO CHE PRECEDE

La persona che intervistata da Marco Catarci nel testo che precede dice molte cose buone e giuste (evocando anche la limpida e luminosa figura di Rosa Luxemburg che senza esitazioni si oppose alla guerra), e’ la stessa che da quando siede in parlamento ha ripetutamente votato a favore della prosecuzione della partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista in Afghanistan, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Come del resto la quasi totalita’ - la quasi totalita’ - dei parlamentari italiani.

Sembra incredibile. Ed e’ un dolore infinito. E abissale uno scandalo.


Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/

Numero 288 del 29 novembre 2007



Venerdì, 30 novembre 2007