Il dibattito nelle chiese protestanti sulla omosessualità
Il documento GLOM, i suoi critici e i suoi aspetti positivi.

di Martin Ibarra

Ci sono tre critiche fatte al documento GLOM ingiuste e forse pretestuose. La prima che “è inadeguato perché non si prefigge il dialogo”. Qualcuno mi dovrà spiegare invece con chi vuole dialogare chi considera l’omosessualità: “una malattia o perversione” (Castellanos), “un vizio e peccato incompatibile con la condizione di discepolo di Cristo” (Zarazaga), “il più limpido esempio (qui si sfiora l’ossimoro) della ribellione contro Dio..., perversione contro natura” (Benedetti ), o la chiesa di Trastevere che decide di non battezzare “gli omosessuali dichiarati se non si pentono di questo peccato”. Qui non c’è dialogo, mi sembra, c’è giudizio morale, condanna, sentenza definitiva e senz’appello, gli “omosessuali dunque vanno all’inferno di fuoco”, questo è il loro destino eterno per tutti tranne che per Benedetti, (illuminato talvolta?). Mentre chi sostiene le tesi accennate nel documento GLOM, ha rinunciato all’etica e all’insegnamento biblico, niente male come premessa per un dialogo costruttivo. Ma se per Benedetti il peccato dell’omosessualità “porta in sé la sua condanna”, allora non c’è nessun’altra ulteriore punizione, per cui sono serviti i conservatori, non ci sarebbe inferno secondo l’interpretazione Benedetti, perché se il peccato che è in se stesso “l’esempio più limpido di ribellione contro Dio” non comporta punizione eterna, come si potrà pretendere che gli altri peccatucci invece comportino un’eternità di sofferenza in un luogo di tormenti. Colui che vuole “fare il teologo” della posizione conservatrice nega il dogma essenziale dei fondamentalisti e dei conservatori cristiani: l’esistenza dell’inferno creato da Dio (quando?) per affollarlo di peccatori sopratutto omosessuali e lussuriosi.

La seconda critica è quella di non avere “chiari presupposti esegetici”, anzi di rinunciare ad un fondamento biblico dell’etica (sessuale? e dunque non c’è più etica tra i sostenitori della posizione del documento GLOM), mentre i presupposti esegetici di chi condanna gli omosessuali all’inferno simbolico di Benedetti o “reale” degli altri documenti sono chiari, e evidentemente “fondati” sulla Scrittura e su un’ermeneutica adeguata che s’appropria in modo legittimo dei testi per elaborare una teologia e un’etica coerenti con il testo biblico e con la situazione che vive la chiesa. Davvero è pretendere troppo e il risultato mancato si vede chiaramente in alcune delle risposte che confutano questa pretesa (Green, Gruppo di studio biblico della chiesa di Torino Passalacqua, ecc.). L’interpretazione dei testi biblici presentata da Benedetti ed altri è tutt’altro che biblicamente fondata, non ripeterò quello che altri hanno detto meglio di quanto io possa dire, su Genesi 19, Levitico 18 e 20, e gli altri testi (Tomassone, Lio, Albano). Il problema ermeneutico del testo di Romani si può porre in questi termini: Paolo condanna la condotta degli omosessuali (uomini e donne) e la qualifica come atto impuro o abominabile, e non come peccato perché è assente nel testo la terminologia che Paolo usa per il peccato. I termini “adikia e asebeia” non sono peccati nella teologia paolina ma lo stato o condizione del peccatore che è in quello stato appunto perché peccatore. Dunque l’omosessualità non è esempio del peccato per Paolo, ma esempio dello stato in cui si trova il peccatore, si veda il commento a Romani di Kasemann, edito dalla casa editrice Eerdsman, Grand Rapids 1980, p. 38, (della stessa opinione Zahn, Schlier, Billerbeck, Leenhardt, Schlatter, insomma gli esegeti che hanno fatto la storia recente dell’esegesi di Romani, mi sia consentito un inciso, perché Benedetti non dice che lavora sul testo dell’etica del Nuovo Testamento di Hays, l’appendice che dedica al commento del testo di Romani?). Altrimenti Dio punirebbe un peccatore, l’omosessuale, obbligandolo a commettere un altro peccato ancora più grave perché “l’omosessualità è il più limpido esempio di ribellione contro Dio”. Il teologo Hays qui inciampa ancora nella peggiore delle teologie, quella che è in contraddizione con se stessa. Dio non può punire il peccato portando il peccatore a commettere altri peccati più abominevoli ancora. Immaginate un giudice che condanni un assassinio a commettere invece una strage come punizione per l’assassinio, sarebbe mostruoso, non è possibile, né sul piano logico né sul piano formale. L’unica alternativa che lascia il testo di Paolo è che per lui l’omosessualità non sia un peccato ma lo stato del peccatore che è già di condanna e dunque porta in sé stesso la sua punizione. Quale etica del Nuovo Testamento si può costruire su questi presupposti?

