Anche noi abbiamo cercato accoglienza in terra straniera
Rumeno, fratello mio

di Francesca Mele Tripepi

Cara sorella, caro fratello,
a voi, che siete venuti dalla Romania a cercare nel lavoro quella tranquillità che il vostro paese, appena uscito da un duro regime dittatoriale, non poteva assicurarvi, voglio esprimere la mia solidarietà in questo momento difficile, mentre vi sentite circondati da intolleranza e incomprensione, e cresce in voi la paura dell’odio razzista che minaccia di travolgere tutte le vostre speranze.
Mi sento vicina a voi perché appartengo a quella parte dell’Italia che ha conosciuto la dura necessità dell’emigrazione e ho un’età che mi consente di tornare con la memoria al racconto di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza di dover lasciare la terra natia, con i suoi colori, i suoi profumi e i suoi sapori, la famiglia, gli amici, le abitudini, le usanze, i riti.
Mi sento vicina a voi perché sono stata recentemente in Romania e ho avuto modo d’incontrare la gente del luogo e di scoprirne le ricchezze culturali e spirituali: non è stato il solito viaggio turistico organizzato da una delle solite agenzie, ma un viaggio ecumenico, in occasione della Terza Assemblea Ecumenica Europea che si è svolta, dal 4 al 9 settembre a Sibiu, quest’anno capitale culturale d’Europa.
Eravamo una quarantina, tra cattolici, ortodossi e protestanti di varie denominazioni, per la maggior parte svizzeri, del Canton Ticino, perché il viaggio era stato organizzato a Lugano, ma con parecchi italiani ormai integrati nel contesto sociale svizzero.
Un viaggio ecumenico, non solo per la finalità di assistere, sia pure parzialmente, all’Assemblea di Sibiu, ma anche e soprattutto per lo spirito che animava il gruppo dei partecipanti: dimenticate le differenze confessionali che ostacolano il cammino della riconciliazione tra i cristiani, ci univa ogni giorno la preghiera animata da Padre Mihai, parroco della chiesa ortodossa rumena, da don Maurizio, parroco cattolico e da tre pastori protestanti, Giuseppe di origine siciliana, Davide proveniente dal Lazio e Luigi italo-americano.
Ancora di più la comunione fraterna si consolidava tra noi lungo il percorso, via via che le visite ai monasteri, alle parrocchie, ai musei delle icone ci facevano scoprire la spiritualità ortodossa e,
mentre ci rivelavano l’anima della Romania, sentivamo crescere la vicinanza a quella popolazione appena uscita da un’oppressione disumanizzante che aveva fatto di tutto per cancellarne le radici culturali e religiose.
Ma quel folle progetto non è riuscito: noi abbiamo visto un popolo impegnato a riappropriarsi della propria identità culturale, che ama la propria terra e le proprie tradizioni: è stato bello vedere esposti, nel piccolo museo accanto a una parrocchia, gli oggetti della civiltà contadina precedenti l’era dittatoriale e le vecchie icone nascoste e gelosamente conservate nel periodo in cui era vietato praticare una religione.
La volontà di riannodare i lembi strappati della storia era sottolineata continuamente dalla frase ripetuta davanti ai castelli, alle chiese ai monasteri: "il restauro è iniziato dopo il 1989".
Abbiamo visto un popolo laborioso, animato dalla fiducia di essere all’altezza del suo passato, che vuole dimostrare di poter stare con dignità al fianco degli altri popoli europei: non sono ancora scomparse le vecchie costruzioni dai muri cadenti e con i tetti di eternit ma dovunque si fanno notare i tetti rossi delle nuove case. E penso che molte di quelle case siano state costruite con i soldi faticosamente guadagnati da chi ha cercato lavoro all’estero: la maggior parte degli emigranti, oggi come ieri, sogna di poter costruire una casa per poter ritornare nella propria terra.
E’ bella la Romania: ho ancora negli occhi il verde dei pascoli della Moldavia cosi simili a quelli della mia Sardegna e i boschi della Transilvania che mi ricordavano la Calabria. Ma c’è ancora molta povertà: la terra, fertile e ricca di acqua, è abbandonata perché durante il regime di Ceausesku i giovani sono stati costretti a lasciare la campagna e i villaggi per realizzare i piani d’industrializzazione che dovevano dare lustro al dittatore.
E ancora sono molti quelli che devono lasciare la Romania per cercare lavoro altrove, ma gli anziani rimangono legati alla terra e accanto alle case e attorno ai monasteri si allarga sempre più il terreno coltivato.
Sì, credo proprio che, come in Occidente dopo le invasioni barbariche è stato decisivo il ruolo esercitato dalle abbazie benedettine nella ripresa del lavoro agricolo e artigianale, così oggi nei paesi orientali il monachesimo ortodosso abbia un ruolo importante nella ricostruzione del tessuto sociale dei paesi la cui cultura è stata devastata da una nuova barbarie;
e credo che non solo tutti gli stati che hanno approvato l’entrata della Romania nell’Unione Europea ma tutte le chiese cristiane debbano sostenere questo impegno: non è tanto importante rivendicare l’affermazione delle comuni radici cristiane nei documenti ufficiali quanto dimostrare con la solidarietà operosa, segno visibile dell’amore tra i fratelli insegnato da Cristo, che c’è un comune patrimonio di fede che crea il vincolo che unisce i popoli d’Europa.
E’ questo il nuovo campo d’azione per il movimento ecumenico.
Dalla prima Assemblea Ecumenica di Basilea del 1989, con l’impegno a operare per "La Pace nella Giustizia", alla seconda Assemblea del 1997, col richiamo alla "Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova", alla terza Assemblea di quest’anno a Sibiu, con la volontà espressa di essere testimoni che "La Luce di Cristo illumina tutti", è indicato il cammino ai cristiani europei; e da Sibiu, viene, in particolare, questa "raccomandazione":
Raccomandiamo che le nostre chiese riconoscano che gl’immigrati cristiani non sono semplici destinatari di cura religiosa ma che possono svolgere un ruolo completo e attivo nella vita della Chiesa e della società; che offrano una migliore cura pastorale per i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati; che promuovano i diritti delle minoranze etniche in Europa, in particolare del popolo Rom.
Non possiamo dirci cristiani se non facciamo nostro questo impegno: voi, immigrati di oggi, noi emigrati di ieri, dobbiamo unire le nostre forze per sconfiggere le paure che ci fanno sentire soli e circondati da nemici; se impareremo a conoscerci cadranno le diffidenze e potremo vivere da fratelli, curando gli uni le ferite degli altri e portando gli uni i pesi degli altri.
A te sorella, a te fratello l’abbraccio di pace


Francesca Mele Tripepi
lilliput- sae



Martedì, 06 novembre 2007