«FARE PULIZIA»

di Giulio Vittorangeli

[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per questo intervento. "]


A Roma ennesimo episodio di razzismo, con assalto ai negozi di bengalesi e cingalesi. Triste conferma della diffusione della xenofobia e della fobia della sicurezza, che diventano leggi dello Stato italiano.

Il nuovo "pacchetto sicurezza" del ministro Maroni, all’insegna della "tolleranza zero", serve solo a criminalizzare i migranti; con l’introduzione del reato di immigrazione clandestina ed il corollario della detenzione amministrativa per 18 mesi.

La migrazione e’ la condizione tragica di chi decide di diventare protagonista del proprio destino e sceglie la fuga dalla miseria, dalla guerra o dall’oppressione. Questo voler fuggire dalla condizioni reali di dannati della terra, oggi in Italia e’ considerato nient’altro che crimine. In nome delle emergenze (molte volte gonfiate) si chiede di "fare pulizia": dei rifiuti, dei rom, degli immigrati, e si arriva a mettere in pericolo i diritti fondamentali, le liberta’ personali, la possibilita’ di dissentire dalle misure che il potere prende e impone.

Ogni pensiero di opposizione viene tacciato di "estremismo" ed inevitabilmente quello che ci aspetta e’ la repressione ed il carcere per chi deve migrare, per chi vuol difendere la salute minacciata dalle discariche, dal ritorno del pericolo nucleare, dalla militarizzazione del territorio ed altro ancora.

Quando si finisce per fare riferimento allo stato autoritario, contrapponendosi a quello delle garanzie formali e sostanziali, e’ inutile nascondersi dietro le parole: il modello principe, non fosse altro che per la sua terrificante coerenza, e’ quello nazista.

La tragedia, tutta italiana, e’ in un governo che attenta alla solidarieta’ umana, alla fratellanza, allo stato di diritto, e in una "opposizione" che ne lamenta la scarsa efficienza.

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Ma c’e’ un punto su cui tutti sono costretti a convenire: e’ che degli immigrati abbiamo bisogno. Solo che (parafrasando un famoso detto), avevamo bisogno di braccia e sono arrivate persone.

Le braccia le richiedono le nostre imprese, la tanto osannata "cultura d’impresa", quella elevata a pilastro nazionale dalla nuova leader degli industriali italiani. Se prendiamo seriamente in considerazione i "valori" del mercato e dell’impresa, alloro dobbiamo interrogarci sulle nostre imprese che investono all’estero per sfruttare la manodopera a basso costo. Prendiamo, come parametro, gli imprenditori italiani che hanno delocalizzato la produzione in Romania, quei romeni che da noi sono considerati "abitualmente criminali". "Capannoni geometrici montati in mezzo alla pianura, monumenti in lamiera innalzati a santificare la furbizia, l’orgoglio italiano di chi delle leggi del proprio paese se ne fotte, e lo urla a tutti piantando una bandiera tricolore fuori dal cubo di metallo. Che sia chiaro a tutti (...) che e’ li’ che i furbi stanno di casa, e che quei furbi hanno l’inno di Mameli sempre in testa. Parlavo con gli imprenditori, ma molto tempo lo passavo con gli operai romeni, e tutte le volte che gli trovavo in bocca le stesse espressioni boriose dei loro padroni italiani, tutte le volte che li vedevo alludere al proprio popolo come a un popolo di bonari trogloditi, in una sorta di perverso accanimento frutto di colonizzazione e di un dominio culturale ormai avvenuti, tutte le volte che questo succedeva avevo voglia di scappare a gambe levate da quel posto. In quei giorni mi sembrava che quell’Italia che vedevo li’ attaccata, quell’Italia di lamiera che stava colonizzando il volto della Romania coi suoi valori abborracciati, con la logica facilona dell’abuso edilizio, dalla corruzione morale, del furbismo, con l’ostentazione fallica di macchine, telefonini e altre simili patacche, fosse gia’ l’Italia di oggi" (Andrea Bajani, "Italia e Romania, e i famosi anni del boom economico" ne "Lo straniero", n. 95, maggio 2008).

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Stare su questa terra ferita e di continuo offesa ha un senso se c’e’ qualcuno che non smette di cercare i segni di un rapporto diverso, di lottare per la giustizia e la liberta’. Quella che vogliamo costruire, per la quale esistiamo. Una liberta’ liberante (l’espressione e’ di Tommaso Di Francesco), inclusiva, che riconosce l’irripetibilita’ dell’altro nella sua capacita’ di costruirsi come soggetto che spera, lotta, cambia il mondo; una liberta’ che integra e parla agli individui, ai deboli, ai loro bisogni, nella dolorosa consapevolezza d’essere sfruttati ed emarginati dai feroci processi di globalizzazione. Una liberta’ che si costruisce anche con la solidarieta’ internazionale "tenerezza dei popoli".

Tratto da
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proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
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Numero 468 del 27 maggio 2008



Marted́, 27 maggio 2008