La terza critica al documento GLOM mi sembra mossa invece dalla teologia e dall’etica come esse sono intese, sopratutto sembra da Hays-Benedetti. Si afferma che la questione dell’omosessualità sia irrilevante. Per due ragioni, la prima è perché gli omosessuali in Italia “non sono discriminati”, ci troviamo dunque di fronte alla pretesa di libertà sessuale di “peccatori” che non dobbiamo come chiese nemmeno prendere in considerazione. La seconda ragione sarebbe, perché la vera questione è la sofferenza di milioni di persone (saranno gli omosessuali che vivono fuori dal paradiso Italia, l’unica nazione al mondo dove non ci sono discriminazioni verso gli omosessuali!!!), ma questa non è una questione teologica o etica, ma pastorale e spirituale, e dunque non degna di attenzione da parte del teologo o del moralista. Queste affermazioni da sole smascherano appunto la povertà, la miseria di una teologia o di un’etica che negano l’evidente, cioè che in Italia e nel mondo gli omosessuali sono discriminati, e per le quali la sofferenza di milioni di esseri umani discriminati, incarcerati, assassinati, condannati al rogo, e che nel passato sono stati condannati al lager nazista e all’auto da fe dell’inquisizione, sia irrilevante per la teologia. Nella mia opinione sarebbe irrilevante invece una teologia che non si occupi della sofferenza anche di un solo essere umano, “quello che avete fatto ad uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me”. L’identificazione di Gesù con il sofferente, il discriminato, il perseguitato, con la prostituta e i pubblici peccatori, con gli impuri, i poveri e non con i puri che battezzano soltanto puri come loro, è la ragione di essere della teologia cristiana che parte dall’incarnazione del Verbo. Una teologia deve essere incarnata nella sofferenza, nella speranza e nella liberazione dell’oppresso e del bisognoso, altrimenti non è teologia cristiana, è qualcosa altro. Una chiesa che non battezza gli omosessuali non è la chiesa di Cristo, una chiesa che non accoglie tutti gli esseri umani, perché tutti siamo peccatori (sempre), non è la chiesa del Nuovo Testamento. Quando l’eunuco disse a Filippo, “ecco dell’acqua, cosa impedisce che io sia battezzato?”, Filippo rispose: “Se tu credi con tutto il tuo cuore è possibile”. L’eunuco non poteva formare parte della qehal di Israele perché “incompleto” secondo la Legge stessa. Filippo dice che l’unica condizione per il battesimo nella chiesa che è corpo di Cristo (corpo martoriato per i peccati di tutti) di chiunque, “è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è il Figlio dell’Uomo”. La chiesa di Trastevere aggiunge una clausola anti-omosessuali, ma non potrà battezzare d’ora in più nessuna persona, se vorrà essere coerente con la posizione assunta, perché immagino, il loro rifiuto di battezzare non riguarda gli omosessuali in quanto tali, ma il fatto che siano peccatori “non pentiti” e che dunque li battezzerebbero se prendessero l’impegno di non peccare più. Coerenza vuole che la stessa condizione venga posta a “tutti gli altri peccatori: adulteri, bugiardi, ladri, idolatri, avari, golosi, avidi di ricchezze disoneste, fornicatori (anche quelli che lo faranno soltanto con il pensiero), invidiosi, presuntuosi, ipocriti religiosi, calunniatori dei fratelli (quelli che raccontano delle bugie nei confronti di altri fratelli e sorelle per infangarli), quelli che giudicano gli altri, ecc. Ma come faranno da questo momento in poi ad essere sicuri che non battezzeranno un omosessuale o una persona che comunque peccherà ancora? Quella decisione è una trappola e un vicolo senza uscita, perché la Bibbia dice che “tutti sono peccatori e sono privi della gloria di Dio”, Romani 3,9-19. Tutti, non solo alcuni, gli