«SONO un uomo di governo, e come tale devo badare ai fatti, e a soluzioni concrete ed efficaci. Dobbiamo tenere fede alle promesse fatte ai nostri elettori e risolvere i problemi che ci hanno chiesto di risolvere. Il sistema delle espulsioni ha fallito, per cui abbiamo trovato altre soluzioni. Se i nostri provvedimenti sono contrari alla Costituzione, solo la Corte Costituzionale, giudice delle leggi, potrà intervenire.» Così si è presentato il nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano ai magistrati riuniti a Roma nel congresso della loro Associazione nazionale, e che il giorno prima avevano duramente criticato i provvedimenti adottati dal Governo soprattutto riguardo alla lotta agli stranieri irregolari con la previsione del reato di immigrazione clandestina, e allemergenza rifiuti a Napoli con la previsione di una competenza particolare della magistratura specializzata nella malavita organizzata. Il piglio deciso, autoritario, la prosa coerente e non tendente a compromessi, ha fatto subito ricredere chi riteneva che il giovane ministro siciliano fosse un semplice strumento del presidente del Consiglio per controllare direttamente la magistratura, e ha fatto sperare che almeno utilizzi questo suo modo di fare per affrontare i problemi della giustizia, come pure ha promesso, superando il contrasto fra governo e magistratura in un comune superiore impegno per dare credibilità al servizio giustizia finora schiacciato fra un governo tendente a delegittimarlo e un paese che non ha alcuna fiducia nella magistratura e, quindi, nello Stato. Staremo a vedere. Mentre ascoltavo il Ministro pensavo alla Chiesa a cui appartengo e mi chiedevo se ha fatto e fa il suo dovere al di là delle lamentele di rito contro il razzismo da una parte e la malavita dallaltra. Oggi come non mai una coerente chiesa evangelica ha più di ogni altro qualcosa da fare, oltre che da dire. Unautentica lotta per la legalità non può disgiungersi dallimpegno sociale. La socialità produce legalità; stare nel mezzo delle situazioni con un sociale che non può essere soltanto residuale o strumentale per logiche solo di contenimento o espulsive. È oggi determinante distinguere sicurezza e legalità: londata emotiva a favore della sicurezza, che ha dato luogo a quellampio consenso politico di cui si fa forte il Ministro, non è affatto accompagnata da unanaloga ondata emotiva a favore della legalità. Vi è una scarsissima affezione per le regole: questa frattura tra legalità e sicurezza è estremamente pericolosa. Una società dove prospera il bisogno di sicurezza, slegato dallesigenza della legalità, si espone inevitabilmente al rischio di derive anche autoritarie o di stampo populista. La frattura esistente vorrebbe imporre un sociale buonista, assistenzialistico, compassionevole, che lasci spazio a una gestione dellordine pubblico tutto di ridimensionamento del valore della coesione e responsabilità sociale. La politica deve avere un ruolo diverso da quello di essere accompagnatore delle emozioni, qualche volta accondiscendente, ma deve governare, anticipare le situazioni. Questo vale anche per il tema degli stranieri, dove spesso si sviluppa una riduzione che riporta alla questione della sicurezza, con questo ragionamento: chi entra in Italia senza titolo di soggiorno è in una situazione di illegalità, ogni illegalità è una minaccia per la sicurezza dei cittadini; quindi la questione degli stranieri è una questione di sicurezza. Non è così semplice, e la politica non può non affrontare la complessità. Noi vediamo, a esempio, quante persone straniere vivono in una irregolarità quasi indispensabile per essere accolti; ma soprattutto la società civile, il sociale deve produrre legalità, responsabilità. Avere ridotto il sociale a emergenza umanitaria, non sostenerlo come luogo e ambito dove si devono creare anche le premesse per i processi di inclusione sociale, collaborare a rompere le diffidenze e promuovere cultura effettiva di legalità, non aver fatto questo è un grave limite. Non possiamo pensare a una politica che si consegna solo allordine pubblico. Ma per fare questo si chiede di abbassare i toni dellideologia, dei proclami, operare silenziosamente, impostare e dare valore alle scelte formative ed educative. Sono sempre più convinto che la socialità, la rottura dellindifferenza, il far crescere la passione per la responsabilità sociale e anelito di giustizia, sono scelte importanti; chiedono uno stare nel mezzo della realtà, del contesto sociale, assumerne anche le contraddizioni, ma non rendere residuale o semplicemente assistenzialisti-ca questa domanda di relazione. È possibile dunque individuare e praticare risposte di inclusione sociale, prevenire e contrastare forme di devianza più o meno esplicite, proprio creando un clima di fiducia non generica o retorica, ma realmente conquistata e resa possibile, creando ovunque un contesto positivo di ospitalità, di accoglienza, di legalità e sicurezza. Si dice che debbono avere casa e lavoro, gli immigrati, che vanno superati campi e favelas. Siamo daccordo e certamente lo vediamo doveroso e urgente. Ma