Storie di razzismo
INDESIDERABILE: gridare è proibito

di Floriana Lipparini

Qualcuno ricorda la storia di Semira Adamu? Non sappiamo i nomi delle persone che il 22 settembre 1998 salirono sull’aereo della compagnia Sabena, in partenza dall’aeroporto Zaventem di Bruxelles. Non conosciamo la loro cittadinanza, né per quale motivo quel preciso giorno si trovassero su quell’aereo. Quali mete li aspettassero, quali sentimenti avessero, quali idee sulla vita, sulla morte, sui diritti, sulla giustizia, sull’umanità… Sono fantasmi, spettatori muti e inerti di un sabba infernale.

Su quel volo fu trascinata in manette Semira Adamu, un’indesiderabile, una paria dei giorni nostri, una vittima sacrificale. Non era il primo tentativo di rimandarla indietro, ma altre volte i piloti si erano rifiutati di decollare, perché le norme di sicurezza a bordo degli aerei vietano l’imbarco di passeggeri forzati e recalcitranti. Anche i viaggiatori normali avevano vivacemente protestato.

Purtroppo, quel malaugurato giorno, un pilota di cui nemmeno conosciamo il nome non si oppose, e i passeggeri forse finsero di non vedere. Il giorno successivo, 23 settembre, Semira Adamu morì alle nove di sera nella Clinica St. Luc. Era in coma già dalle undici del mattino. In un primo momento, i responsabili della clinica sostennero che la morte era dovuta a cause naturali: infarto, emorragia cerebrale. Ma la bugia durò poco.

In clinica Semira era giunta direttamente da Zaventem. Prelevata dal Centro Stranieri alle prime luci del giorno, e trasportata di peso a bordo del velivolo in partenza per Lomé, aveva inutilmente tentato di resistere. Gridava, si dibatteva con tutte le sue forze. Ma gridare è proibito, la legge sulle espulsioni non lo permette. I poliziotti afferrarono quel famigerato cuscino e in pochi attimi una morte soffice e bianca calò sulla faccia di Semira, spegnendo per sempre la voce e la vita di una ragazza di vent’anni.

25 marzo – 23 settembre: sei mesi esatti per il viaggio di Semira dalla speranza alla morte, dall’illusione all’inferno. Che cosa sappiamo di lei? Le sue foto ci mostrano un bel viso aperto, sorridente, carico di giovinezza e allegria. Dicono le sue amiche che le piaceva cantare. Orfana dei genitori, viveva in Nigeria con la nonna, che un pessimo giorno decise di darle marito. Il prescelto era un uomo di 65 anni, già coniugato con tre mogli. L’anziana donna, forse a suo tempo vittima anche lei di odiose tradizioni ancestrali, vendette letteralmente Semira. Millenarie usanze di molti paesi dell’Est e del Sud del mondo prevedono ancora oggi che le mogli vengano comprate, esattamente come un tappeto o un cammello, e che la famiglia ne riceva il prezzo.

Semira rifiuta. Non ne vuole sapere. Sente di avere diritto alla libertà. Fugge nel Togo, una, due, tre volte. Ma ogni volta il vecchio pretendente riesce a riacciuffarla e a riportarla in Nigeria. Semira allora capisce di dover spiccare un volo molto più lungo. Se vuole salvarsi deve andare lontano, dove lui non possa raggiungerla mai più. L’Europa, la patria dei diritti umani. Il Belgio, un paese moderno, dove una donna ha diritto di sposare chi vuole.

Semira è coraggiosa, e trova il modo di fuggire davvero da quella sorte da schiava, una sorte obbligata per milioni di donne ancora oggi, nel Duemila. Sbarca a Bruxelles, e finalmente si sente al sicuro. Stranamente, però, appena scesa dall’aereo, viene obbligata a seguire i gendarmi che la trasferiscono direttamente nel Centro stranieri 127bis di Steenokkerzeel. Centro stranieri? Una prigione da cui non si può uscire. Un lager nel cuore dell’Europa, anno 1998.

