Educazione alla pace
Etica e politica

di GIULIANO PONTARA

Riproponiamo (nuovamente ringraziando l’autore per avercela messa a disposizione) la versione in italiano di questa voce scritta per l’Enciclopedia de Paz y Conflictos, 2 voll., a cura di Mario Lopez Martinez, Editorial Universidad de Granada, Granada 2004.

Biografia di GiulianoPontara


La questione del rapporto tra etica e politica riguarda tre problemi fondamentali.

Definendo la politica come l’insieme dei comportamenti (di un individuo, di un gruppo, di una collettività) volti ad influenzare, conquistare, mantenere o esercitare il potere (a livello locale, statale, internazionale), i tre problemi possono essere posti brevemente nel modo seguente: 1) se l’agire politico possa plausibilmente essere fatto oggetto di giudizio morale, ossia se esso sia sussumibile sotto le categorie del moralmente giusto e ingiusto, doveroso e proibito, oppure esuli totalmente dalla sfera della moralità; 2) se, data una risposta affermativa alla precedente domanda, le esigenze morali cui soggiace l’agire politico siano fondamentalmente diverse da quelle cui soggiace l’agire privato; 3) se, o in che misura e a quali condizioni, la lotta politica possa essere efficacemente condotta con i mezzi propri della morale intesa in senso lato, ossia l’argomentazione, il dialogo, l’appello all’empatia, la pressione nonviolenta. I primi due problemi sono di natura prevalentemente teorico-filosofica, il terzo é invece di natura prevalentemente empirica. Nel plurimillenario dibattito sulla questione, questi problemi sono stati trattati in modo più o meno sistematico da pensatori, filosofi, sociologi, politologi, scrittori e politici di natura ed estrazione culturale più diversa. In questo dibattito, che va da Socrate a Gandhi, da Platone a Hegel e Croce, da Marx ed Engels a Lenin e Mao, da Aristotele a Tommaso d’Aquino a Maritain, da Machiavelli e Hobbes a Max Weber, Meinecke e Karl Schmidt, da Sofocle a Tolstoj e Sartre, sono individuabili relativamente a ciascuno dei tre problemi, tre tesi opposte: 1. La tesi dell’amoralità della politica verso la tesi della sua moralità; 2. la tesi dualistica verso la tesi monistica; 3) la tesi "realistica" verso la tesi "idealistica".

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1. Secondo la tesi dell’amoralità, l’agire politico (individuale o collettivo che sia) non soggiace, già a livello teorico, ad alcuna esigenza o limite di natura morale; esso esula dalla sfera della moralità tout court, é al di là del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Ne segue che chi formula sinceramente giudizi morali sull’agire politico compie un errore analogo a quello che compirebbe chi, applicando categorie morali alla condotta degli animali o delle macchine, giudicasse tali comportamenti moralmente giusti o doverosi o sbagliati. E’ però compatibile con questa tesi riconoscere che giudizi morali su questo o quell’agire o attore politico possono essere usati come strumenti di propaganda nella misura in cui si dimostrano mezzi efficaci nella lotta politica per i fini che si perseguono. Per esempio, visto che tanta gente crede - erroneamente, secondo i fautori della tesi in oggetto - che vi siano guerre moralmente giustificate e guerre moralmente ingiustificate, può essere assai efficace, al fine di ottenere l’appoggio ad una guerra, presentarla come moralmente giustificata.

Un argomento talora addotto a sostegno della tesi dell’amoralità della politica é che l’agire politico, a differenza dell’agire privato, non é espressione di una volontà libera, ossia che gli attori politici, a differenza degli individui che agiscono nella sfera del privato, non sono forniti di libero arbitrio. Questo argomento si fonda sulla premessa che la morale presuppone una volontà libera, o, come si suole dire, che dovere implica potere. Ma perché mai gli individui che agiscono in ruoli politici dovrebbero perdere quella libertà del volere che presumibilmente hanno nella sfera privata? Altra cosa é che vi possono essere azioni le quali, in determinate situazioni, sono politicamente impossibili, nel senso che un attore politico non può scegliere di farle se vuole influenzare, mantenere o conquistare il potere. A volte l’argomento in questione é formulato soltanto relativamente a comportamenti politici collettivi in situazioni conflittuali acute: in tali situazioni i singoli individui membri di tali collettività perderebbero del tutto ogni potere di scelta e l’agire collettivo diventerebbe simile ad un fenomeno naturale. In base a questo argomento, la guerra, per esempio, é il risultato di forze impersonali sulle quali gli uomini non hanno alcun potere di influire: strettamente, non sono gli uomini a scegliere di fare la guerra, ma forze impersonali che, in determinate situazioni, fanno fare agli uomini la guerra. In questo senso, tutte le guerre che si sono verificate e quelle che si verificheranno sono "necessarie". La guerra, quindi, non é né morale né immorale - é amorale.

