Notiziario - Approfondimenti
Annapolis dal punto di vista palestinese, siriano, e libanese

a cura di Massimiliano Caruso

Innanzitutto è necessario identificare le motivazioni reali che hanno costretto il presidente americano George Bush a dare nuovo impulso al processo di pace dopo tutto questo tempo.
Gli analisti concordano sul fatto che il fallimento dei suoi progetti in Iraq abbia spinto Bush a riaprire il discorso di pace a cui suo padre aveva dato inizio a Madrid nel 1991.
In precedenza, i falchi dell’amministrazione americana lo avevano spinto a scatenare la guerra in Iraq nella convinzione che un nuovo assetto regionale avrebbe automaticamente messo a tacere la questione palestinese, che aveva impegnato il mondo con le sue guerre continue per quasi mezzo secolo. Una volta usciti di scena i falchi più intransigenti, Bush avrebbe adottato la teoria dei presidenti americani del passato, secondo cui risolvere il conflitto israelo-palestinese è la chiave per ottenere la pace in Medio Oriente.
Al di là del fallimento americano in Iraq, anche Israele ha perso la sua guerra contro Hezbollah, e ciò ha ingrossato le file dei fautori della necessità di rinnovare i progetti di pace e di porre fine all’occupazione della Palestina e del Golan. E’ questo che avrebbe portato ad Annapolis.
Il leader dell’opposizione israeliana, Benjamin Netanyahu, fu il primo ad attaccare l’idea di una ripresa dei negoziati. Davanti alla Knesset, egli sostenne che Olmert avrebbe concesso metà di Gerusalemme a Hamas, ed avrebbe fatto concessioni vitali che avrebbero esposto il paese a pericoli enormi.
Olmert aveva difeso le sue posizioni politiche affermando che ignorare le proposte di Mahmoud Abbas e di Salam Fayyad avrebbe aperto la strada alla presa del potere da parte di Hamas e della Jihad Islamica in Cisgiordania. Egli disse che continuare a portare avanti la situazione attuale – come suggeriva Netanyahu – avrebbe significato un nuovo bagno di sangue per i prossimi 50 anni. Olmert riconobbe che sarebbe stato compiacente nella misura del possibile, ma ribadì che non si sarebbe mai ritirato dalla Cisgiordania senza aver prima debellato le “organizzazioni terroristiche”.
Il quotidiano israeliano “Maariv” aveva criticato con forza questa posizione affermando che sarebbe stato meglio per le due controparti – israeliana e palestinese – non partecipare affatto al vertice di Annapolis, se ormai era chiaro che esso avrebbe evitato di trattare le questioni fondamentali, come il futuro di Gerusalemme, i diritti dei profughi, e la definizione dei confini dei due stati. Il giornale era giunto a questa conclusione sulla base della convinzione che un vertice destinato ad inaugurare un negoziato infruttuoso della durata di un anno intero avrebbe aperto le porte al ritorno degli estremisti nelle città della Cisgiordania, ed avrebbe esposto Olmert e Abu Mazen alle rappresaglie dei terroristi suicidi. Inoltre, cancellare le questioni fondamentali da una eventuale dichiarazione di principi avrebbe messo in difficoltà Abbas e Fayyad, ed avrebbe rafforzato Hamas in conseguenza del fallimento e del sentimento di frustrazione.
Le divergenze di opinioni fra le due delegazioni hanno rischiato di far saltare la conferenza fin dalle sue fasi preliminari. E’ risaputo che il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ambisca a succedere a Olmert. Neanche lei nasconde queste sue aspirazioni. Un successo della conferenza sarebbe stato certamente un buon investimento per Olmert alle prossime elezioni. La Livni, di conseguenza, non ha perso occasione per suscitare contrasti e divergenze. Già nelle fasi preparatorie della conferenza aveva chiesto ad Abbas risposte precise a proposito della gestione della sicurezza all’interno del futuro stato palestinese indipendente, oltre alla promessa di risolvere il problema dei profughi garantendo che non avrebbero fatto ritorno in Israele. Gli osservatori ritengono che questo punto farà fallire i negoziati, se la Livni insisterà nell’utilizzare l’espressione “stato degli ebrei” al posto di “Israele”.