Ecco come Semira stessa, poco tempo prima di venire assassinata, racconta la sua drammatica vicenda nel libro Les barbelés de la honte, curato da Marco Carbocci, Nisse e Laurence Vanpaeschen, del Collectif contre les expulsions di Bruxelles, Editions Luc Pire 1998. È un testo che raccoglie le testimonianze di otto rifugiati in cerca d’asilo: «La vita al centro è molto noiosa. Siamo pochi nell’ala dove sto io, e la maggior parte non parla inglese. Ci sono persone dello Zaire, del Kosovo, dello Sri Lanka, dell’Afghanistan. Qui è veramente orribile. Ci si sveglia la mattina e si guarda la televisione fino a sera. Ho potuto avere qualche libro, me li ha portati Lise Thiry. Mi sento molto sola. La maggior parte delle persone che conoscevo le hanno trasferite in altri centri. Non so nemmeno dove siano. Suppongo che tentino di isolarci, di spezzare i contatti fra di noi. Dopo l’evasione, ho avuto tutti gli impiegati del centro addosso. Mi sorvegliano tutto il tempo, c’è sempre qualcuno dietro di me. Per una settimana, dopo il 27 luglio, non abbiamo più avuto il diritto di telefonare. Adesso si può di nuovo, ma hanno ridotto il tempo. Prima si poteva dalle 9 alle 22, ora soltanto dalle 15 alle 18 e sono proprio gli orari in cui le telefonate costano più care. In ogni caso, le regole qui cambiano continuamente: una cosa un giorno è permessa, e il giorno dopo proibita.

«Non permettono che qualcuno venga a farci visita. Ufficialmente le visite sono autorizzate, ma se qualcuno chiede il permesso, semplicemente glielo negano oppure non rispondono affatto. Lise Thiry non ha mai potuto incontrarmi. Ha dovuto consegnare i libri e gli abiti che le avevo chiesto alle guardie. Io non ho mai potuto vederla. Ogni tanto vengono membri delle Ong, ma non spesso. Qualche giorno fa è venuto uno a vedermi, ma non mi ha parlato molto. In ogni caso, qualsiasi cosa si possa dire, non ne esce mai nulla, non cambia nulla.

«Hanno tentato di espellermi quattro volte. La prima volta non mi hanno forzato. Mi hanno condotto all’aeroporto. Là, mi hanno chiesto se accettavo l’espulsione. Ho detto di no e mi hanno riportato al centro. La seconda volta è andata allo stesso modo, ma mi hanno avvertito che la volta successiva sarebbe stata più dura. La terza volta, mi hanno preparato per andare all’aeroporto ma all’ultimo minuto non siamo più partiti. Mi hanno detto che si erano dimenticati di prenotare il mio posto sul volo. Suppongo invece che avessero paura delle iniziative di sostegno che erano state organizzate per me.

«La quarta volta è stata terribile. Mi ha svegliato un’impiegata del centro dicendomi che dovevo tornare nel mio paese e che avevo venti minuti per preparare le mie cose. Non ho avuto neanche il tempo di lavarmi, nella fretta. Infine mi hanno scortata alla porta e mi hanno fatto salire sul furgone per andare all’aeroporto. All’arrivo, mi hanno legato le braccia e le gambe. Mi hanno chiuso in una cella d’isolamento in cui sono restata dalle 7 alle 10.30. Poi sono venuti a prendermi e mi hanno portato davanti all’aereo dove siamo rimasti fino alle 11.15, quando mi hanno fatto imbarcare. Una volta dentro, ho cominciato a piangere e a gridare. Otto uomini mi hanno circondato, due addetti alla sicurezza di Sabena e sei poliziotti. Le due guardie della Sabena mi hanno forzato: mi colpivano dappertutto e uno di loro mi ha premuto un cuscino sulla faccia. È quasi riuscito a soffocarmi.

«In effetti queste due guardie avrebbero dovuto scortarmi fino a Lomé. Poi, i passeggeri sono intervenuti e hanno detto che sarebbero scesi dall’aereo se non mi avessero liberato. Uno in particolare ha insistito affinché non dimenticassero di restituirmi i miei bagagli. C’è stata una bagarre nell’aereo e hanno dovuto sbarcarmi. Mentre tornavo sul furgone, ho visto che un passeggero ci seguiva. Era quello che mi aveva particolarmente difeso sull’aereo. L’hanno condotto nel furgone, vicino a me. Mi ha detto che voleva aiutarmi, che dovevo soltanto risalire in aereo e lui sarebbe andato a prendere i miei documenti e mi avrebbe pagato il biglietto per tornare qui. Ho rifiutato e gli ho risposto che non sarei andata da nessuna parte. Allora, l’hanno riportato all’aereo e io sono restata nella cella d’isolamento dell’aeroporto. «Dopo un po’ di tempo, mi hanno ricondotto al centro e mi hanno ancora messa in isolamento, mercoledì 22 luglio dalle 12 alle 16. Ero lì quando hanno portato le quattro ragazze che avevano tentato di evadere: Precious, Bonsu Aqua, Cynthia e Antila. Dovevamo restare tutte nella medesima cella, un piccolo locale con un solo letto e un wc. Quando mi hanno fatto uscire, mi hanno messo in un’altra ala del centro, perché la nostra era stata danneggiata durante l’evasione. Ora sono al primo piano. Le cose hanno ripreso il loro corso normale, a parte il rafforzamento delle misure di sicurezza, qui e all’aeroporto, dove certe persone sarebbero capaci di ammazzare.

