Razzismo
I fantasmi del Sudafrica

di Paolo Naso,
giornalista e docente di scienza politica alla Sapienza di Roma

Un vento xenofobo soffia sul Sudafrica e in pochi giorni ha già prodotto decine di vittime. Gli episodi più gravi si sono registrati ad Alexandra e a Johannesburg dove la Central Methodist Church che ospita un migliaio di immigrati provenienti in massima parte dallo Zimbabwe, è stata presa d’assalto da una folla di persone determinate a cacciarli dal loro "rifugio" e dalla città. L’intervento della polizia ha scongiurato il peggio ma è evidente che la situazione rimane tesa. Dai quartieri più poveri e desolati del Sudafrica, gli stessi nei quali più brutali sono stati gli effetti dell’apartheid, si leva un’ondata di protesta contro i circa 3 milioni di immigrati provenienti dai paesi più vicini afflitti da carestie, guerre civili, violenze etniche. Insomma, due disperazioni messe l’una contro l’altra: quella di chi subisce ancora gli effetti del razzismo di stato dell’apartheid e quella di chi paga l’instabilità economica e politica di tante regioni dell’Africa.
Ma rispetto ad altre crisi del continente nero, questo caso ha una sua specificità: il Sudafrica è un paese largamente cristiano, con una maggioranza protestante e segnato da una vicenda - l’apartheid, il suo crollo e la costruzione di un paese finalmente multietnico - nella quale le chiese hanno svolto un ruolo di primo piano.
Sono in molti a ritenere che il processo "verità e riconciliazione", saldamente guidato dal vescovo anglicano e Premio Nobel per la pace Desmond Tutu, abbia salvato il paese da un bagno di sangue. Attraverso i tribunali di "verità e riconciliazione", il Sudafrica è riuscito a fare i conti con la propria storia e le proprie terribili sofferenze, senza confondere vittime e carnefici, oppressi ed oppressori. Ma al tempo stesso, in quei tribunali nei quali sono sfilate tante persone per riconoscere i loro errori o per condividere le loro sofferenze, si è anche costruita una verità condivisa che ha consentito al paese di guardare con fiducia al suo futuro e di aprire una nuova stagione della sua storia. Finalmente democratica e multietnica.
In quel processo le chiese, comprese quelle protestanti maggiormente compromesse con la teologia dell’apartheid, svolsero un ruolo importante: confessarono il loro peccato e si misero al servizio di un cammino di riconciliazione nazionale. La crisi di questi giorni propone alle chiese sudafricane una sfida analoga: svolgere un ruolo attivo per fermare questa brutta "guerra tra poveri" ed adoperarsi per costruire una cultura dell’accoglienza e della solidarietà. Lo stanno facendo in queste ore: "Vi prego, vi prego fermatevi. Noi non ci comportiamo in questo modo. Quelli sono nostri fratelli e nostre sorelle", implora pubblicamente Desmod Tutu. "Ci impegniamo a lavorare con le istituzioni e con tutti coloro che vivono nelle aree a rischio per promuovere la sicurezza e condizioni di vita sostenibili, sia per i sudafricani che per gli immigrati", gli fa eco Eddie Makue, segretario generale del Consiglio delle chiese del Sudafrica - un organismo che raccoglie 26 chiese protestanti del paese, sia bianche che nere - che cita i passi della Bibbia che sottolineano la "responsabilità dei credenti di mostrare ospitalità agli stranieri e di proteggere i membri della società più vulnerabili, compresi coloro che arrivano da un altro paese". Un altro dirigente del Consiglio delle chiese del Sud Africa, Gift Moerane, ammonisce a non cadere nella trappola di "trasformare gli immigrati, o qualsiasi altro gruppo altrettanto vulnerabile, in capri espiatori per i difficili e complessi problemi che essi sono costretti ad affrontare". "Scontiamo la frustrazione delle aspettative popolari per una profonda trasformazione e gli effetti di una serie di fattori che hanno fermato lo sviluppo dei paesi confinanti dove si sono create delle élite che hanno concentrato nelle loro mani il potere politico ed economico", commenta un altro pastore sudafricano, Andre Bartlett.
E le chiese non si limitano ad analizzare i problemi. Si attivano, entrano nei quartieri a rischio e provano a calmare gli animi, a ragionare sugli effetti catastrofici di questa ondata di violenza contro gli stranieri. Insomma svolgono una preziosa azione di mediazione. Avrà successo soltanto se il governo saprà rassicurare le fasce sociali dei sudafricani più poveri e disperati, quelle nate e cresciute nelle township dell’apartheid, se vedranno che il nuovo Sudafrica si fa carico delle loro paure e delle loro speranze. (NEV 21/2008)
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da: http://www.fedevangelica.it/articolo-2.asp?var=202



Giovedì, 22 maggio 2008