Tra aspirazioni alla sicurezza, aspetti sociali e carenze croniche della giustizia
Il problema immigrazione al di là delle semplificazioni

di GIULIO MAISANO

«SONO un uomo di governo, e come tale devo badare ai fatti, e a soluzioni concrete ed efficaci. Dobbia­mo tenere fede alle promesse fatte ai nostri elettori e risolvere i problemi che ci hanno chiesto di risolvere. Il sistema delle espulsioni ha fallito, per cui abbia­mo trovato altre soluzioni. Se i nostri provvedimenti sono contrari alla Costi­tuzione, solo la Corte Costituzionale, giudice delle leggi, potrà intervenire.» Così si è presentato il nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano ai magi­strati riuniti a Roma nel congresso della loro Associazione nazionale, e che il giorno prima avevano duramente criti­cato i provvedimenti adottati dal Go­verno soprattutto riguardo alla lotta agli stranieri irregolari con la previsione del reato di immigrazione clandestina, e all’emergenza rifiuti a Napoli con la previsione di una competenza partico­lare della magistratura specializzata nella malavita organizzata. Il piglio de­ciso, autoritario, la prosa coerente e non tendente a compromessi, ha fatto subito ricredere chi riteneva che il gio­vane ministro siciliano fosse un sempli­ce strumento del presidente del Consi­glio per controllare direttamente la ma­gistratura, e ha fatto sperare che alme­no utilizzi questo suo modo di fare per affrontare i problemi della giustizia, co­me pure ha promesso, superando il contrasto fra governo e magistratura in un comune superiore impegno per dare credibilità al servizio giustizia finora schiacciato fra un governo tendente a delegittimarlo e un paese che non ha al­cuna fiducia nella magistratura e, quin­di, nello Stato. Staremo a vedere.
Mentre ascoltavo il Ministro pensavo alla Chiesa a cui appartengo e mi chie­devo se ha fatto e fa il suo dovere al di là delle lamentele di rito contro il razzi­smo da una parte e la malavita dall’al­tra. Oggi come non mai una coerente chiesa evangelica ha più di ogni altro qualcosa da fare, oltre che da dire. Un’autentica lotta per la legalità non può disgiungersi dall’impegno sociale. La socialità produce legalità; stare nel mezzo delle situazioni con un sociale che non può essere soltanto residuale o strumentale per logiche solo di conte­nimento o espulsive. È oggi determi­nante distinguere sicurezza e legalità: l’ondata emotiva a favore della sicurez­za, che ha dato luogo a quell’ampio consenso politico di cui si fa forte il Mi­nistro, non è affatto accompagnata da un’analoga ondata emotiva a favore della legalità. Vi è una scarsissima affe­zione per le regole: questa frattura tra legalità e sicurezza è estremamente pe­ricolosa. Una società dove prospera il bisogno di sicurezza, slegato dall’esi­genza della legalità, si espone inevita­bilmente al rischio di derive anche au­toritarie o di stampo populista. La frat­tura esistente vorrebbe imporre un so­ciale buonista, assistenzialistico, com­passionevole, che lasci spazio a una ge­stione dell’ordine pubblico tutto di ri­dimensionamento del valore della coe­sione e responsabilità sociale.
La politica deve avere un ruolo diver­so da quello di essere accompagnatore delle emozioni, qualche volta accondi­scendente, ma deve governare, antici­pare le situazioni. Questo vale anche per il tema degli stranieri, dove spesso si sviluppa una riduzione che riporta alla questione della sicurezza, con que­sto ragionamento: chi entra in Italia
senza titolo di soggiorno è in una situa­zione di illegalità, ogni illegalità è una minaccia per la sicurezza dei cittadini; quindi la questione degli stranieri è una questione di sicurezza. Non è così semplice, e la politica non può non af­frontare la complessità. Noi vediamo, a esempio, quante persone straniere vi­vono in una irregolarità quasi indi­spensabile per essere accolti; ma so­prattutto la società civile, il sociale deve produrre legalità, responsabilità.
Avere ridotto il sociale a emergenza umanitaria, non sostenerlo come luogo e ambito dove si devono creare anche le premesse per i processi di inclusione sociale, collaborare a rompere le diffi­denze e promuovere cultura effettiva di legalità, non aver fatto questo è un gra­ve limite. Non possiamo pensare a una politica che si consegna solo all’ordine pubblico. Ma per fare questo si chiede di abbassare i toni dell’ideologia, dei proclami, operare silenziosamente, im­postare e dare valore alle scelte formati­ve ed educative. Sono sempre più con­vinto che la socialità, la rottura dell’in­differenza, il far crescere la passione per la responsabilità sociale e anelito di giu­stizia, sono scelte importanti; chiedono uno stare nel mezzo della realtà, del contesto sociale, assumerne anche le contraddizioni, ma non rendere resi­duale o semplicemente assistenzialisti-ca questa domanda di relazione.
È possibile dunque individuare e praticare risposte di inclusione sociale, prevenire e contrastare forme di de­vianza più o meno esplicite, proprio creando un clima di fiducia non generi­ca o retorica, ma realmente conquistata e resa possibile, creando ovunque un contesto positivo di ospitalità, di acco­glienza, di legalità e sicurezza. Si dice che debbono avere casa e lavoro, gli im­migrati, che vanno superati campi e fa­velas. Siamo d’accordo e certamente lo vediamo doveroso e urgente. Ma chi è disposto, chiediamocelo, a concedere credito a questa domanda, dare anche nel mercato abitativo, una abitazione?
