Notiziario - Approfondimenti
Se tutto discende dall’Iraq

a cura di Massimiliano Caruso

Esiste una legge scientifica che afferma che il fattore che spiega tutto in realtà non spiega nulla. Esaminando gli articoli e gli studi che sono apparsi in occasione del 5° anniversario dell’invasione dell’Iraq, ho notato che per centinaia di commentatori l’Iraq rappresentava il fattore che spiega ogni cosa. Da ciò che ho letto, ho avuto l’impressione che ogni questione internazionale, ogni sviluppo politico ed economico, ogni episodio di terrorismo ed ogni operazione antiterrorismo potessero essere ricondotti alla guerra in Iraq. Chi mai avrebbe pensato che cose così differenti potessero convergere verso una singola origine?
Ho letto che nei cinque anni dall’inizio della guerra la Russia era risorta, e che il Cremlino non sarebbe mai stato in grado di compiere simili progressi, e di recuperare la sua influenza internazionale così rapidamente, se gli Stati Uniti non si fossero impantanati nella guerra in Iraq. Questa guerra, secondo l’articolo, aveva contribuito all’ascesa dei prezzi del gas e del petrolio, ed aveva imposto una sorta di calma in Cecenia, con l’assenso americano e con l’aiuto dei governi arabi che avevano compreso che la presenza americana in Iraq aveva determinato un’impennata nella tendenza jihadista, che aveva superato tutti i limiti ipotizzati in passato.
In cinque anni, la popolarità degli Stati Uniti è precipitata, non solo in Medio Oriente – la regione che Washington aveva scelto come piattaforma da cui affermare la propria egemonia sul mondo – ma anche in molte altre parti del globo. Nondimeno, gli osservatori non sono concordi nell’attribuire le responsabilità di tutto questo. Alcuni danno la responsabilità a Bush personalmente o alla sua amministrazione, oppure la circoscrivono al team della sicurezza nazionale guidato dal vicepresidente americano e composto da una cricca di fanatici razzisti e religiosi. Altri fanno ricadere la colpa più in generale sulla sostanza e sugli atteggiamenti della politica americana.
Certamente è preferibile che la storia ricordi che un presidente, personalmente o attraverso la sua amministrazione, sia stato responsabile dell’erosione della popolarità del suo paese. Almeno rimarrebbe la speranza che un giorno questa tendenza possa essere invertita, quando questo presidente lascerà la Casa Bianca. Se invece la colpa va attribuita in generale alla politica estera americana, così come viene modellata dal predominio di alcune forze economiche e sociali o da alcuni interessi specifici, ciò fa temere il peggio. Prendiamo, ad esempio, la nostra parte del mondo, in cui comunemente si crede che la politica estera americana stia dietro all’anti-americanismo che alla fine ha prevalso nella regione. Nulla ha addolorato e fatto infuriare maggiormente i popoli arabi dell’appoggio dell’America ad ogni aggressione contro il mondo arabo, e della sua ingerenza nei nostri affari interni.
Tuttavia, molti paesi e molti popoli non sempre hanno giudicato la politica americana in maniera così severa. In effetti, alcuni continuano a considerarla così come noi eravamo abituati a fare più di mezzo secolo fa, con il romanticismo tipico degli anni ’40. Allora vedevamo una superpotenza che non aveva praticato il colonialismo, come avevano invece fatto le potenze europee. Poi comprendemmo che essa praticava una nuova forma, perfezionata e più feroce, di colonialismo. Durante la Guerra Fredda, i popoli dell’Europa dell’Est, ad esempio, guardavano agli Stati Uniti con il cuore pieno di speranza. Successivamente, essi si svegliarono sotto una nuova forma di dominazione, e si trovarono subordinati ad una nuova alleanza, ed obbligati ad una nuova ideologia economica. In altre parole, per loro l’America capitalista si dimostrò non così differente dalla Russia comunista: entrambe obbligarono l’Europa dell’Est a rispettare patti, alleanze, obblighi militari, e diktat economici.
Una volta ascoltammo dall’Occidente, in effetti proprio dalla bocca di Bush, che la guerra in Iraq accendeva il faro della democrazia in Medio Oriente, e che se questa guerra aveva una causa primaria, essa non era certamente rappresentata dalle armi di distruzione di massa, ma dalla diffusione della democrazia. Cinque anni dopo, gli stessi americani dicono che gli sviluppi in Iraq hanno obbligato Bush a sospendere la sua missione di evangelizzazione in Medio Oriente. Nondimeno, vi fu chi trovò che era nel proprio interesse scimmiottare i punti di vista provenienti da Washington sulla democrazia in Medio Oriente. Ma la verità – mai ufficialmente riconosciuta da Washington – è che il movimento in direzione delle riforme politiche nel mondo arabo ebbe inizio molto prima della guerra in Iraq, e Bush certamente non vi ebbe alcun ruolo. I sostenitori delle riforme si riunirono, nel mondo arabo o all’estero, e fecero enormi sacrifici per far sì che la loro voce fosse udita dal popolo. Le riforme che gli Stati Uniti invocavano, e che apparentemente cercarono di imporre ai governi arabi, non diedero inizio alla spinta per le riforme. Al contrario, la campagna iniziata da Washington soffocò l’autentico processo riformatore, poiché le forze antiriformiste potevano ora sfruttare l’ostilità nei confronti della guerra in Iraq per indebolire i veri sostenitori delle riforme. Il risultato è che la causa della democrazia è in una condizione ancora più miserabile oggi rispetto a qualsiasi momento del passato, da quando i paesi della regione ottennero l’indipendenza. I cinque anni di guerra in Iraq hanno inaugurato l’idea di diffondere la democrazia tramite l’occupazione straniera, nel pantano della carneficina confessionale, e dopo l’abolizione dei partiti politici e l’epurazione delle elite politiche. I passati cinque anni sono stati un ininterrotto disastro per tutti gli intellettuali democratici e progressisti nel mondo arabo.