omosessuali a cui si nega il battesimo se non si pentiranno, dunque non si potrà più battezzare nessuno a meno che si impegnino a non peccare più, il che è impossibile secondo 1 Giovanni 1,8 “se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi”. Quelli già battezzati, anche loro peccatori, dovranno riconoscere di avere ricevuto un battesimo su false premesse, cioè, la premessa che non avrebbero peccato mai più. Secondo il vecchio adagio battista un battesimo fatto su false premesse è a sua volta falso, riguardo il soggetto cioè la persona battezzata, o riguardo la forma cioè la totale immersione del corpo nell’acqua.

Non c’è da parte dei documenti contrari al documento GLOM e alle proposte ivi accennate, almeno di quelli che fino ad ora abbiamo letto, un interesse per la questione “vera”, per il “vero problema” come dicono loro, che tentano di affrontare, per questo cadono nei giudizi morali e nelle condanne sommarie. Non affrontano la questione dell’omosessualità, cosa essa sia. Loro partono da questa tesi: Dio ha creato l’essere umano uomo e donna e li ha destinati l’un l’altra per la procreazione (e non per la gioia sessuale che è mezzo ma non fine, se non è un diritto per gli omosessuali non può esserlo per nessuno), l’atto sessuale ha dunque la funzione della moltiplicazione della specie, questo è l’ordine naturale dato all’umanità nell’atto stesso della creazione, tutto quello che rompe questo ordine è contro natura e aberrante. Della tesi principale scende la tesi secondaria: Dio ha creato l’essere umano con un’unica condizione di eterosessualità, cioè di naturale e universale desiderio orientato verso le persone dell’altro sesso, chiunque sente un desiderio sessuale verso una persona dello stesso sesso ha pervertito l’ordine naturale voluto da Dio in modo peccaminoso e dunque conscio e volontario, va contro la sua naturale inclinazione creata da Dio. Questa tesi cadrebbe invece, se Dio non avesse creato soltanto due sessi, e se Dio non avesse creato ogni essere umano in modo naturale “inclinato” a desiderare soltanto le persone dell’altro sesso. Ripeto, l’omosessualità sarebbe peccato e perversione soltanto se questa doppia tesi fosse vera: Dio ha creato soltanto due sessi e un’inclinazione naturale del desiderio diretto universalmente soltanto verso l’altro sesso. Ma, sono vere queste due tesi? Stanno così le cose? La risposta è semplice, c’è almeno un terzo sesso da un punto di visto fisiologico: l’ermafrodita già descritto addirittura da Platone nel famoso mito della creazione dell’uomo. Ci sono poi almeno altri due sessi, cioè quando non coincide il sesso fisiologico con quello psichico, si ha il corpo di uomo ma la mente di una donna, o viceversa, il caso dei transessuali. Il curatore della voce Cosa dice la scienza? nei documenti in esame si è dimenticato di questa pluralità di sessi descritti oggi dagli scienziati. La scienza non esiste, esistono gli scienziati e anche loro sono divisi fra quelli che hanno posizioni determinate da opinioni laiche, o posizioni determinate da considerazioni morali o teologiche confessionali. Ma nessuno oserà negare che ci sono gli ermafroditi (persone che nascono con caratteristiche sessuali maschili e femminili) e i transessuali, e mi auguro che nessuno osi affermare che l’ermafrodita lo è per sua perversione personale o il transessuale lo sia per una particolare inclinazione peccaminosa: sarebbe aberrante visto che dipende quella condizione da fattore fisiologici e psichici. Dunque la prima affermazione, che Dio abbia creato soltanto due sessi è falsa, traballa, crolla, a meno che si consideri questi ultimi come anomalie della creazione, ma esistono e nessuno può negarlo. In secondo luogo, come si fa ad affermare che non esiste la