La tesi dell’amoralità della politica non va confusa con quella della minore moralità secondo la quale vari fattori socialpsicologici e sociologici fanno sì che gli attori politici siano portati a trasgredire impunemente esigenze basilari di moralità in misura maggiore di quella in cui lo sono gli individui nei loro rapporti privati. Questa tesi presuppone che l’agire politico non esuli dalla moralità tout court.

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2. Se la politica rientra nella sfera della morale, un problema che sorge é in base a quali criteri essa vi rientri. Secondo la tesi dualistica, l’agire politico é moralmente giusto o ingiusto in base a criteri diversi - fondamentalmente diversi - da quelli validi nella sfera del privato. Vi sono varie versioni di tale tesi, a seconda del contenuto che più precisamente si dà a tali criteri. La versione forse più diffusa, risalente in parte a Machiavelli, a Lutero, ai teorici della ragion di stato, é quella elaborata da Max Weber. Egli distingue tra etica della convinzione o dell’interiorità (Gesinnugsethik) da una parte, ed etica della responsabilità (Verantwortungsethik) dall’altra. Grosso modo, la prima, valida nella sfera dei rapporti privati, é una forma di cosiddetta etica deontologica in quanto si articola in una serie di obblighi (non uccidere, non mentire, mantenere le proprie promesse, soccorrere i bisognosi, ecc.) valevoli nei confronti di tutti e vincolanti indipendentemente dalle conseguenze cui l’agire conforme ad essi conduce. Per Max Weber, quest’etica s’identifica sostanzialmente con l’etica dell’amore e della non resistenza al male predicata da Cristo. La seconda invece, valida nella sfera dell’agire politico, é una forma di cosiddetta etica consequenzialistica in quanto consiste in un principio fondamentale che prescrive di agire in base al calcolo delle conseguenze che l’agire ha per il bene o gli interessi dello Stato (o, in altre versioni, del popolo, o della nazione o della classe) cui si appartiene. Se vi sono altri obblighi morali, essi sono secondari rispetto a quello di massimizzare il bene dello Stato. Per l’attore politico le ragioni morali più forti sono sempre le ragioni di Stato: "salus rei publicae suprema lex". In base a questo principio di etica politica possono essere moralmente giustificate azioni - come mentire, uccidere, non mantenere patti - che in base all’etica privata sono ingiustificabili. Una siffatta concezione dualistica é problematica sotto vari aspetti. Qui se ne indicano brevemente due. Problematica, in primo luogo, é l’idea che vi sia una distinzione fondamentale e irriducibile tra esigenze etiche a livello privato e esigenze etiche a livello politico: é difficile vedere in base a quali argomenti una siffatta distinzione possa essere plausibilmente difesa. Altrettanto problematica, in secondo luogo, é l’idea di un obbligo irriducibile, ultimo e assoluto, o comunque dominante, di massimizzare il bene dello Stato cui si appartiene: perché mai le conseguenze dell’agire politico cesserebbero di essere moralmente rilevanti allorché investono, come spesso e in modo molto drammatico accade, il benessere di persone e gruppi che non appartengono allo Stato dell’attore politico agente? Perché mai le esigenze fondamentali della morale in politica si fermerebbero ai confini dello Stato, che é una costruzione storica che in futuro può anche non esistere? Tutti e due questi problemi sono evitati da una concezione etica che, riprendendo la dottrina dell’utilitarismo classico elaborata inizialmente da Jeremy Bentham e susseguentemente da Henry Sidgwick e altri, assume come unico e fondamentale principio etico quello che prescrive di massimizzare il benessere o la felicità generale a livello universale. L’utilitarismo é un esempio - forse il più convincente - di dottrina etica universalistica e monistica: ciò che rende un’azione (sia essa individuale o collettiva, privata o politica) moralmente giusta sono le conseguenze che essa ha sul benessere generale universale, incluso quello delle generazioni future. Va notato che in base a tale dottrina monistica si può sostenere una forma di dualismo derivato: siccome la previsione e il calcolo delle conseguenze delle nostre azioni sul benessere generale sono molto difficili e complessi, può essere preferibile - perché probabilmente massimizza il benessere generale - che nella vita quotidiana gli individui non deliberino applicando direttamente il principio utilitaristico bensì seguano delle norme generali di condotta. Queste norme possono benissimo identificarsi, almeno in parte, con quelle che nella tesi dualistica sopra accennata sono considerate proprie dell’etica individuale. A livello di grandi scelte collettive, sociali, economiche, politiche - che presumibilmente hanno conseguenze di ben più vasta portata sul benessere generale e dove presumibilmente si può contare sulla collaborazione di gruppi di esperti di vario tipo - può invece essere preferibile che le decisioni su quale alternativa mandare ad effetto siano basate direttamente sul calcolo delle conseguenze. Un altro tipo di dottrina monistica é quella fondata sull’idea di diritti fondamentali dell’uomo universalmente validi e tali da porre precisi vincoli morali sia all’agire individuale sia a quello collettivo, tanto nella sfera privata quanto in quella politica.