I passati cinque anni hanno portato una folla di incubi che hanno brutalmente strappato gli arabi al loro sogno di un tempo. Era il sogno del sistema di valori americano: il rispetto dei principi della costituzione, la sacralità della privacy individuale, lo stato di diritto. In cinque anni il sistema di valori americano è crollato con un fragore assordante. I colpi di mano politici ed amministrativi del governatore Bremer, il saccheggio della ricchezza materiale e storica dell’Iraq, ed i primi segnali dello scontro confessionale furono seguiti dalle scene delle torture di Abu Ghraib, dai finti processi che le seguirono, da Guantanamo (la corona di spine del nuovo sistema di valori americano), e dal rapimento e dalla deportazione delle persone sospette nei paesi alleati dell’America ed in altri paesi del terzo mondo, affinché fossero torturate laggiù. Successivamente la stampa araba, ed altri giornali in tutto il mondo, riferirono di come alcune multinazionali americane avevano illecitamente ottenuto contratti del valore di milioni di dollari in Iraq, e venimmo a conoscenza del diffondersi della corruzione fra i soldati ed i funzionari americani, e dei crimini commessi dai contractor e dai mercenari.
Nei passati cinque anni, i lettori arabi scoprirono che la libertà di stampa e di espressione negli Stati Uniti non era quella che essi avevano imparato dai loro insegnanti quando erano studenti. Il fatto che Bush abbia personalmente minacciato di bombardare la sede centrale di al-Jazeera è il segnale più evidente del disprezzo dell’amministrazione americana per queste libertà. Ma si possono fare infiniti altri esempi, come la trovata geniale di obbligare i giornalisti a stare al seguito dei militari, ragion per cui non un solo reportage obiettivo sull’andamento della guerra, sul numero dei morti e sulle violazioni dei diritti umani giunse dall’Iraq fin dal giorno in cui le forze americane perpetrarono il massacro di Falluja (che aprì le porte dell’Iraq all’afflusso di attentatori suicidi provenienti da tutti i paesi arabi, ed all’esodo di 4 milioni di profughi iracheni, tutti testimoni oculari della via americana di diffondere la democrazia con la forza).
Molte cose sono accadute nei cinque anni trascorsi da quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq. Non penso soltanto al milione di persone – o giù di lì – che sono state uccise, alla distruzione della nazione irachena e della sua ricchezza, o ai 4.000 soldati americani morti in base alle cifre ufficiali, a cui bisogna aggiungere il numero sconosciuto di coloro i cui nomi non sono stati messi nel conto poiché erano “soldati privati”. Né sto pensando all’inimmaginabile quantità di denaro che gli Stati Uniti stanno spendendo in questa guerra, una cifra talmente grande che l’unico modo per le nostre menti di tentare di afferrarla è di ridurla a quantità più maneggiabili – ad esempio, qualcosa come 5.000 dollari al secondo!
Ho cercato di immaginare in che modo l’amministrazione Bush avrebbe potuto aiutare gli Stati Uniti scatenando questa guerra. Non ci sono riuscito. Ho pensato che certamente essa deve aver dato impulso al complesso dell’industria militare. Ho pensato che forse la guerra poteva promuovere l’immagine dell’America come unica superpotenza mondiale. Ho pensato ad altri possibili risultati che gli Stati Uniti avrebbero potuto ottenere con questa guerra, ma non ho trovato prove tali da poterne confermare l’utilità, soprattutto alla luce della sempre minore probabilità che gli Stati Uniti riescano a venir fuori dalla loro attuale crisi economica, che alcuni fra i più importanti economisti in Occidente attribuiscono alla guerra in Iraq.
Nondimeno, possiamo ancora attirare l’attenzione su un fatto importante, qualcosa di cui non molti parlano, poiché non è una notizia di fabbricazione puramente americana. La storia del conflitto arabo-israeliano testimonia gli enormi sforzi americani volti a limitarne la portata ed a ridurne il numero dei partecipanti. In questo ambito gli Stati Uniti hanno registrato alcuni importanti successi. Poi vennero gli anni della guerra contro l’Iraq, nel corso della quale il conflitto arabo-israeliano divenne per la prima volta un conflitto islamico-israeliano, una trasformazione che è potenzialmente ricca di nuovi ruoli da giocare in questo nuovo/vecchio conflitto, per i paesi del Golfo e del Nordafrica, e più oltre, per i paesi musulmani a sud del Sahara, e per il Pakistan.
Nell’interesse di chi è questo ampliamento della portata del conflitto con Israele? E’ un risultato limitato e distinto, o è un’altra catastrofe che va ad aggiungersi alla catastrofe della guerra contro l’Iraq? E’ il segno di un cambiamento nella strategia americana nei confronti di questo conflitto, o è questo conflitto che è divenuto parte di una più ampia strategia americana che ha i propri occhi puntati molto lontano, fino alla Cina a est ed alla Siberia a nord? A questi e ad altri interrogativi daranno una risposta i prossimi sviluppi della guerra in Iraq e gli altri eventi dei prossimi anni.
http://weekly.ahram.org.eg/2008/891/fo3.htm


Giovedì, 17 aprile 2008