condizione omosessuale?, cioè che l’omosessualità è la condizione di quelle persone che si sentono attratte in modo naturale, e dunque non peccaminoso perché è la condizione che si trovano, che leggono nel loro corpo e ormoni e non una speciale perversione che nega la natura. Al contrario per loro sarebbe contro natura diventare eterosessuali, perché la loro natura li spinge verso una persona dello stesso sesso. Esiste la persona omosessuale perché esiste la “condizione” od orientamento sessuale verso lo stesso sesso, e non viceversa. Esso non è frutto di una speciale perversione o ribellione contro Dio, altrimenti tutti i criminali sarebbero omosessuali, visto che è il peccato con cui Dio punisce i peccatori (secondo Benedetti), e tutti gli omosessuali sarebbero criminali e idolatri, il che non mi sembra sostenibile. La persona omosessuale è quella che per definizione “si sente attratto verso le persone dello stesso sesso in modo definitivo o in modo occasionale” (caso dei bisessuali), non si tratta dunque di persone che “nascono eterosessuali” e poi per una speciale forma di perversità decidono di provare lussuria verso le persone dello stesso sesso. Questa è la loro condizione, non è una scelta di eterosessuale deviato, ma di omosessuale o bisessuale che sente l’impulso e non lo provoca , esiste, è lì, li appartiene, è il suo modo di essere, è lui o lei, se lo nega o lo sublima nega se stesso, se stessa, affonda nel non senso dell’stranazione di sé, non sarà più lui/lei, sarà per sempre estraneo a se stesso, vivrà para phisis, cioè in modo contrario alla sua natura.

Arriviamo ora al “vero problema” di fondo che serpeggia, e che riguarda la funzione della teologia o dell’etica all’interno della comunità di fede, e dunque allo status della sua fonte, della Scrittura che contiene la parola e la rivelazione di Dio. Le questioni teologiche ed etiche sgorgano dal suolo della vita della comunità che si interroga su se stessa alla luce della Scrittura, interroga il suo messaggio e ciò che riguarda ciascuno dei suoi membri, del mondo in cui è incarnata e al flusso della storia in cui è inserita, per essere rilevante, per avere qualcosa da dire a chi si avvicina alla comunità stessa o all’annuncio del Cristo. La teologia o l’etica non possono astrarsi dal complesso insieme di elementi a cui devono rispondere: il messaggio della parola va dunque attualizzato e incarnato in un contesto, questa è la prima e necessaria appropriazione del testo in un processo ermeneutico vero, non possiamo limitarci a ripetere quello che diceva l’autore del Levitico o Paolo ai Romani, ma dobbiamo dirlo alle persone e al mondo di oggi. La domanda dunque sulla schiavitù come lo stato naturale di alcuni uomini, e sull’atto sessuale con la donna mestruata punito con la morte in Levitico perché aberrante, non solo sono pertinenti, contrariamente a quanto affermato da Benedetti, ma decisivi (come fa notare in modo magistrale Paolo Ricca nel suo intervento su Riforma sul “peccato”), perché decidono pure sullo status della omosessualità anche essa aberrazione punita con la morte e considerata come stato aberrante contro natura di alcuni peccatori anche per Paolo. L’onere della prova appunto, resta nel campo di Benedetti che ci deve dire, perché alcune aberrazioni condannate dalla Bibbia in passato ora ci fanno sorridere ed altre ancora inorridire? Qualunque sia la risposta, essa non si corrisponde con la “natura”, cioè quelle aberrazioni non sono date con la creazione, non sono fisse e immutabili, ma bensì sono culturali e mutabili e niente altro, e dunque oggi possiamo legittimamente superare la considerazione paolina dell’omosessualità e considerare comunque un’aberrazione da combattere la prostituzione o la pederastia.

