Rifugiati al Sud, barriere al Nord

Un’inchiesta di PHILIPPE REKACEWICZ (da Le Monde Diplomatiqie, Marzo-2008, suppl. Manifesto)


«Io e i miei colleghi eravamo vicino alla dogana per contare le persone che attraversavano la frontiera e valutare i bisogni immediati - racconta William Spindler, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), all’epoca (nel 1996) di stanza in Ruanda. Aspettavamo 20.000 persone nella giornata, e avevamo gli stessi contabilizzatori manuali che le hostess utilizzano negli aerei per verificare il numero dei passeggeri. Alla fine ci sono passate davanti tra le 20.000 e le 30.000 persone... all’ora! In totale, ne abbiamo accolte 350.000 in una giornata, ossia l’equivalente di due volte la città di Ginevra, che avremmo dovuto nutrire e curare subito. Cosa potevamo fare? Niente, veramente, a parte constatare, impotenti, le nascite e le morti sul bordo della strada, e portare i primi soccorsi a quelli che erano nel nostro campo di visione immediato».

Di fronte a spostamenti di proporzioni simili - che restano per fortuna un’eccezione - , è impossibile organizzare aiuti d’urgenza nelle prime ore, proprio quelle durante le quali la popolazione è più esposta al pericolo.
L’Acr, istituzione delegata a far fronte alle crisi umanitarie dall’assemblea generale dell’organizzazione delle Nazioni unite (Onu), ha tuttavia saputo mettere in campo un apparato logistico che le permette di portare aiuto a 500.000 persone in meno di quarantotto ore. Una cosa che non s’improvvisa. Le sue carte? Trecento specialisti di logistica e personale sanitario «di guardia» sui cinque continenti, pronti a partire e a recarsi sul posto. Centinaia di migliaia di serbatoi in plastica, tende, secchi, utensili da cucina, coperte, zanzariere, ma anche camion, depositi prefabbricati e generatori elettrici pronti per essere imbarcati su un esercito di aerei da carico Antonov a partire dai depositi di Dubai, Copenhagen, Amman, Accra o Nairobi; l’appoggio del Programma alimentare mondiale (Pam) per il trasferimento massiccio di cibo e, sul campo, di numerose organizzazioni non governative (Ong). L’azione umanitaria comincia con una corsa contro il tempo per salvare delle vite: nutrire, curare e mettere al riparo.

Risolta l’urgenza, avviato l’aiuto materiale, comincia il lungo e difficile percorso per registrare e proteggere i rifugiati. Avendo attraversato la frontiera, hanno perso la cittadinanza del loro paese d’origine senza per questo trovarne un’altra nel paese che concede loro asilo. Tocca allora all’Alto commissariato assicurare protezione - fisica e giuridica - a tutti quelli che ne hanno bisogno. Bisogna poter identificare questa popolazione bisognosa di assistenza per stilare i bilanci necessari. «La registrazione presso l’Acr nei paesi d’accoglienza resta facoltativa - ricorda Karl Steinacker, capo della sezione d’appoggio al coordinamento e all’informazione sul campo. Sono gli stessi rifugiati che decidono o meno di farsi conoscere. In Ecuador, abbiamo registrato circa 25.000 colombiani in fuga dalla guerriglia, ma sappiamo che ce n’erano molti di più. Molti avevano ritenuto inutile o pericoloso dichiararsi.

Un’inchiesta ci ha permesso di identificare - e portare aiuto - a 240.000 rifugiati supplementari». Un po’ dappertutto sul pianeta, diverse centinaia di migliaia di persone che hanno diritto a ottenere lo statuto internazionale di rifugiato restano invisibili e sfuggono alle statistiche. Allora, come far fede alle cifre?
 
L’Acr censisce dieci milioni di rifugiati (fine 2006) mentre il Comitato degli Stati uniti per i rifugiati e i migranti (Uscri) ne conta quattordici milioni. E non è tutto: alcuni responsabili dell’Acr e delle Ong umanitarie confessano di sottostimare localmente le popolazioni rifugiate. Come in Thailandia, dove il governo decide, a ogni nuovo arrivato, a chi darà o no lo statuto... Nei campi disseminati lungo la frontiera con la Birmania, i quadri dell’esercito passano al setaccio ogni domanda di registrazione presso l’Acr e sono loro a decidere, in ultima istanza.
 
Quanto ai rifugiati afgani, vivono da più di una generazione sia in Iran - dove sarebbero infatti due milioni e non uno, come indicano le statistiche ufficiali - che in Pakistan, dove si stima siano tra due e tre milioni, e non tra uno e due. Per complicare ancora il compito degli statistici, il governo iraniano obbliga i rifugiati - un nuovo obbligo - a comprare un permesso di lavoro per una somma equivalente a circa 140 dollari. Diventati «lavoratori legali», escono all’improvviso dai registri dell’Acr. Infine, in Siria e in Giordania, ci sono tanti rifugiati provenienti dall’Iraq che il tempo di attesa perché possano farsi registrare e beneficiare dei loro diritti può arrivare a due mesi e più.
In totale, i paesi in via di sviluppo accolgono oltre l’ 80% di rifugiati.

