Razzismo
Ma dove erano, prima?

di Marco Ottanelli

Vi sono sentimenti dettati dall’odio che consentono di progettare un futuro migliore. Altri, invece, distruggono la facoltà di pensare e di riconoscere la realtà. Eccone un esempio. (luigi De Paoli)
dal sito: www.democrazialegalita.it


17 maggio 2008.
Partecipo, come “valutatore”, ad un convegno a Grosseto. Si tratta di discutere i lavori di alcune scolaresche, medie e superiori, della città toscana e della sua provincia. I lavori sono la conclusione del “Progetto Legalità” al quale ho cercato di portare, nei mesi passati, il mio contributo, illustrando, in un paio di incontri, la Costituzione ed i suoi valori.

Con me, presenti tra i commentatori, anche Massimo Borghi (presidente del consiglio provinciale), Stefano D’Errico (Amministratore TV9), Domenico Bilotta (Fondazione Caponnetto), un giovane ufficiale dei Carabinieri, ed altri ancora.

Qualche filmato, inchiestine sul bullismo, il racconto di una esperienza di auto-regolamentazione, e poi, quasi in ultimo, un questionario – inchiesta sulla immigrazione.

Prima (grossa) perplessità: ma cosa diamine c’entra la immigrazione con la legalità/illegalità? È così dannatamente tardi per capire che le due cose non sono sovrapponibili, non sono accostabili, non sono neanche avvicinabili? È così dannatamente tardi distinguere un fenomeno generale (persone che si spostano da un Paese all’altro) da una serie di atteggiamenti criminali individuali (rubare, ammazzare, la mafia, la speculazione edilizia...)?

La ragazza incaricata di illustrare il progettino ci sciorina una serie (confusa) di dati sulle nazionalità presenti nel territorio (un centinaio circa), ci illustra con grafici colorati qualche percentuale, qualche numerino, qualche dato. Veniamo a sapere che quasi il 70% degli immigrati a Grosseto è laureato o diplomato. Veniamo a sapere che è più o meno integrato. Veniamo a sapere che quasi tutti lavorano. Nessun accenno né al tasso di delinquenza, né al tasso di onestà.

Poi, la ragazza ci legge il passaggio secondo il quale la maggior parte dei lavoratori impiegati ha dai 30 ai 50 anni. Si sofferma,alza lo sguardo mostrando scandalo e stupore, e ci dice: “ora, io mi son fatta una domanda: se cominciano a lavorare a 30 anni, dove erano prima? Che hanno fatto fino a quell’età?”. È una domanda retorica, la sua, perché la risposta lei la ha già: a bighellonare, evidentemente, a non far nulla da mane a sera! Scuote i riccioloni e accenna un sorriso sarcastico. I commenti dei suoi compagni, seduti in sala alle mie spalle, sono tutti su quel genere. E i termini razzisti si sprecano.

Si passa poi alle condizioni di lavoro: circa la metà dei contattati ha lavorato a nero. La ragazza orgogliosamente deduce che, visto che il 50% lavora a nero, e il 50% lavora regolare, siamo pari e “allora, evidentemente lo scelgono loro, di lavorare a nero, perché gli conviene così, gli sta bene così!”. L’applauso si frena appena in sala, e i commenti razzisti ricominciano.

Alla domanda: secondo te, sei pagato equamente, pare che quasi il 60-70% abbia risposto di sì. Ma alla domanda successiva (“le ore di straordinario ti vengono retribuite?”) quasi tutti rispondono di no, ma nessuno mette in risalto la ovvia contraddizione.

Ultima domanda: “rimarrai in Italia o tornerai al tuo Paese?”. 80% di “rimarrò”. A quel punto i ragazzi sbottano, non si tengono più “certo che ci rimangono, guadagnano un sacco di soldi, stanno meglio di noi, e poi si lamentano anche, ma che vogliono!” il tutto condito dalle solite parole civilmente inaccettabili.

Rimango stupefatto. Incredulo. Vedo le stesse facce perplesse attorno a me. Non sappiamo che dire, ma qualcosa bisognerà pur commentare. Mentre mi agito sulla sedia, parte l’ultima presentazione in Power Point, anch’essa sul bullismo. “avete mai assistito ad atti di bullisimo?”. Risponde una ragazza al microfono: “sì, sull’autobus, alcuni studenti non fanno sedere gli stranieri accanto a loro”.

Ma...ma questo non è bullismo! È apartheid! Siamo tornati al Sudafrica di Botha! Siamo al caso delle autolinee di Montgomery, Alabama!

Mentre strabuzzo gli occhi, l’ufficiale dei carabinieri, che deve andar via, prende la parola, e, con imbarazzo, ricorda che lavorare a nero, per un immigrato, non è questione di scelta, ma di sopravvivenza. Letteralmente: di sopravvivenza. Ed esprime molti dubbi sulla interpretazione e la completezza dei dati.