Non si può parlare infine dell’omosessualità come di un concetto con una casistica, come di un’astrazione teoretica, da parte di un teologo è disonesto, perché non esiste l’omosessualità, a meno che non si creda nell’esistenza degli universali eterni, esistono invece “le persone omosessuali”, che vivono e sono nella condizione che chiamiamo omosessualità. In realtà quando si giudica e condanna l’omosessualità vengono giudicate e condannate delle persone in carne ed ossa, si alimenta l’omofobia che carica l’arma della discriminazione che provoca sofferenza. Personalmente, non parlo mai di omosessualità, ma penso ai tanti amici e amiche che conosco, amo e rispetto, che vivono la loro condizione di omosessualità nell’amore profondo e tenero verso i loro partner, in modo fedele ed esemplare anche per me, eterosessuale. Penso a queste persone una ad una, non sono un “caso, un problema, una questione”, sono persone meravigliose o normali, scintillanti o grigie, amici e amiche alcuni veramente fraterni e sorerne, fratelli e sorelle amati da Gesù Cristo che in nulla si differenziano di me né di nessun altro. L’unica differenza con me consiste nel fatto che desiderano, anziché persone dell’altro sesso, persone dello stesso sesso. E’ arrivato il momento di mettere fine ad una lunga storia di ipocrisie e nascondimenti, di discriminazione e sofferenze inflitta ad una parte della chiesa. Se non siamo capaci di parlare e di trattare a questi fratelli e sorelle come quello che sono: fratelli e sorelle considerandoli diversi o peccatori, quale credibilità ha la nostra teologia, etica, spiritualità o prassi pastorale quando parliamo a chiunque altro sia oggetto di discriminazione? Per me risulta ormai evidente che per anni le nostre chiese si sono rese colpevoli del peccato di meschina ambiguità nei confronti dei fratelli e delle sorelle omosessuali. Solo a loro si fa pagare il prezzo dell’incoerenza della nostra vita di fronte a Dio. Anche Benedetti e Zarazaga dicono che siamo tutti peccatori, ma poi, immediatamente, gli omosessuali sono giudicati come più peccatori degli altri. Altri abbiamo peccato di incoerenza verso di loro perché avendo superato questo pregiudizio non abbiamo portato fino in fondo la conclusione evidente: eliminare nella chiesa ogni discriminazione e ostacolo che possa ostacolare o impedire la felicità, la crescita e l’accoglienza piena (e non finta) dei fratelli e delle sorelle di condizione omosessuale. L’incoerenza della chiesa è specchio dell’incoerenza della società italiana (quella che non discrimina gli omosessuali?) per la quale non esiste il peccato, ma poi rifiuta qualunque forma di riconoscimento pubblico o di possibilità del matrimonio fra persone omosessuali, faremo noi la stessa cosa, cadremo nella stessa incoerenza ed ipocrisia della chiesa cattolica e dello vaticanitaliano? La statistica dice che le separazioni e i divorzi fra eterosessuali raggiunge ogni anno il cinquanta per cento dei matrimoni celebrati, questo è un dato ma si rimprovera agli omosessuali di avere legami tenui e dunque indegni di essere sanciti da una celebrazione matrimoniale. Secondo le indagini statistiche due su tre italiani eterosessuali tradisce il proprio partner, ma neghiamo la legittimità dell’amore omosessuale perché si dice che tendono ad essere poco fedeli. Il problema è l’ipocrisia per cui la società e le chiese fanno pagare il prezzo di questa incoerenza soltanto agli omosessuali: è ormai normale celebrare le seconde nozze, nessuno esige il celibato ai fidanzati eterosessuali, ma si pretende che le persone omosessuali non creino difficoltà alla chiesa chiedendo una benedizione della loro unione, o li si chiede il celibato perché non provichino scandalo nei benpensanti. Da alcuni di questi documenti traspare insicurezza, paura della condizione delle persone omosessuali, come se le chiese trattandoli come si devono trattare tutte le persone, anche i peccatori, cioè accogliendoli perché siano una parte della chiesa di Gesù Cristo, aprissero le porte dell’Averno. Questo nasce dall’illusione che condannando gli omosessuali si ha una sola certezza, che noi siamo a posto perché almeno non siamo omosessuali, cioè la trasformazione dell’omosessuale nel peccatore (come acutamente indica Green), mi scagiona automaticamente, ci fa dire come al fariseo “grazie Signore che non mi hai fatto come quel pubblicano...”