Riflessione della presidente dell’Ucebi sul clima che stiamo vivendo in Italia
Sicurezza: il nuovo idolo al quale sacrificare ogni cosa

di ANNA MAFFEI

L’INCONTRO giornaliero con l’informazione a mezzo stampa e televisione si fa ogni giorno più duro. Lo sconcerto per le notizie che occupano le prime pagine è grande. Mi riferisco in particolare a quelle che parlano di vio­lenza, pubblica e privata. La violenza di branco dei ragazzi su coetanei. Torture, stupri, omicidi. La violenza contro i Rom. Gli incendi. Gli sgomberi. La de­portazione. Malattia sociale endemica che sta rapidamente esplodendo epide­mica, cieca, acuta con la complicità del­le istituzioni. Le retate. Gli arresti di massa. «Pulizia» di Stato. Esseri umani spazzatura. Si è perfino affacciato nel clima di «tolleranza zero» (= intolleran­za) il reato di «clandestinità». Una mo­struosità perfino averla concepita. Una persona diventerebbe criminale, quindi passibile di reclusione, semplicemente quando è sul territorio italiano senza avere i permessi in regola.
Se non si vogliono considerare i drammi che ci sono nella biografia della gran maggioranza di coloro che appro­dano in Italia spesso dopo viaggi peri­colosissimi - e andrebbero attentamen­te considerati, a meno di una spietata miopia spirituale -, dei diritti della per­sona facciamo carta straccia? Ogni per­sona è soggetto di diritti inalienabili a partire da quelli che sono affermati nel­la dichiarazione universale dei diritti umani come l’art. 3 «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicu­rezza della propria persona» o l’art. 6 «Ogni individuo ha diritto, in ogni luo­go, al riconoscimento della sua persona­lità giuridica». In ogni luogo.
Diritti e doveri. Ogni persona è anche responsabile delle proprie azioni. Anche quando delinque. Se una persona delin­que va punita. Se non delinque punirla è un abuso intollerabile. E non può essere incolpata un’intera etnia o un’intera co­munità e i bambini di quella comunità, perché alcuni di quella etnia delinquo­no. Sarebbe come condannare e depor­tare tutti gli italiani perché in Italia ci so­no i mafiosi o i corrotti o i pedofili.
Ma queste sono cose elementari. Che cosa è accaduto perché queste cose ele­mentari siano così presto dimenticate? Perché così rapidamente si diffonda la barbarie del razzismo ostentato? E per­ché nelle giovani, giovanissime genera­zioni attecchisce la violenza fine a se stessa come pura espressione di potenza del forte sul debole? C’è un collega­mento fra tutte le forme di violenza che vanno emergendo? Che cosa c’è in co­mune fra la violenza dei condomini, gli stupri di famiglia e di strada, la tratta e lo sfruttamento sessuale, e oggi le retate
delle giovani prostitute-schiave, gli in­ cendi dei campi Rom, le violenze fisiche e sessuali di branco, l’accanimento contro i soggetti più fragili e i portatori di handicap nelle scuole? Tutta questa è violenza che quasi sempre si autogiu­stifica e non conosce rimorso.
Ne avevo sentito parlare anni fa da una mia amica che lavora da anni come insegnante in un carcere minorile. Mi diceva che i giovanissimi assassini di oggi, gli «assassini per caso», quelli che uccidono per un’occhiata o per un mo­torino, non mostrano alcuna coscienza per l’enormità del crimine commesso. Oggi questo fenomeno della banalità del male si sta diffondendo. Ed è violenza vigliacca perché si accanisce sui più de­boli. È violenza che chiede consensi so­ciali dai gruppi di appartenenza e spes­so li ottiene. È a volte violenza esibita quasi fosse un diritto. Ed è quasi sempre violenza di gruppo. A volte è violenza di gruppo organizzata. Infine siamo ai pri­mi segnali di violenza di Stato. Non quella verso il singolo criminale, quella generalizzata razzista e xenofoba.