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3. Né la dottrina utilitaristica, né quella dei diritti umani escludono come sempre ingiustificato il ricorso alla violenza. Se o meno il suo impiego sia moralmente giustificabile dipende in parte da come é configurata la situazione in cui si agisce e in parte da come agiscono gli altri. Ora, secondo i fautori della tesi "realistica" la sfera della politica é caratterizzata da situazioni di incontro con la menzogna, la frode, la minaccia e l’uso della violenza, onde chi vuole partecipare alla lotta politica in modo efficace deve avere le virtù machiavelliche della volpe e del leone, ossia essere disposto a ricorrere a quegli stessi mezzi: non si può partecipare efficacemente alla lotta politica senza essere disposti ad avere, come dice Jean-Paul Sartre, "le mani sporche". A questa tesi si oppone la tesi "idealistica" per cui la lotta politica non é, per sua natura, essenzialmente connessa all’uso della menzogna, della frode e della violenza. La tesi si fonda sull’assunto che gli esseri umani, anche quando agiscono in gruppo e in situazioni conflittuali tese, possono essere in grado di comportarsi e reagire in modo umano, che essi sono influenzabili dall’appello alla ragione, all’empatia e dalla pressione nonviolenta. La storia dei rapporti tra politica e morale, da questo punto di vista, é la storia del continuo tentativo di moralizzare la politica creando situazioni e istituzioni che limitino e riducano in qualche modo il ricorso alla violenza e favoriscano gli strumenti del dialogo, del compromesso equo e la soluzione pacifica dei conflitti.

Tre importanti sviluppi in questa direzione, specie a partire dal secolo scorso, sono: a) l’affermazione in un numero sempre maggiore di stati, anche se in modo variamente efficace, del metodo democratico, con il quale la lotta politica viene condotta contando e non tagliando le teste; b) la creazione dell’Onu come strumento di governance umana basata sull’idea di diritti fondamentali; c) l’esplorazione pratica su vasta scala di metodi efficaci di lotta nonviolenta, da quelli impiegati dalle classi lavoratrici nella lotta tra capitale e lavoro, a quelli praticati da Gandhi, Martin Luther King e molti altri nella lotta per l’indipendenza di un popolo o per l’affermazione di fondamentali diritti umani. Viste le conseguenze sempre più esiziali che l’uso della violenza armata nei conflitti tra stati o tra etnie oggi conduce, compreso un rischio di catastrofe per l’intera umanità, tre tra le maggiori sfide di questo secolo sono quella di allargare ulteriormente il metodo democratico, quella di potenziare e sviluppare ulteriormente l’Onu in direzione di istituzione di democrazia internazionale o cosmopolita e quella di esplorare ulteriormente metodi efficaci di lotta nonviolenta.

Tratto da
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento settimanale del martedì’ de
La nonviolenza è in cammino

Direttore responsabile: Peppe Sini.
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Numero 120 del 12 dicembre 2007



Mercoledì, 12 dicembre 2007