Si proclama dunque un percorso e si creano le condizioni perché questo percorso non venga reso possibile o sia comunque difficilissimo. Ecco perché dobbiamo riconoscere che il linguaggio duro, la spinta a generalizzare il rifiuto non favorisce il dialogo, che è decisivo per dare vita a percorsi positivi. La sfida è questa, proprio quando si rafforza un impianto legislativo, che si vuole forte, di vivere contestualmente una fiducia nel sociale, non solo residuale o visto solo come controllo funzionale soltan­to a rafforzare la spinta espulsiva. Co­me è possibile se il respiro generalizza­to è di rifiuto, se i linguaggi diventano carichi di logiche solo espulsive? Non basta il criterio della forza, della repres­sione. Non basta la legge, la magistra­tura ingolfata, un penale che non è più minimo, un carcere che diventa l’istitu­zione finale che contiene.
Lo sappiamo che i flussi evidenziano una presenza che chiede di interrogarsi insieme, non renderlo solo un proble­ma di ordine pubblico, favorire cittadi­nanza amministrativa, patti internazio­nali forti e significativi, dare credito al fatto che il sociale non solo è protezio­ne civile, ma può essere la sfida vera perché l’intervento di prevenzione e re­pressione della criminalità si possa av­viare e diventi possibile. Non abbiamo bisogno di un sociale buonista, che la­sci spazio a una gestione dell’ordine pubblico senza l’assunzione di respon-
sabilità politiche sul piano delle regole sociali. Non si può affermare e far cre­scere come un’onda difficile da gover­nare l’idea che il vero e unico problema sia il clandestino, genericamente chia­mato senza avvertirne la complessità. In un Paese dove la giustizia penale ha dato così modesta prova di efficienza, assistiamo quasi a una misteriosa riu­scita di orientare il bisogno di sicurezza prevalentemente sulla giustizia penale, per di più intesa nella sua accezione più ristretta: a ogni emergenza si risponde con un aumento della pena e con un’introduzione di nuovi reati.
E così, mentre tutti riconoscono che il problema è sempre quello irrisolto, di processi rapidi e di pene certe, si finisce in un groviglio inestricabile dove il rap­porto tra il valore collettivo e misura della punizione perde qualsiasi ragio­nevolezza. Insomma, la domanda di si­curezza richiede tempi lunghi, ma an­che un forte lavoro di convincimento educativo, fatto di legami sociali, di rot­tura dell’indifferenza, di respiro di vita, di dignità e cura delle vittime. Anzi, proprio partendo dalle vittime, dalla lo­ro domanda di risarcimento e di giusti­zia si richiede un sistema sociale carico di legami, di responsabilità, una cultura che parli ancora di fiducia, di ospitalità, una visione della pena non solo finaliz­zata al carcere. Penso che questo tempo sottolinei l’esigenza di una solidarietà competente e alleata davvero con la magistratura, perché insieme siamo tutti cultori e diffusori di legalità e giu­stizia: ma non si può far insinuare una mentalità che chiama reati una condi­zione di vita, di appartenenza etnica.
Si discuta, si scelga. Consegnamo l’urgenza di non abbandonare la fiducia nel sociale, nella logica solidale e pacifi­ca. Non è ingenuità ma è coraggiosa as­sunzione di responsabilità. È fiducia ancora una volta che sradicare la cultu­ra del nemico, bonificare i giacimenti di odio e rancori generali, non renderli luoghi usati per consenso e strategie politiche sia possibile in un Paese dove si può ancora proclamare una carità colma di giustizia e dove vi è una magi­stratura che va messa in condizione di condannare chi commette reati e di operare. Ma quel clima collaborativo che viene richiesto chiede di riportarsi al pragmatico, che misura le norme sull’efficacia e la praticabilità e dà cre­dito alle istituzioni che si assumono re­sponsabilità e che non possono che far crescere cultura di pace e di giustizia. Ma allora bisogna comprendere che educarsi alla legalità significa anche non assecondare facilmente l’equazio­ne «regolare = legale», perché molte delle azioni criminose sono organizzate e messe in atto da persone italiane o straniere con permesso di soggiorno e molte delle azioni «delittuose» prospe­rano in un clima di valori e di coscienza civile debole, fragile e connivente ri­spetto a fenomeni diffusi (droga, prosti­tuzione, usura, violenza, ecc).
E allora se questa è una fase politica e culturale che deve ritrovare punti co­muni, smettiamola di impegnarci solo nel lottare a parole contro i nostri av­versari politici e religiosi, e mettiamoci al lavoro per prevenire l’insorgere delle situazioni che hanno portato ai rimedi attuali. Prevenire significa educarsi e render solo residuale ed eccezionale il ricorso al penale e soprattutto riuscire a far sì che il carcere non diventi una cloaca, dove scaricare le persone pen­sando di liberarcene per sempre.

Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 144 - numero 26 - 27 giugno 2008. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo



Giovedì, 26 giugno 2008