. Se non battezzo l’omosessuale, automaticamente, io essendo battezzato sono a posto. Certamente questa certezza è una falsa illusione di stare a posto, ma appunto condannare gli omosessuali serve a nasconderci questa realtà della nostra profonda inadeguatezza, nessuno è a posto, e chi giudica il fratello si rende colpevole del giudizio che emette. Benedetti ed altri trasformano i loro fratelli e sorelle omosessuali in un simbolo della loro insicurezza: visto che condanniamo l’omosessuale crediamo ancora in qualcosa, mentre quelli che non considerano l’omosessuale un peccatore hanno perso ogni riferimento etico e biblico, non credono più a nulla. Insomma, i critici del GLOM e delle sue proposte fino ad ora non hanno fatto teologia né ermeneutica, non hanno fatto etica, pastorale o spiritualità, hanno elaborato ideologia e cultura, purtroppo omofobica, come una parte della teologia cristiana ha fatto per secoli e secoli e continuerà a fare finché non scoprirà a se stessa la vera radice di questa paura verso l’omosessuale. Un dibattito di questo tipo dovrebbe versare su una sola questione: la nostra teologia e la nostra morale si devono trasformare in una pastorale di liberazione, sostegno e aiuto a tutti, perché tutti possano vivere la propria condizione e scelta di vita in modo creativo e soddisfacente nella chiesa del Dio vivente che ci ha creati tutti così come siamo, all’eterosessuale e all’omosessuale, all’uomo e alla donna. Invece, siamo qui a discutere di dichiarazioni, pronunciamenti, giudizi di teologi che non fanno i teologi, ma che fanno i prefetti dell’ordine morale o i guardiani dell’ortodossia, e che comminano, a volte con delle minacce (non battezzare gli omosessuali), quali siano le uniche e autorevoli interpretazioni della verità rivelata e della morale. Questo scollamento tra la realtà della vita delle persone, e le questioni che le chiese possono o non possono discutere, dibattere in libertà, cioè cosa si può discutere e cosa è oggetto di dictat infallibile e inappellabile, pone un serio limite alla teologia. I protestanti ci eravamo sbarazzati, mi sembrava ricordare, quasi cinque secoli fa di questo “metodo teologico” alla Ratzinger, alla fin fine ciò che per questi fratelli costituisce la teologia e la morale, non è che un “modo” fra altri di interpretare la pluralità di “metodi teologici”, che però condanna tutti gli altri e salva soltanto il “loro metodo”. Il teologo protestante sa di essere invece a due passi della realtà su cui riflette, ad una certa distanza di Dio; sa che quello che dice è un’opinione, una possibilità e non pensa di salvarsi né di salvare nessuno con le sue idee sulle dottrine teologiche od etiche; pensa di essere salvato per grazia e non perché ossequia con il silenzio o l’assenso un magistero infallibile vicariale o di carta stampata. Per noi non dovrebbe esistere un problema della benedizione delle coppie di omosessuali perché Dio benedice tutti, altrimenti il pastore o la pastora dovrebbe dire alla fine del culto, prima di invocare la benedizione, che i peccatori devono uscire dal tempio perché secondo “Benedetti” Dio non può benedire il peccato, o non si doveva negare ieri l’ordinazione di pastori di genere femminile ed ora di quelli di condizione omosessuale. Esiste invece una possibilità che molti accettano ed altri rifiutano, perché sono aperti o chiusi alle possibilità accennate , progressisti o conservatori. Chi scaglia delle accuse di peccatori sulle scelte delle persone, crede invece che non ci sia una distanza fra Dio e lui – purtroppo dev’essere sempre un lui -, che è accanto a Dio o che Dio è dietro di lui, come componente obbligata delle sue affermazioni, che non sono opinioni ma interpretazione infallibile.