Poi, parlo io. Provo a rispondere alla prima domanda, “dove erano fino a 30 anni?”. Ma dove volete che fossero: a casa loro! Nei loro Paesi! A prendere quei diplomi e quelle lauree che avete citato voi stessi! A lavorare, a cercare lavoro, a fare chissà cosa, insomma, a vivere, come noi, come tutti. Anche perché, se fossero stati in Italia dagli zero anni, o sarebbero italiani, o sarebbero “figli di immigrati”, non immigrati essi stessi! E comunque... quale credete che sia la fascia di età, tra noi italiani, di quelli che lavorano?

La reazione della piccola relatrice è stizzita. Comincia a rispondere, male, dal fondo della sala dove è andata a sedersi. Si offende, si ribella, si arrabbia proprio. Quando poi le provo a spiegare che nella statistica da loro elaborata non comparivano i clandestini, gli irregolari, e che quindi i dati su chi lavora a nero e chi no sono un po’ dubbi, è un coro solidale di “ma quelli non hanno voluto risponderci, perché non son venuti a rispondere alle nostre domande, perché scappano? Sono stati loro a non partecipare!”. Evito di polemizzare, e provo (provo!) a spiegare che il lavoro a nero non è mai, mai, una scelta volontaria. Provo a spiegare cosa vuol dire lavorare a nero: niente pensione, niente ferie, niente contributi, niente malattia retribuita, nessuna assistenza legale o sindacale, e la possibilità di essere licenziati in tronco da un istante all’altro. Questo per tutti noi.

Per un immigrato vuol dire anche poter essere espulso, o anche essere arrestato come clandestino. Mi pare un ragionamento logico. Ma non piace affatto. La platea quasi insorge. Macché, quelli lavorano a nero perché gli conviene e basta! Qualcuno, sommessamente, mi offende. Provo (provo!) a dire che chi si comporta male è il datore di lavoro che, in tal modo, evade le tasse, non versa i contributi, affossa l’Inps e l’Inail (si parlava di legalità, o sbaglio?). Un diciottenne muscoloso mi guarda gelido e mi fa: “un imprenditore deve assumere a nero, a causa della pressione fiscale eccessiva”. Ma come parla? Io a 18 anni non lo sapevo neanche, cosa volesse dire pressione fiscale. Ci rimango male.

Tocca al presidente del consiglio provinciale: anche lui ribadisce, con passione, veemenza e tanto cuore, che i ragazzi non hanno capito, non possono aver capito! Il lavoro a nero è un dramma, è una schiavitù, non una scelta! Anche lui torna sul concetto del “dove erano, cosa hanno fatto, fino a trent’anni”, e poi aggiunge che i dati elaborati dagli studenti lui li conosce bene, sono quelli che fornisce il locale ufficio provinciale del lavoro, e che quindi sono, in un certo senso, falsanti, visto che si riferiscono solo agli stranieri che hanno avuto un regolare permesso di lavoro. Invita poi gli studenti e le studentesse ad andare con lui in questura a vedere la paura, l’ansia di coloro che devono rinnovare un permesso di soggiorno, quindi di immigrati regolari, per farsi una idea di quale situazione di terrore viva un clandestino, sia esso un raccoglitore di pomodori nella agricola e ricca Maremma, sia esso un operaio edile che lavora alla scellerata cementificazione della costa grossetana, sia essa una badante che accudisce vecchietti e vecchiette nelle mille piccole località della provincia. Ma i ragazzi, e le ragazze in particolare, non ci stanno, fanno gestacci, scuotono il capo, non ascoltano ma puntano le dita e alzano la voce. Non gridano, ma solo per un residuo scampolo di rispetto che hanno conservato per noi. No, siamo proprio nel torto, a loro dire. Non sappiamo mica nulla di come vanno le cose.

La mattinata volge al termine. Esco sulla piazza Dante, a fianco della cattedrale coperta di marmi rosa. La ragazza che ha sviluppato il progetto sulla immigrazione mi passa a fianco e mi guarda storto, con un po’ di odio, quell’odio innocuo ed infantile che si può avere, a diciotto anni, capelli ricci, fisico da discoteca, nei confronti di un bieco quarantenne che non ti ha voluto dare ragione.

La vedo andar via pestando i passi sul selciato, seguita dalle compagne ed i compagni. Alcuni di loro prenderanno l’autobus per tornare a casa. Mi chiedo se permetteranno agli stranieri di sedersi.

P.s. : Voglio precisare che non tutti gli studenti presenti hanno assunto lo stesso atteggiamento né mostravano la stessa dinamica mentale. Qualcuno (pochissimi) si è distinto.

P.P.s. : Uno dei lavori svolti da una delle scuole presenti era una intervista alle forze dell’ordine. Parlando dei reati e della delinquenza sul territorio grossetano da imputarsi agli immigrati, l’intervistato (non ricordo, purtroppo, la sua qualifica) ha parlato unicamente dei problemi causati dagli immigrati sardi. Sì, della Sardegna! Che, nel passato, si son macchiati di crimini come il sequestro di persona, e che oggi, insomma, pare ne combinino ancora delle belle. I ragazzi ne chiederanno l’espulsione in massa?



Martedì, 20 maggio 2008