Abbas e Olmert si erano accordati sull’utilizzo di una definizione più vaga. Invece di definire Israele come “stato degli ebrei”, i due avevano formulato una definizione “alleggerita” che parlava di “soluzione dei due stati, per i due popoli ebraico e palestinese”. Per ottenere questo risultato, la delegazione palestinese ha rinunciato a definire Gerusalemme Est come capitale dello stato palestinese in cambio della rinuncia della delegazione israeliana a definire Israele come “stato degli ebrei”. Purtroppo, questa formulazione viene considerata da tutti come una trappola per i palestinesi, poiché ciò significa che in un secondo momento Israele potrà diventare uno stato per soli ebrei, e ciò permetterà agli israeliani di cacciare i palestinesi che vivono all’interno di Israele (circa 1,5 milioni di persone), ed allo stesso tempo permetterà all’ANP di accogliere i profughi del 1948 (circa 3 milioni) all’interno del nuovo stato palestinese. Ciò equivale ad una cancellazione del diritto al ritorno dei profughi, sotto il velo di parole enfatiche e altisonanti.
Naturalmente, all’inizio i palestinesi si erano opposti alla formulazione israeliana, che ritiene che il diritto all’autodeterminazione appartenga “ad ogni popolo all’interno del proprio paese”: dunque, se Israele è la patria del popolo ebraico, la Palestina è la patria del popolo palestinese. Tuttavia, questa formulazione potrebbe andare in pezzi se Abu Ala, capo della delegazione palestinese, dovesse continuare ad insistere sull’applicazione della risoluzione 194 che prevede il diritto al ritorno dei profughi.
[…] Il presidente Bush, dal canto suo, ha dichiarato di non possedere la forza per imporre alcunché ad Israele, ma che tuttavia sarebbe intervenuto laddove fosse stato necessario per mandare avanti il processo di pace. La delegazione palestinese ha proposto la costituzione di una commissione tripartita che avrebbe il compito di monitorare l’applicazione della Road Map, all’interno della quale gli Stati Uniti dovrebbero fare da arbitro nelle controversie.
Dopo la sua ultima visita a Damasco, il viceministro degli esteri russo Alexander Saltanov ha affermato che il suo paese è pronto ad ospitare un incontro per giungere ad un compromesso tra Siria ed Israele. Ancor prima di conoscere i risultati della conferenza di Annapolis, egli ha annunciato che i negoziati israelo-palestinesi “non ci impediscono di andare avanti in direzione di un compromesso pacifico e complessivo per la regione, compiendo i passi necessari per una risoluzione del processo di pace fra Siria ed Israele”.
Da queste parole si è compreso che Mosca potrebbe ospitare i negoziati fra Siria ed Israele all’inizio del prossimo anno. Washington sosterrebbe questo passo poiché permetterebbe di portare avanti due processi di pace allo stesso tempo. Certamente la Turchia ha giocato un ruolo fondamentale a questo proposito, mediando fra Washington, Damasco, e Tel Aviv.
La maggioranza dei libanesi ritiene che il coinvolgimento della Siria nel processo di pace stia avvenendo per ragioni che non hanno niente a che fare con il recupero delle alture del Golan. Per la sua partecipazione al processo di pace, la Siria verrebbe ricompensata con la possibilità di ristabilire il proprio controllo sul Libano, così come venne già ricompensata in passato per aver partecipato alla guerra contro Saddam Hussein (la prima guerra del Golfo, nel 1990-91 (N.d.T.) ). Coloro che sostengono questa tesi affermano che l’allontanamento di Damasco dall’Iran rappresenterebbe una svolta politica di enorme portata, che è tuttavia molto difficile realizzare, a meno che Damasco non venga messa davanti alla prospettiva di avere una ricompensa in Libano più grande di quella che la Siria può ricavare dalla sua alleanza con l’Iran.
Condoleezza Rice ha negato che esista un’intenzione di questo genere da parte dell’amministrazione americana, ed ha affermato che il Libano non sarà svenduto né ora né in futuro. Tuttavia la Rice ha precisato leggermente questa posizione, davanti ad un politico libanese che si era recato in visita da lei poco tempo fa, affermando di parlare in nome del suo paese, ma di non poter garantire per i comportamenti di alcuni leader libanesi che avevano fatto fortuna nel corso dell’era siriana!


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Venerdì, 07 dicembre 2007