Curare l’omosessualità
La parola a un omosessuale credente.

di Gianni Geraci

Un intervento sulle terapie riparative dell’orientamento sessuale descritte da Liberazione il 23 dicembre 2007


In un articolo scritto per Liberazione lo scorso 27 dicembre, Aurelio Mancuso osservava che: «I tanti gay credenti, sacerdoti e non, con cui ho relazione tramite email, sms, incontri più o meno catacombali, sono un buon polso della situazione. Su quello che è avvenuto in questi giorni, è calato un eloquente silenzio». Il giorno dopo, in una dichiarazione che aveva l’obiettivo di chiarire il tipo di attività che svolge con le persone omosessuali, il professor Tonino Cantelmi (lo psichiatra che Liberazione ha indicato come referente italiano per quanti "curano" le persone omosessuali) ha parlato di un lavoro il cui obiettivo principale è quello di rispettare «i valori degli omosessuali credenti».
«Forse – mi sono detto – è il caso che qualche omosessuale credente dica finalmente qualche cosa». Ma ero molto impegnato con il lavoro e ho sperato che qualcun altro intervenisse. A distanza di una settimana, visto che nessun altro l’ha fatto, ho deciso di scrivere quello che penso delle terapie riparative dell’orientamento sessuale.
Come tanti omosessuali cattolici della mia età certi approcci terapeutici li conosco bene, perché una ventina di anni fa ho chiesto a uno psicoterapeuta di "farmi diventare eterosessuale". Quando la senatrice Binetti sostiene che allora le persone omosessuali venivano quasi sempre curate, non fa altro che raccontare quello che succedeva a tante persone come me. Purtroppo non parla dei tantissimi fallimenti di queste cure e delle conseguenze che questi fallimenti avevano nella vita di coloro che si erano illusi di "guarire" dall’omosessualità. Nel mio caso, dopo un anno di trattamenti, mi sono ritrovato con un lavoro che non mi piaceva (avevo infatti troncato i sogni di carriera accademica che una modesta borsa di studio da ricercatore aveva alimentato e ho cercato in fretta e furia un impiego che mi permettesse di pagare la terapia) e con una lieve depressione che mi teneva sveglio per ore durante la notte. Ho però conosciuto persone a cui le cose sono andate decisamente peggio: qualcuno è ancora in una clinica psichiatrica, qualcuno si è addirittura suicidato dopo aver constatato che tre anni di sforzi per diventare ’normale’ si erano rivelati inutili.
Gli stessi sostenitori della validità delle terapie riparative parlano di guarigione possibile solo per terzo degli omosessuali trattati e spendono fiumi di parole per raccontare le storie di successo della loro attività terapeutica. A quanti offrono certe pratiche terapeutiche a chi chiede di abbandonare uno "stile di vita gay" occorre a questo punto chiedere se si sono mai chiesti che fine hanno fatto i tanti omosessuali che hanno abbandonato la terapia: posso dire, per averne aiutati tanti, che la maggior parte di costoro ne esce a pezzi e maledice il giorno in cui aveva deciso di chiedere di guarire dall’omosessualità. Forse un buon medico dovrebbe spingere i suoi pazienti a non intraprendere cure che rischiano di comprometterne l’equilibrio, soprattutto quando il rischio di fallimento di aggira intorno al 70%. Non è stata quindi la lobby gay, come sostiene la senatrice Binetti, a togliere l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. E’ stato il buon senso di centinaia di professionisti seri che, dopo aver visto le conseguenze nefaste di certe pratiche terapeutiche, hanno deciso che forse era il caso di utilizzare un approccio diverso: se un omosessuale va da uno psicoterapeuta, l’obiettivo che quest’ultimo gli deve indicare non è tanto quello di "guarire" dall’omosessualità, quanto quello di imparare a vivere bene quella stessa omosessualità che una volta veniva curata con le conseguenze che ho descritto sopra.
Sarebbe poi interessante monitorare nel corso degli anni quella minoranza che, a un certo punto, afferma di essere "guarita" dall’omosessualità. Nei nostri gruppi capita di incontrare persone che, dopo anni di lotte contro le loro inclinazioni, alla fine si riconoscono sconfitti e raccontano, con amarezza, di «aver buttato via i vent’anni più belli della vita!». Negli Stati Uniti, dove grazie ai soldi di alcune sette protestanti , le terapie riparative dell’orientamento sessuale hanno una diffusione molto maggiore che in Italia, gli "ex-ex-gay" sono ormai la maggioranza di coloro che, dopo essersi sottoposti a un trattamento, hanno affermato di essere guariti dall’omosessualità. Alcuni percorsi sono addirittura grotteschi, come dimostra la storia Michel Bussee, fondatore di Exodus International (forse la più importante associazione di ex-gay degli Stati Uniti) che si è innamorato di un altro dirigente della stessa associazione e ha deciso, dopo anni di conferenze in cui aveva raccontato a migliaia di persone di esserne definitivamente guarito, di "riabbracciare" l’omosessualità. Personalmente posso dire di aver conosciuto più di una persona che, dopo avermi detto di essere definitivamente "guarita" dall’omosessualità, ha poi avuto dei comportamenti che contraddicevano questa guarigione.
D’altra parte lo stesso Joseph Nicolosi (lo psicoterapeuta americano che afferma di aver "guarito" cinquecento persone dall’omosessualità) afferma che la guarigione dall’omosessualità non coincide con la fine delle pulsioni omoerotiche, ma con l’approdo a una vita in cui queste stesse pulsioni vengono per lo più represse, isolando gli eventuali contatti omosessuali in cui si può sempre ricadere. Di fronte a una affermazione di questo genere sarebbe il caso di chiedersi con che coraggio si esortano le persone che "guariscono" dall’omosessualità a sposarsi calpestando il diritto che una moglie ha di sperimentare nel compagno quella passione che ciascuno di noi desidera vedere nel partner. L’obiettivo di staccare l’omosessuale dalle cattive compagnie dei gay che sono contenti di esserlo è talmente impellente che non ci si cura delle sofferenze che questo distacco comporta nell’omosessuale stesso e, soprattutto, nella donna che ha avuto la sfortuna di sposarlo. Dare un supporto pseudo-scientifico a certi espedienti a cui si ricorreva in un lontano passato per risolvere il "problema" dell’omosessualità, significa essere dei veri e propri incoscienti.
Alla luce delle osservazioni che ho appena fatto credo di poter concludere che, agli omosessuali che chiedono di essere "curati" (come del resto ho fatto io tanti anni fa), un medico onesto deve rispondere che l’omosessualità non è una malattia da curare, perché l’eventuale cura comporta rischi molto maggiori dell’omosessualità stessa. La strada che un omosessuale credente è chiamato a percorrere per non rinunciare ai suoi valori non passa attraverso la negazione dell’omosessualità, ma si gioca nella capacità che abbiamo di mettere l’omosessualità stessa in relazione con gli altri aspetti della nostra vita. Ci si accorgerà allora che la vera risposta alla promiscuità che certi autori, sbagliando, identificano con lo "stile di vita gay", non è la cura dell’orientamento omosessuale, ma il progetto di vivere quello stesso orientamento in maniera responsabile, facendosi carico non tanto del proprio benessere, ma del benessere delle persone che il Signore le fa incontrare.


Gianni GeraciPresidente Gruppo del Guado – Cristiani Omosessuali – Via Soperga 36 – Milano
www.gaycristiani.it



Sabato, 05 gennaio 2008