Intervista a un immigrato ospite del Centro di prima accoglienza di Gradisca d’Isonzo
«Ho attraversato il deserto a piedi»

di MARIO COLAIANNI

Ehizenies Simon Pedro è uno dei tanti ospiti del Centro di prima accoglienza di Gradisca d’Isonzo (Go). È giunto a Lampedusa il 24 febbraio su una barca insieme ad altre 35 persone


EHIZENIES Simon Pedro è uno dei tanti ospiti del Centro di Prima Accoglienza di Gradisca d’Isonzo (Go); la sua storia è un racconto che potrebbe far capire a molte persone il motivo per cui un essere umano abbandoni la propria terra d’origine per cercare la possibilità di ave­re una vita migliore.
- Simon, dimmi come mai frequenti la chiesa metodista a Gorizia e raccontami qual­cosa di te e della tua famiglia
«Frequento la vostra chie­sa dal giorno di Pasqua quando un pullmann ci ha aspettato fuori dal Centro di Prima Accoglienza per por­tarci al culto. Vi era stato un passa parola tra gli ospiti dell’Etiopia e del Ghana del centro e inoltre avevo letto l’avviso esposto dalla dire­zione nella bacheca. Sono cattolico ma mi sono sentito bene accolto da te, dalla chiesa e quindi mi sento di chiedere a voi l’accoglienza che ho cercato qua in Italia. Sono nato il 25 ottobre 1982 in Nigeria e vivevo nella città di Abraka nel Delta State con la mia famiglia: papà, mam­ma e un fratello e due sorelle minori. Io ero il maggiore»
- Come mai hai lasciato la Nigeria?
«Mio padre era ingegnere e lavorava nel Delta State e ha ricevuto pressioni da al­cune persone perché entras­se a far parte di un partito e hanno minacciato di morte
sia lui sia la mia famiglia. Non so di che partito queste persone facessero parte»
- Che cosa è successo allora?
«A casa mia si cenava ver­so le sette di solito, così una sera dopo le otto delle per­sone sono entrate dentro ar­mate di coltelli e armi da fuoco. Io ero nella camera di sopra a giocare con mia so­rella minore. Queste perso­ne erano in soggiorno e ho sentito delle voci, poi degli spari e mio padre che mi ur­la “Scappa!”. Sono scappato con mia sorella. Sono anda­to alla sera a Benin, con un camion, mentre mia sorella era stanca e l’ho lasciata sul­la strada perché aveva degli amici a cui chiedere aiuto»
- Perché non sei rimasto con lei?
«Avevo paura e adesso non so più niente di lei»
A questo punto Simon ha gli occhi lucidi, non posso credere che finga o si sia in­ventato questa storia per vi­vere in Italia, il suo sguardo non lo potrò mai dimentica­re. Lo rincuoro, lui capisce e mi fa vedere fotocopie di arti­coli dei giornali nigeriani in cui si parla di questo fatto.
- Che cosa hai fatto dopo?
«Sono rimasto a Benin un mese, vivendo in una casa abbandonata e facendo qual­che lavoretto per vivere. Poi ho telefonato a un amico di mio padre, che è una persona influente nel partito… e lui è un portavoce. Ma una notte ho ricevuto una telefonata in cui una voce sconosciuta mi diceva che non potevo pensa­re di scappare. Poi ho disabi­litato il telefonino. Un prete mi ha aiutato dandomi un in­dirizzo a cui andare nello Ka-nu State. Ma sono stato assa­lito dai banditi che mi hanno rubato tutto e anche l’indiriz­zo dove andare. Ho mendica­to per due settimane finché un altro parroco non mi ha aiutato ad andare ad Agadez»
- Non avete avuto a casa delle avvisaglie di quello che poteva capitare?
«Circa due mesi prima mio padre sapeva che dove­vano rapire alcuni stranieri e ne parlava con mia madre. Mio padre lavorava indiret­tamente per la compagnia... dato che costruiva case co­me ingegnere edile»
- Come sei arrivato in Ita­lia?
«Sono arrivato il 24 feb­braio su una barca insieme ad altre 35 persone a Lampe­dusa. Ho dovuto anche attra­versare il deserto a piedi per molto tempo prima di imbar­carmi. Il 26 febbraio sono ar­rivato a Gradisca d’Isonzo»
- Come è la vita all’inter­no di un centro di prima ac­coglienza?
«Non è buona, io ho avuto problemi alle ginocchia per­ché ero nel deserto e mi hanno detto che non era ne­cessario curarmi. Dentro il cibo è sempre lo stesso e un addetto mi ha anche detto di tornarmene a casa mia se non gradivo il cibo»
- Non hanno delle attività per voi, dato che potete uscire dalle otto del mattino alle otto di sera?
«Ho fatto un po’ di italiano in un corso interno al centro, ma non so parlare italiano»
- Adesso non ti hanno ri­conosciuto la richiesta di asilo, cosa farai e dove vivi?
«Ho chiesto a quattro avvo­cati un ricorso, ma tutti mi hanno chiesto soldi che non ho perché non ho un lavoro e non posso lavorare con le carte che ho adesso in mano. Il 6 giugno ho il ricorso a Trieste. Dormo alla Caritas ma devo uscire alle otto del mattino e tornare alle otto di sera. Mangio il pranzo nella chiesa dei frati cappuccini e non ceno. Ho bisogno di la­vorare, sono disposto a fare dei lavoretti per guadagnare qualcosa ma è molto difficile»
Simon sa che la sua storia potrebbe essere la storia di qualsiasi altro immigrato che proviene da un paese che non garantisce un futuro ai suoi abitanti. Simon è convinto che raccontare la propria sto­ria personale possa servire a far capire la situazione diffici­le di vita di molte persone co­me lui. Per questo ha accetta­to di parlare di sé, di rivivere quei tristi momenti che lo hanno portato in Italia alla ri­cerca di una vita migliore, di un diritto che tutti hanno e che spesso viene negato.

Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 144 - numero 24 - 13 giugno 2008. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo



Mercoledì, 11 giugno 2008