Detto questo possiamo chiedere finalmente, quale sia il compito del teologo, della teologa? Nel Nuovo Testamento troviamo una pluralità di voci e di teologie. Perché in due contesti originari – quello ebraico e quello greco-romano a loro volta plurali -, si è proclamata la stessa verità: la vita e la morte, la risurrezione e l’insegnamento di Gesù di Nazareth, attualizzando e contestualizzando il messaggio a seconda di chi ascoltava – il galata insensato o il pio ebreo -, e secondo il contesto – l’ebraismo, l’ellenismo -, religioso, culturale in cui il messaggio del Cristo era proclamato. Questa ricchezza di inculturazione e adattamento si perde, curiosamente, quando il cristianesimo trionfa e diventa chiesa di stato e fede obbligatoria per i cittadini. Allora si irrigidisce, trasforma la fede e la prassi in dogma che avrà la forza della legge dello stato. Questa tendenza è tuttora presente e attiva in seno alla cultura cattolica, che tende a trasformare, quando le riesce, le sue credenze morali in legge dello Stato che poi obbliga tutti, anche i non cattolici, come si vede costantemente in Italia quando si discutono leggi che incidono sulla così detta morale cattolica.

Il teologo, la teologa ha come mestiere inculturare e adattare il messaggio al suo tempo e alla sua cultura. Deve compiere questo suo dovere culturale e religioso verso il suo popolo e verso Dio fino in fondo. Certamente, nel contesto arcaico originario, patriarcale, tutto quello che fosse un pericolo per il patriarcato stesso era vietato e sancito religiosamente come peccato o come abominazione, cioè qualcosa che rende impuro e lascia un’impronta in chi si macchia di tale peccato. Riproporre oggi gli stessi concetti arcaici di impurità significa riportare la religiosità e la morale fuori dal contesto attuale, come se non fosse mutato nulla, occorre fare un salto logico che, in molti casi si accetta perché si riconosce l’autorità dell’infallibile interprete, caso cattolico, o di una certa lettura della Bibbia, caso dei documenti contrari al documento GLOM. Basta urlare “il re è nudo”, cioè, non accettare quell’autorità per rendersi conto dell’errore di fondo: il sistema teologico fondato sulle curie e prefetture o su letture letterali di un testo sono una curiosa e notevole perduranza di un equivoco fondamentale. L’equivoco è che si possano fare le stesse affermazioni morali che si facevano duemila anni fa nelle società semitiche (e grecoromane), senza chiedersi se quelle affermazioni abbiano ancora un senso, alla luce delle nostre conoscenze e allo stato della nostra cultura. Se il teologo non può fare questo esame e deve semplicemente ripetere le proibizioni e i tabù del Levitico o di Romani, quale sarebbe la sua funzione all’interno della comunità? Non ha nessun senso oggi affermare che fare l’amore con una donna mestruata sia un’abominazione, come non ha più forse senso affermare che l’omosessualità sia un abominio, che il sesso praticato fuori dal matrimonio sia un peccato contro la morale, o che ordinare pastore una donna od un omosessuale sia contro la legge voluta da Dio o da Cristo stesso – poi, come si fa a sapere cosa voleva o non voleva il Gesù storico? Alla prova dei fatti ci sono 20 tabù sessuali nel Levitico, oggi 16 su venti sono caduti, mentre ne sono sorti di altri tabù, prova del loro legame alla cultura del tempo e non alla natura immutabile, l’ottanta per cento degli antichi tabù oggi ci fa sorridere, non è legittimo esaminare la sostenibilità teologica o l’opportunità degli altri sei? E comunque, può il giudizio su una persona dipendere da ciò che fa di notte, per una mezz’ora, nel proprio letto? O non considereremmo più importante giudicare una persona per la sua educazione, la sua gentilezza, la sua generosità, le sue competenze lavorative, la sua umanità? Come se “l’omosessuale” non fosse altro che la sua vita sessuale: nessuno giudicherebbe un eterosessuale in base a questa sua condizione, è troppo chiedere che si faccia lo stesso con tutte le altre persone?