Peggio, sono i paesi relativamente poveri che ricevono i contingenti più importanti: la Repubblica democratica del Congo (tra 200.000 e 300.000, 1,7 milioni se vi si aggiunge la popolazione profuga), la Siria (oltre un milione), lo Yemen (100.000), la Tanzania (circa 500.000), il Pakistan (oltre un milione), la Giordania (tra 2,3 e 2,5 milioni)... Nessuno di questi avrebbe i mezzi di assumere da solo questa responsabilità senza l’aiuto logistico e finanziario degli stati del nord, attraverso le Nazioni unite e le loro reti organizzative.

Tuttavia si conosce molto meglio la situazione dei rifugiati di quella dei profughi. Obbligati a lasciare la casa, vivono il destino dei rifugiati senza poterne pretendere lo statuto: sono «esiliati» nel loro proprio paese. «Gli stati fanno prevalere la loro sovranità e il rischio "d’ingerenza nei loro affari interni", il che riduce considerevolmente le nostre possibilità di aiutare quelle persone in pericolo» precisa Antonio Guterres, ex primo ministro del Portogallo e attuale alto commissario dell’Onu per i rifugiati. «E bisogna ancora che abbiamo un mandato, come è il caso per le popolazioni profughe di Colombia, Iraq, Rdc, Azerbaigian o del Sudan, dove, sfortunatamente non possiamo assisterne che una parte (1,3 milioni su 5).
 
Noi siamo molto preoccupati per la sorte dei milioni di profughi nel mondo che restano fuori dalla nostra portata, è uno degli assi sui quali lavoriamo prioritariamente». Queste popolazioni restano in effetti difficilmente accessibili e molto spesso lasciate a loro stesse poiché lo stato semplicemente non ha la capacità di venir loro in aiuto - quando non è lui stesso a opprimerle.

«A meno che questo stato non strumentalizzi i suoi rifugiati per far pressione sull’opinione pubblica internazionale - ricorda un operatore umanitario - come l’Azerbaigian con le centinaia di migliaia di persone originarie dell’Alto Karabakh. Il governo aveva l’abitudine di mostrare in televisione gruppi di rifugiati miseri che sopravvivevano in treni abbandonati, aperti ai venti, vicino alla stazione di Baku.
Le autorità hanno d’altronde rifiutato, allora, l’istituzione di programmi di scolarizzazione o di formazione professionale per mostrare al mondo il carattere temporaneo di quella situazione, a costo di sacrificare un’intera generazione di scolari». Non lontano, in Georgia, i 250.000 rifugiati dei conflitti di Abkhazia e di Ossezia del sud si rifugiano, anch’essi, nei treni abbandonati, ma anche negli edifici insalubri e negli hotel requisiti. «Centinaia di famiglie venute da queste regioni s’ammassavano nelle piccole camere degli hotel Adjara e Iveria nel centro città - testimonia Manana Kurtubadze, docente di geografia all’università di Tbilisi.

Erano molto visibili. Passavamo spesso vicino all’uno o all’altro andando al lavoro, e la visione quotidiana di questi edifici scalcinati ravvivava la nostra cattiva coscienza. Alla fine dell’anno 2005, sono state pregate di lasciare quei luoghi, in cambio di 7.000 dollari per comprare dei piccoli appartamenti e andarvi ad abitare. È così che questi rifugiati, disseminati nella capitale o in periferia, sono diventati invisibili. Da allora, non se ne parla quasi più, ma il problema resta intatto».
 
Di nuovo, cosa pensare delle cifre che ci vengono presentate? È al Centro studi sugli spostamenti interni (Idmc) del Consiglio norvegese per i rifugiati che il comitato inter-agenzie e coordinamento umanitario dell’Onu ha affidato, giusto dieci anni fa, la creazione e la gestione di un database sui profughi. Questa istituzione, un’autorità in materia, stima il numero dei profughi in 25 milioni. «Questa cifra comprende solo gli spostamenti di popolazione legati ai conflitti, alle violenze politiche o alle violazioni di diritti umani - precisa Frédérik Kok, ricercatore per l’Idmc.
 
Tutta la difficoltà sta nel fissare una definizione che tenga conto delle cause molteplici degli spostamenti, ma anche di stabilire quando termina uno spostamento, perché il ritorno o il reinsediamento delle popolazioni profughe non sempre significano soluzioni durature».
E precisa il nostro interlocutore: «I grandi progetti di sviluppo (barriere, centri industriali, piantagioni) spostano, per esempio, tra dieci e quindici milioni di persone all’anno.
 
