NULLA SALUS BELLO

di Sebastiano Saglimbeni

Si approssima la ricorrenza che riguarda il centenario della prima guerra mondiale, di cui sono stati divulgati tanti libri. Se ne divulgheranno altri che, si spera, vogliono, fra l’altro, insegnare alle nuove generazioni che in guerra non v’è alcuna salvezza, come ammoniva nel suo poema, l’Eneide, Virgilio Marone.
“Nulla salus bello” (Nessuna salvezza in guerra), scriveva, oltre duemila anni or sono, e religiosamente rifletteva come in guerra si uccide alla pari e si soccombe alla pari, vincitori e vinti. “Caedebant pariter pariterque ruebant/ victores victique”. Così nella sua lingua di poeta della latinità.
Diversamente, ma dai medesimi effetti, il poeta del nostro tempo, Giuseppe Ungaretti, uno dei tanti scrittori e letterati in quel conflitto mondiale, esprimeva in versi come aveva vissuto, da soldato, la guerra. E, come esempio, si ricordino quei suoi 4 brevissimi notissimi versi di “Soldati”. Il poeta descriveva quella guerra, che cagionò milioni di morti e feriti, con questa rara sinteticità ed incisività:
“Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”.
Lo scrittore Elio Vittorini, uno degli acuti interpreti della crisi del nostro Novecento, scriveva, con amara ironia, che “le guerre generano nuovi linguaggi e nuove poetiche”. Ad Ungaretti, la guerra gli aveva ispirato alcune liriche, spesso scelte dagli antologisti di testi letterari, come testimonianza di denuncia della tragicità belica.
“I poeti non dimenticano”, scriveva Salvatore Quasimodo, a proposito di altre atroci morti nell’ultima guerra mondiale. Nessuna salvezza in quella prima guerra mondiale, che non si volle scongiurare, e che si credeva, come l’ultima, si potesse concludere in breve tempo. Durò tre anni. Eppure, per scongiurarla, era stato predicato il forte pacifismo del papa Benedetto XV, che - lo scrive nella sua Storia d’Italia 1861-1958 Denis Mack Smith - si “trovava su questo punto stranamente solidale con socialisti ufficiali, ma il motto dei socialisti, ‘né aderire, né sabotare’, rispecchiava in maniera evidente le loro divergenze interne d’opinioni”.
Da non dimenticare che molti uomini di lettere furono interventisti e propagarono una propria apologia della guerra. Addirittura, i futuristi la definirono l’ “igiene del mondo”, ma il vero Paese restava intimamente avverso o indifferente alla guerra. La osteggiavano le masse popolari, i contadini, e gli operai dei centri industriali.
L’interventismo, nonostante andasse intensificandosi, tra l’ottobre del 1914 e il maggio del 1915, era rimasto una manifestazione di minoranza, ma il fronte studentesco esercitò una solida capacità di attrazione. A questo si erano uniti gli intellettuali e, come prima accennato, gli scrittori e i letterati.
Come si sa da tanti manuali di storia, Antonio Salandra, assurto a primo ministro, dopo la caduta del governo Giolitti, aveva affiancato la Triplice Intesa e così si era assicurata l’entrata in guerra dell’Italia. Per la memoria, il Salandra, un ministro conservatore, che dopo gli insuccessi della guerra, si dimise. Nel 1922 inneggiò all’ascesa del fascismo, che, dopo, nel 1928, lo nominò senatore.
Mentre si dirà della guerra 1915/ 1918 verranno alla luce tanti nomi di “protagonisti”. Tra questi, quello di Luigi Cadorna, un militare che riscuoteva delle benemerenze, grazie al padre Raffaele, il liberatore di Roma nel 1870. “Egli era un buon organizzatore, sia lui che i suoi principali colleghi mancavano d’ingegno, d’inventiva e di elasticità mentale, ed ispiravano d’altra parte scarsa fiducia ed affetto nei loro uomini”, scrive ancora Smith. E, proseguendo, dirà che Cadorna venne “accusato di aver fatto fucilare, nel corso delle decimazioni da lui ordinate, anche dei soldati che non si trovavano in zona di operazione nei giorni in cui si erano verificati gli eventi per i quali erano stati condannati”.
I sostenitori della guerra e la maggior parte dei vertici militari restavano rigidamente insensibili alle morti o fingevano amarezze. Ora su di loro l’inesorabile oscurità ha esteso la sua ombra e quanto di migliore per il Paese credettero di aver fatto era stato ambiguo e vano.
La guerra, che si può definire la conseguenza dell’insipienza della politica, va fermamente ripudiata.
Dopo l’ultimo conflitto mondiale, la nostra Carta Costituzionale, all’art. 11, redatta da uomini di valore culturale e morale, la ripudia “come strumento di offesa degli altri popoli…”. Le madri latine la detestarono (Bellaque matribus/ detestata). Giovanni Evangelista, alludendo al male, in senso lato, scriveva che “gli uomini preferirono piuttosto la tenebra alla luce” (Kai egàpesan, oi antropoi màllon to scòtos e to fos). Si era come ornato di questa proposizione l’inquieto Giacomo Leopardi che la citava in cima al suo testo poetico “La ginestra o il fiore del deserto”. Francesco Petrarca con “La canzone ai signori d’Italia” diffondeva un messaggio pacifico e umanitario, motivato dalla caducità dell’esistere e dalla pietas. Chiudeva quella sua grande poesia con l’endecasillabo:
“I’ vo gridando: Pace, pace, pace”.
Si faccia conoscere, con libri, dibattiti, film, esposizioni di immagini, quella prima guerra mondiale, ma come denuncia di una delle tante e tante distruzioni del genere umano. Si ricordi e si detesti quanto specificava nel 1915 il generale Cadorna. Vale a dire: “Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale”.
Si ricordino i luoghi (Isonzo, Caporetto, Piave, Montello, Monte Grappa, ecc.); si ricordino i martiri che leggemmo nei manuali scolastici (Battisti, Sauro, Chiesa, Filzi, Baracca, ecc.), ma si rifletta sulle parole “Sfortunato quel paese che ha bisogno di eroi”, dello scrittore Bertolt Brecht.



Lunedì 07 Aprile,2014 Ore: 16:59