Compito infine della teologia è indicare quale sia oggi quella frontiera nel campo che ci occupa, la etica (che quando si riferisce a queste tematiche è piuttosto la teologia applicata alla vita delle persone concrete di carne, ossa, sentimenti e affetti) tra quello che anche per noi sarà ancora abominio, e quello che oggi non può esserlo in nessun modo. La frontiera sarebbe questa, secondo la mia opinione: il teologo deve essere conscio della “distanza di sicurezza posta tra Dio e noi, fra la nostra morale e la morale naturale, fra la rivelazione e la nostra comprensione della rivelazione divina. Quella frontiera può essere portata avanti o indietro a seconda delle proprie posizioni culturali o teologiche, ma per favore niente anatemi contro nessuno, non c’è da questa parte tutta la verità e dall’altra tutto è ipocrisia e inganno, ma mobilità delle frontiere. Questi due passi indietro del teologo ci aiutano ad evitare due tentazioni. La prima è a pensare che quando parliamo noi sia Dio a parlare, il delirio del fondamentalista o dell’integralista, così pericoloso storicamente e nel presente leggendo alcuni fatti di cronaca quotidiana dell’orrore della violenza contro gli omosessuali in Italia e nel mondo (il suicidio di un ragazzo omosessuale a Torino perché perseguitato da bullismo, l’impiccagione di una donna omosessuale in Iran). La seconda è credere che siamo “installati” nel perenne miracolo del mistico illuminato, cioè, pensare che quello che diciamo è scevro e libero da errori perché Dio è obbligato a preservarci dall’errore. Fra la mistica della sacra ispirazione e la condanna fondamentalista di tutto ciò che non si adatta alla morale patriarcale arcaica, non si lascia scampo all’individuo né spazio alle scelte di vita in libertà del singolo, le chiese devono rifiutare questa logica perversa. Non rimane spazio alla teologia, tutto si riduce a dictat, dichiarazioni, condanne, le chiese possono discutere liberamente soltanto su questioni periferiche, indolori, senza spessore né conseguenze per la vita né la realtà di nessuno.

C’è teologia, invece, quando si rispetta questa distanza e si dà spazio alla persona, alla sua vita, alle sue scelte, alla sua ricerca, perché no, di felicità e soddisfazione nelle relazioni umane – in tutte le relazioni umane possibili, complesse, meravigliose e devastanti -. In fondo le persone non andavano da Gesù per avere precetti morali sulla loro condotta, ma perché in lui trovavano la potenza e l’autorità della parola che dava libertà e salvezza. Forse è chiedere troppo se chiediamo ai nostri fratelli che si atteggiano a prefetti della morale, o a guardiani delle frontiere dell’ortodossia, di fare due passi indietro per incontrare tutti noi, il resto degli umani, a quella distanza necessaria da Dio per riconoscerci insieme fratelli e sorelle anche se la pensiamo in modo diverso? Uomini e donne, niente altro, alle prese con la nostra condizione che cerchiamo di vivere, ciascuno nello stato o condizione in cui ci troviamo dopo la chiamata del Signore a seguirlo, e senza impedire a nessuno il raggiungimento della pienezza della sua esistenza personale unica meravigliosa e complessa della ricchezza con cui Dio ha dotato ciascuno e ciascuna di noi.


Martin Ibarra Pérez
Chiesa Evangelica Battista di Milano.
Via Pinamonte da Vimercate 10
20121 Milano



Mercoledì, 12 settembre 2007