Per quel che riguarda gli spostamenti legati a problemi ambientali, le scale di grandezza sono ancora più spettacolari: nel 2006, hanno riguardato, secondo il Centro di ricerca sull’epidemiologia dei disasitri (Cred), 145 milioni di persone. Noi facciamo fatica a ottenere cifre precise, ma si può considerare che gli spostamenti legati ai grandi progetti di sviluppo e ai disastri naturali siano da cinque a dieci volte più importanti di quelli prodotti dai conflitti. Mettendo insieme tutte le cause, gli spostamenti "forzati" riguardano tra cento e duecento milioni di persone». Nella prospettiva di questo «allargamento» del campo della definizione dello spostamento forzato, gli analisti dell’Idmc, che coprono attualmente la situazione per cinquanta paesi, riconoscono facilmente qualche seria lacuna. Pensano segnatamente di aggiungere alla loro lista di paesi da seguire, la Cina, il Brasile, certi piccoli stati insulari e, perché no, gli Stati uniti...

Gli Stati uniti? «Sì, anche gli Stati uniti! - esclama Arild Birkenes, specialista dello spostamento interno in America latina. È ora di misurare le conseguenze della mondializzazione, della liberalizzazione degli scambi sugli spostamenti "forzati" della popolazione. Quante centinaia di migliaia di contadini messicani - produttori di piselli, di mais, o di fagioli - che non possono più far fronte alla concorrenza selvaggia dei prodotti americani ultra sovvenzionati hanno dovuto abbandonare il loro terreno, lasciare la loro terra e raggiungere...
gli Stati uniti, più spesso clandestinamente?». Senza dimenticare le 400.000 vittime dell’uragano Katrina - i più poveri - che non hanno ancora potuto rientrare a casa loro. Bisognerà anche un giorno valutare l’importanza degli spostamenti legati allo sviluppo delle grandi piantagioni forestali in tutta la regione amazzonica...

Dopo i conflitti e l’ambiente, si delinea una nuova relazione: si potrà parlare di spostamento «forzato» per cause essenzialmente economiche?

Come determinare il carattere dei movimenti di popolazione? Quale criterio permetterà di fare la distinzione tra un migrante per motivi economici e un migrante tout court o un rifugiato? Domande che preoccupano seriamente i responsabili dell’Acr. «Da qualche anno, i flussi migratori si sono considerevolmente sviluppati, e le cause di queste migrazioni si sono moltiplicate - precisa Guterres.

Su certi luoghi d’arrivo, si distinguono sempre più difficilmente i migranti economici dai rifugiati che fuggono le guerre e le persecuzioni.
Nel quadro di questi "movimenti migratori misti", come garantire un’assistenza e una protezione efficace a quelli che rilevano del nostro mandato? La confusione tra la questione del diritto d’asilo e la migrazione ci mette in una situazione inedita, che noi non possiamo gestire senza la collaborazione di agenzie quali l’Ufficio internazionale delle migrazioni, ma anche delle Ong con le quali noi lavoriamo abitualmente sul campo».
Se migranti economici e rifugiati non prendono sempre le stesse strade, affrontano però i pericoli peggiori negli stessi posti: le isole Canarie, Gibilterra, Lampedusa, il mare Egeo, il golfo di Aden (dove gli scafisti sono di una crudeltà inimmaginabile), la frontiera del Messico con gli Stati uniti (si veda l’articolo di Anne Vigna alle pagine 8 e 9), la frontiera sudafricana, i Caraibi, l’Australia.
Queste popolazioni sono così diverse da volerle ad ogni costo differenziare?

Il migrante economico, anch’egli, ha forse una scelta diversa da quella di partire? Perché non potrebbe pretendere, anch’egli, una protezione internazionale? «Cercare di far la differenza oggi non è più pertinente - conclude Birkenes - poiché, anche se le cause degli spostamenti sono varie, le conseguenze sono le medesime. E tutti quelli che vengono trovati abbarbicati alle imbarcazioni di fortuna in mezzo al mare o che vengono recuperati nei doppi fondi dei semirimorchi o nei container meritano la stessa assistenza e che meritano gli vengano riconosciuti gli stessi diritti».

Questo paradosso spiega senz’altro il disorientamento, palpabile, di certi responsabili dell’Acr. L’agenzia comincia d’altronde a aprire gli uffici nei settori più sensibili come Lampedusa, dove il personale (molto ridotto, per il momento) tenta di assicurare che «quelli che arrivano» ottengano l’accesso da una parte al territorio e dall’altra alle amministrazioni che accordano - o meno - il diritto d’asilo.
A mezza bocca, si sottolinea all’Acr, come nelle grandi Ong umanitarie, la necessità di adattare urgentemente il mandato che è stato loro affidato a questa situazione. Ieri, si è dovuto integrare: certi spostamenti forzati, le persone vulnerabili bisognose d’assistenza, i rifugiati rimpatriati, e più di recente, le popolazioni apatridi.
Vedremo presto il linguaggio onusiano arricchirsi di una nuova espressione: «rifiugiati economici»?


Giovedì, 15 maggio 2008