Ettore Masina ricordava che gli squa­droni della morte che ripulivano i quar­tieri di Rio de Janeiro o di San Paolo in Brasile dal fastidio della piccola crimi­nalità, facendo sparire nel nulla mi­gliaia di piccoli di strada, ebbero origine dalle polizie private messe su da asso­ciazioni di commercianti con l’incarico di «ripulire la città» e «dare una lezione» alla microcriminalità. Oggi si sente par­lare di ronde e polizie private e nessuno pare sconvolgersi. La «sicurezza» è il nuovo idolo cui si sacrifica tutto, si ac­cantonano le garanzie democratiche, si calpestano i diritti individuali, si giusti­ficano le ingiustizie e le violenze som­marie. Proprio come negli Usa del dopo 11 settembre si è data una giustificazio­ne alla tortura e ai rapimenti di Stato.
Io credo che le violenze cui assistiamo sono apparentate fra loro. Le strutture di violenza si assomigliano tutte. Indivi­dualmente hanno un’origine profonda nella scarsa autostima e nella paura di non essere accettati. Si maschera tutto questo dimostrando la propria forza, la propria fittizia onnipotenza sull’ele­mento più debole. Avviene così per la violenza contro le donne e contro i bambini. Ma è fenomeno sociale peri­coloso quando una società frammentata e incerta, collettivamente si alimenta e si contagia delle sue paure. Quasi mai questo è un fenomeno spontaneo. Più spesso ci sono i manovratori, una paura istillata ad arte insieme a linguaggio vio­lento crea un nemico fuori da noi, iden­tificabile, isolabile. Ci sentiamo sicuri quando cacciamo via il nemico, lo al­lontaniamo, lo eliminiamo. Il nemico prende i nomi che servono ai manovra­tori. Sono i terroristi. Sono gli extraco­munitari. Sono i rumeni. Sono gli zinga­ri. Sono i musulmani. Sono...
I nazisti che erano per le soluzioni de­finitive lavorarono per l’annientamento del nemico. Poterono farlo perché dif­fusero pregiudizi e menzogne, le ripete­rono all’infinito nelle adunanze di mas­sa e per radio (avevano il ministro per la propaganda), isolarono anche fisica­mente ebrei, zingari, omosessuali. La deportazione e i campi di sterminio fu­rono figli naturali di questo processo. Pochi si opposero. La massa, obbedien­te, approvò, silenziosa e complice.
È in atto un processo. Forze interes­sate a noi come «mercato», anche di consensi, docile e addomesticabile sta trasformando il popolo italiano in massa. Il popolo è formato da cittadi­ni. La massa, la «gente» va dove vuole chi la manovra. Il «crocifiggilo» del racconto evangelico dell’assassinio di Gesù serva da monito perenne. Ove questo processo dovesse affermarsi sarà dittatura anche se i simulacri di democrazia restassero in piedi.
C’è ancora margine per resistere e sperare in un’inversione di rotta. Noi credenti evangelici crediamo nella ve­rità che rende liberi. Per questo dob­biamo aborrire il pregiudizio diffuso e accollarci la fatica di un’informazione critica e plurale. Dobbiamo cercare di capire la realtà che ci circonda con le sue complessità. Non è il momento per cercare il quieto vivere. È il momento di prendere le difese dei deboli, di quelli la cui voce è soffocata dalle grida scomposte dei manovratori.
È il momento di credere nella forza creativa della nonviolenza e cercare ogni possibile alleanza per affermare il prin­cipio biblico dell’uguaglianza e i diritti di tutti e di ciascuno alla vita, al futuro.
«Non ho paura delle parole dei vio­lenti ma del silenzio degli onesti» (Mar­tin Luther King)

Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 144 - numero 22 - 30 maggio 2008. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo



Giovedì, 05 giugno 2008