«Non so quando verranno ancora a tentare di cacciarmi via. Non ci dicono quando verranno. Arrivano solo pochi minuti prima della partenza. Ma si capisce quando c’è un’espulsione, si capisce e ci si sente male, molto infelici. In quei momenti ci si sente veramente prigionieri. Tra noi parliamo del centro, della detenzione, delle nostre situazioni. Quando qualcuno torna dall’aeroporto dopo essere sfuggito a un’espulsione, parliamo. Si cerca di trovare una soluzione ai nostri problemi, si cerca di aiutarsi a vicenda. C’è solidarietà fra i detenuti. Quanto a pensare a ribellarsi, per il momento è impossibile.

«Le relazioni con gli addetti al centro sono più o meno corrette. Subito dopo l’evasione abbiamo avuto momenti di forte tensione, ma ora va meglio. Non parlano mai di quel che succede all’esterno, delle manifestazioni per impedire la nostra espulsione. Fanno come se non succedesse nulla, ma noi sappiamo che questo per loro costituisce un problema.

«Non so quando verranno ancora a cercarmi. La vita è molto difficile per me… Non lo so». La testimonianza si conclude con alcune righe aggiunte dagli autori: Quel martedì 22 settembre 1998, al momento di andare in stampa, Semira ha subito un nuovo tentativo di espulsione. Di nuovo ha rifiutato di essere deportata. Come lei temeva, e come abbiamo saputo, le autorità non hanno avuto riguardi. Semira è morta nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Saint-Luc (Bruxelles). Qualche mese fa, fuggendo la schiavitù, Semira scelse di chiedere asilo in Belgio. Non sapeva che questo paese applica ancora la pena di morte.

Ma torniamo un attimo indietro. Con l’aiuto del Comitato contro le espulsioni, che subito prende a cuore la sua vicenda, appena entra nel lager di Steenokkerzeel Semira capisce che per ottenere il sospirato asilo dovrà seguire una trafila obbligatoria: carte bollate, avvocati, permessi, documenti. Va bene. Lo farà. Lei è tranquilla, persuasa del suo buon diritto. Perché mai nel cuore dell’Europa non dovrebbero accettare la richiesta d’asilo di una donna costretta a fuggire dalla violenza, dagli abusi, dalle minacce alla sua libertà?

L’avvocato inoltra la richiesta del permesso di soggiorno per Semira al borgomastro di Steenokkerzeel e al ministro dell’Interno, sulla base di motivi umanitari. Ma onestamente l’avverte subito: le possibilità di un sì sono veramente scarse, se non addirittura inesistenti. Inoltre, la richiesta non sospende le procedure di espulsione. Anche prima che la pratica venga esaminata, prima che sia pronunciato un responso, le autorità belghe potranno comunque cacciarla via.

Semira non poteva immaginare che la Convenzione di Ginevra non prevede nulla in materia d’asilo politico per i maltrattamenti alle donne. Non poteva immaginare che l’Unione Europea, così ricca di parole e programmi per le pari opportunità, così feconda di dossier e documenti sui diritti delle donne e sul Congresso di Pechino, sarebbe stata cieca, sorda e inerte di fronte a una donna non europea alla disperata ricerca d’asilo. A Semira non fu concessa nemmeno la tragica trafila che tocca ogni giorno ad altre migliaia di immigrati, il drammatico peregrinare ai margini dei margini di ogni paese europeo, come rifiuti che non trovano più posto nemmeno nelle discariche. Tentare la sorte, sperare nella fortuna: un “lavoro” da lavavetri, qualche giornata da muratore, un’impresa di pulizia. O la discesa negli inferni della prostituzione, dello smercio di droghe. Questi sono i miracoli cui oggi è legato il diritto alla vita per milioni di persone.

Per Semira è stato diverso. Sono soltanto due i luoghi dell’Europa che ha conosciuto lei: il Centro Stranieri di Steenokkerzeel e l’aeroporto di Bruxelles. Come una cosa senz’anima e senza diritti, Semira venne sballottata sei o sette volte avanti e indietro tra quei due luoghi opposti e speculari.

