Il dibattito nelle chiese protestanti
RIFLESSIONI SU LA “QUESTIONE OMOSESSUALE”

Risposta all’articolo di Italo Benedetti


di Elizabeth Green

Il Comitato Esecutivo dell’UCEBI (Unione Chiese Evangeliche Battiste in Italia) ha ritenuto opportuno mandare alle chiese una serie di documenti in alternativa al documento GLOM prodotta da diversi pastori. Il testo a firma di Italo Benedetti, “La questione omosessuale” è un’esegesi di Rm 1, 18-32 . Per Benedetti, l’omosessualità non è solo peccato bensì “l’esempio paradigmatico della ribellione a Dio”. A questa posizione teologicamente (o simbolicamente?) intransigente segue una pratica pastorale apparentemente più morbida: l’omosessuale non va condannato/a né giudicato/a in quanto la chiesa stessa è composta di peccatori perdonati. Anzi, la chiesa è tenuta ad accogliere le persone omosessuali, chiedendo loro alla stregua di tutti gli altri cristiani, di “conformare la loro vita all’Evangelo”. Poiché, però, la pratica omosessuale è peccato, questo significa astenersi da rapporti sessuali omosessuali. In altre parole, a patto che smettano di essere persone omosessuali! Ma è proprio qui, dopo aver cercato di salvare capre e cavoli che a Benedetti casca l’asino!
Forse non è superfluo dire che il fenomeno della sessualità umana è molto più complesso di ciò che traspare dai nostri ragionamenti sull’etero- o l’omo-sessualità. Ci sono senz’altro persone che, pur avendo un orientamento di fondo di tipo eterosessuale, praticano rapporti sessuali con persone dello stesso sesso, ma ci sono persone (come ha mostrato lo psichiatra Paolo Rigliano nel suo libro Amori senza scandalo) cui emozioni, relazioni e comportamenti sono orientati verso persone dello stesso sesso. In altre parole, per queste persone, l’essere omosessuale è fondante della propria identità e investe tutte le sfere del proprio essere. Come diceva un mio amico, se togliete la mia omosessualità semplicemente non sono più io. Senza la sua omosessualità Michelangelo non sarebbe stato il Michelangelo, la sua pittura, la sua scultura sarebbero state diverse!
Da un lato, quindi, si afferma che la persona omosessuale è peccatore come tutti gli altri, ma dall’altro le si vuole attribuire uno status speciale : “L’omosessualità è l’illustrazione più chiara del fatto che l’umanità è pienamente responsabile dell’empietà e dell’ingiustizia in cui vive”. Ma se ciò fosse vero non si capisce perché per parlare del peccato al capitolo 5 della lettera ai Romani, (e anche altrove), l’apostolo Paolo prende come esempio paradigmatico proprio Adamo, noto a tutti (e soprattutto agli autori di questi documenti), proprio per la sua eterosessualità! A differenza da ciò che opina Benedetti, a noi donne questo tipo di argomentazione non è affatto nuovo. Per secoli le chiese cristiane hanno ritenuto che le donne fossero “l’illustrazione più chiara” della peccaminosità umana, e sono arrivate non solo a precludere aspetti della vita ecclesiale alle donne per il mero fatto di essere donne, ma ad immaginare che il fine della santificazione della donna fosse diventare maschio! (Le analogie con ciò che auspica la ricerca in campo psicologico da parte della NARTH (“un gruppo professionale che si dedica alla comprensione e al cambiamento della condizione omosessuale”) riportata dal Past. Castellanos nel suo documento sono fin troppo ovvie). Forse è ora di separare l’aspetto simbolico del pensiero di Paolo dalle sue conseguenze pastorali.
Tuttavia mi sembra che ci sia un vizio di fondo nel modo in cui ci si imposta il discorso sulla “questione omosessuale” . Personalmente mi crea molto disagio che alcune persone (presumibilmente eterosessuali) definiscano il peccato o meglio “l’esempio paradigmatico di ribellione a Dio” in modo che loro ne siano automaticamente escluse! Nonostante le affermazioni al contrario, è difficile non leggere questo e gli altri testi pervenutici come un tentativo da parte di alcune persone se non di escluderne altre almeno di includerle considerandole, però, inferiori. (Di nuovo noi donne ne sappiamo qualcosa). Continuo a chiedermi se questo è un modo di porsi vis à vis il peccato veramente evangelico.
Nei vangeli mi sembra trovare due approcci principali. Nel primo, Gesù individua la presenza del peccato laddove noi non l’avremmo nemmeno immaginato per poter perdonarlo (in quanto è venuto non a giudicare il mondo ma per salvarlo). Qui l’esempio paradigmatico sarebbe il caso del paralitico : “Ma affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati … alzati, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa tua”(Mc 2,10s.). Nel secondo, invece, è l’essere umano a scoprirsi peccatore alla presenza di Gesù. Così in risposta alla pesca miracolosa Pietro esclama “Signore, allontanati da me perché sono un peccatore” (Lc 5,8) mentre, com’è noto, alle parole di Gesù: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” tutti “cominciando dai più vecchi” uscirono uno ad uno (Gv 8, 7ss.). Nel primo caso, Gesù rivela la presenza del peccato, nel secondo, alla presenza di Gesù l’essere umano si scopre peccatore. E’ vero, c’è anche un terzo approccio: quello di definire il peccato per poterlo individuare negli altri: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, neppure come questo pubblicano …” (Lc 18,11). Secondo i vangeli è l’atteggiamento dei farisei con in quali, sappiamo, Gesù non era particolarmente tenero. Non ho assolutamente nessuna intenzione di dare del “fariseo” ai miei colleghi ma solo di invitarci a riflettere sull’uso che stiamo facendo della categoria “peccato”. Per essere chiara: la domanda che mi pongo è se io sono autorizzato/a a definire il peccato in modo che il suo “esempio paradigmatico” o la sua “illustrazione più chiara” mi escluda a priori in quanto non sono e non sarò mai donna o omosessuale. Mi chiedo semplicemente se questo sia veramente il modo giusto per proclamare a tutti e tutte l’amore di quel Dio presso il quale “non c’è distinzione” (Rm 3,22) e che si è rivelato in Cristo Gesù.


Elizabeth Green



Lunedì, 10 settembre 2007