chi è disposto, chiediamocelo, a concedere credito a questa domanda, dare anche nel mercato abitativo, una abitazione? Si proclama dunque un percorso e si creano le condizioni perché questo percorso non venga reso possibile o sia comunque difficilissimo. Ecco perché dobbiamo riconoscere che il linguaggio duro, la spinta a generalizzare il rifiuto non favorisce il dialogo, che è decisivo per dare vita a percorsi positivi. La sfida è questa, proprio quando si rafforza un impianto legislativo, che si vuole forte, di vivere contestualmente una fiducia nel sociale, non solo residuale o visto solo come controllo funzionale soltanto a rafforzare la spinta espulsiva. Come è possibile se il respiro generalizzato è di rifiuto, se i linguaggi diventano carichi di logiche solo espulsive? Non basta il criterio della forza, della repressione. Non basta la legge, la magistratura ingolfata, un penale che non è più minimo, un carcere che diventa listituzione finale che contiene. Lo sappiamo che i flussi evidenziano una presenza che chiede di interrogarsi insieme, non renderlo solo un problema di ordine pubblico, favorire cittadinanza amministrativa, patti internazionali forti e significativi, dare credito al fatto che il sociale non solo è protezione civile, ma può essere la sfida vera perché lintervento di prevenzione e repressione della criminalità si possa avviare e diventi possibile. Non abbiamo bisogno di un sociale buonista, che lasci spazio a una gestione dellordine pubblico senza lassunzione di respon- sabilità politiche sul piano delle regole sociali. Non si può affermare e far crescere come unonda difficile da governare lidea che il vero e unico problema sia il clandestino, genericamente chiamato senza avvertirne la complessità. In un Paese dove la giustizia penale ha dato così modesta prova di efficienza, assistiamo quasi a una misteriosa riuscita di orientare il bisogno di sicurezza prevalentemente sulla giustizia penale, per di più intesa nella sua accezione più ristretta: a ogni emergenza si risponde con un aumento della pena e con unintroduzione di nuovi reati. E così, mentre tutti riconoscono che il problema è sempre quello irrisolto, di processi rapidi e di pene certe, si finisce in un groviglio inestricabile dove il rapporto tra il valore collettivo e misura della punizione perde qualsiasi ragionevolezza. Insomma, la domanda di sicurezza richiede tempi lunghi, ma anche un forte lavoro di convincimento educativo, fatto di legami sociali, di rottura dellindifferenza, di respiro di vita, di dignità e cura delle vittime. Anzi, proprio partendo dalle vittime, dalla loro domanda di risarcimento e di giustizia si richiede un sistema sociale carico di legami, di responsabilità, una cultura che parli ancora di fiducia, di ospitalità, una visione della pena non solo finalizzata al carcere. Penso che questo tempo sottolinei lesigenza di una solidarietà competente e alleata davvero con la magistratura, perché insieme siamo tutti cultori e diffusori di legalità e giustizia: ma non si può far insinuare una mentalità che chiama reati una condizione di vita, di appartenenza etnica. Si discuta, si scelga. Consegnamo lurgenza di non abbandonare la fiducia nel sociale, nella logica solidale e pacifica. Non è ingenuità ma è coraggiosa assunzione di responsabilità. È fiducia ancora una volta che sradicare la cultura del nemico, bonificare i giacimenti di odio e rancori generali, non renderli luoghi usati per consenso e strategie politiche sia possibile in un Paese dove si può ancora proclamare una carità colma di giustizia e dove vi è una magistratura che va messa in condizione di condannare chi commette reati e di operare. Ma quel clima collaborativo che viene richiesto chiede di riportarsi al pragmatico, che misura le norme sullefficacia e la praticabilità e dà credito alle istituzioni che si assumono responsabilità e che non possono che far crescere cultura di pace e di giustizia. Ma allora bisogna comprendere che educarsi alla legalità significa anche non assecondare facilmente lequazione «regolare = legale», perché molte delle azioni criminose sono organizzate e messe in atto da persone italiane o straniere con permesso di soggiorno e molte delle azioni «delittuose» prosperano in un clima di valori e di coscienza civile debole, fragile e connivente rispetto a fenomeni diffusi (droga, prostituzione, usura, violenza, ecc). E allora se questa è una fase politica e culturale che deve ritrovare punti comuni, smettiamola di impegnarci solo nel lottare a parole contro i nostri avversari politici e religiosi, e mettiamoci al lavoro per prevenire linsorgere delle situazioni che hanno portato ai rimedi attuali. Prevenire significa educarsi e render solo residuale ed eccezionale il ricorso al penale e soprattutto riuscire a far sì che il carcere non diventi una cloaca, dove scaricare le persone pensando di liberarcene per sempre.
Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 144 - numero 26 - 27 giugno 2008. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo
Giovedì, 26 giugno 2008
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