L’aeroporto: luogo di viaggi, di libertà. Ma non per Semira: per lei è solo il miraggio della libertà e l’anticamera della morte. Il Centro Stranieri: luogo-prigione di non-europei poveri, gli altri, gli appestati, i nemici. Il cuore buio dell’Europa Unita, l’inferno dove bruciano le false coscienze dei suoi capi, dei suoi politici, dei suoi funzionari, dei suoi mille esperti.

Ogni volta che provava a cacciare via Semira la gendarmerie trovava il Comitato schierato all’aeroporto, ai cancelli dei voli per Lomé. Lo stesso accadeva anche per gli altri immigrati che la polizia cercava continuamente di rimandare indietro. Il clima si surriscaldava ogni giorno di più. A Steenokkerzeel esplosero scontri, vetri rotti, proteste. Alcuni ospiti – o meglio detenuti – riuscirono a fuggire. In risposta, i gendarmi picchiarono forte anche donne e bambini.

Il Centro fu totalmente isolato. Gli attivisti del Comitato non riuscirono più a comunicare con Semira. Lei tentò invano di avvertirli per telefono. Quel 22 settembre la polizia andò a prenderla all’alba.

Nessuno riuscì a raggiungere l’aeroporto in tempo per bloccare l’aereo. Al funerale, il 26 settembre, nella cattedrale Saint-Michel, partecipò una marea di persone sconvolte. Belgi e immigrati insieme spargevano fiori sulla bara. L’armonica e l’organo s’intrecciavano agli echi delle percussioni africane. Le prime tre file di sedie furono lasciate vuote, per ricordare compagne e compagni di detenzione di Semira, forzatamente assenti. Dopo quella disperata fuga erano stati riacciuffati dalla polizia, e incarcerati sotto pesanti accuse.

«Mai più deportazioni forzate a bordo degli aerei Sabena!»: così i cittadini belgi presenti alla cerimonia funebre tentarono di onorare la memoria di Semira. Molti si chiedevano in quale paese tocca loro di vivere. Ma è un normale paese della normale Europa di Maastricht e di Schengen, costruita sull’ideologia del rifiuto dell’Altro, l’extracomunitario, il non-europeo povero, perché gli stranieri ricchi, famosi e potenti trovano sempre le porte aperte.

Prima che la vicenda di Semira giungesse al suo tragico epilogo, il Collettivo contro le espulsioni aveva già denunciato il clima razzista che ispirava la politica belga sull’immigrazione (non diversa da quella degli altri paesi europei): Le persone incarcerate dentro i centri chiusi non hanno commesso alcun delitto, se non quello di voler fuggire dalla persecuzione e dalla miseria. Tuttavia vengono imprigionati dentro autentici campi di concentramento per periodi che possono giungere fino a otto mesi, in condizioni che si crederebbero appartenere al passato. La politica del governo belga è un’autentica politica di deportazione (d’altronde, questo è il termine ufficiale). Ogni richiedente asilo è considerato come un potenziale truffatore; le richieste d’asilo vengono trattate in modo arbitrario e iniquo da un’amministrazione al servizio della politica del Ministero. L’obiettivo annunciato dal ministro Tobback di 15mila espulsioni l’anno non fa che aggravare tale fenomeno.Voler evadere dall’orrore costituito da questi campi è del tutto legittimo, tanto più quando allo scadere della detenzione si trova soltanto il ritorno alla persecuzione o alla miseria.

Al funerale di Semira, il Collettivo raccolse molte lucide e amare testimonianze di immigrati, soprattutto donne. Come quella di Nicole, una ragazza congolese che ha studiato in Belgio ma non nutre molte speranze nel futuro. «Io non accuso solamente la politica», dichiara. «Tutto il mondo è responsabile della morte di Semira. A parte le associazioni antirazziste, tutti preferiscono che i rifugiati vengano espulsi. È a livello internazionale che occorre cambiare l’ordine ingiusto delle cose. Ma non interessa a nessuno. Se l’Africa si risolleva, l’Europa a chi venderà le proprie armi e i prodotti che non le servono più?».

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Ringrazio infinitamente Floriana Lipparini che ha inviato in rete la vicenda accaduta dieci anni fà in Belgio. E’ un estratto dal racconto della vicenda di Semira Adamu, tratto dal suo libro " Per altre vie- Donne fra guerre e nazionalismi": non solo per ricordare e sapere.

Doriana Goracci



Martedì, 03 giugno 2008