Notiziario - Approfondimenti
La battaglia per il Libano

a cura di Massimiliano Caruso

Non sembra che la perdurante crisi del Libano sarà risolta a breve termine. La ragione principale sta nel fatto che l’elezione del presidente libanese non è una questione esclusivamente libanese. Numerose potenze estere vogliono dire la loro. Giungere ad un accordo fra esse non è un compito facile, e richiederà probabilmente ancora del tempo.
Amr Moussa, il segretario generale della Lega Araba, ha dato fondo a tutte le sue energie nel tentativo di mediare tra le fazioni libanesi rivali ed i loro sostenitori esterni – finora senza successo. Queste potenze esterne includono paesi rivali come l’Arabia Saudita e l’Iran, ma anche l’Egitto, la Francia, gli Stati Uniti, e perfino Israele (che opera attraverso gli Stati Uniti).
In ogni caso, nel contesto libanese il più importante di questi attori esterni è la Siria, poiché la Siria guarda agli sviluppi in Libano come ad una questione di vita o di morte. A torto o a ragione, la Siria sente la necessità di esercitare il proprio potere di veto nella scelta del presidente libanese.
Si dice a Damasco che il presidente Bashar al-Assad avrebbe chiesto ad Amr Moussa di recarsi a Riyadh al fine di trasmettere un messaggio di riconciliazione al re Abdallah dell’Arabia Saudita. Secondo alcune fonti, il presidente al-Assad avrebbe anche affermato che non farà un passo senza essersi assicurato in precedenza l’appoggio saudita.
Se queste voci fossero confermate, potrebbero essere indice di una distensione nei rapporti interarabi – e dunque della speranza di una soluzione in Libano. Al-Assad, partecipando al vertice arabo di Riyadh nel marzo del 2007, aveva discusso a lungo con il re Abdallah. Il Libano era stato l’argomento principale allora, così come lo è adesso. Una distensione fra Damasco e Riyadh è assolutamente necessaria, poiché l’attuale freddezza, che rasenta l’ostilità, è uno dei principali impedimenti al raggiungimento di un compromesso libanese.
Alcuni osservatori sostengono che il vertice arabo del prossimo marzo potrebbe costituire un’opportunità per sbloccare la situazione, permettendo che un presidente libanese venga eletto. Altri presumono, più pessimisticamente, che la decisione potrebbe essere rimandata fino alla fase successiva alle elezioni legislative in Libano, che potrebbero cambiare gli attuali equilibri di potere fra maggioranza ed opposizione.
Un punto chiave sembra essere il fatto che la Siria ha perso fiducia nel generale Michel Suleiman, il comandante dell’esercito libanese che si sperava potesse essere un presidente accettabile per tutte le parti in causa.
Il generale Suleiman aveva stretto ottimi rapporti con la Siria negli anni ’90, quando l’esercito libanese venne ricostruito con l’aiuto siriano, dopo la guerra civile. Lo scorso anno, mentre il Libano stava combattendo una violenta fazione islamica (quella di Fateh al-Islam (N.d.T.) ) asserragliata nel campo palestinese di Nahr al-Bared, la Siria fornì all’esercito libanese le munizioni di cui aveva tanto bisogno.
In una parola, la candidatura del generale Suleiman alla presidenza del Libano venne vista come una concessione alla Siria. Ma si trattava dell’anno scorso. La Siria sembra non aver più fiducia in lui, ritenendo che egli sia passato al fronte americano/saudita. Altre voci a Damasco sostengono che il generale avrebbe compiuto di recente una visita segreta in Arabia Saudita, in occasione della quale avrebbe dato assicurazioni riguardo al suo allineamento futuro.
In ogni caso, il generale non è affatto una marionetta, essendo uscito rafforzato dagli aspri combattimenti di Nahr al-Bared. Se eletto, egli sarà probabilmente un presidente indipendente. Questo è un rischio che la Siria non sembra disposta ad assumersi.
Ma, cosa vuole la Siria in Libano? E’ questo l’interrogativo che ci si pone in ogni capitale estera. Forse è meglio cominciare cercando di individuare ciò che essa non vuole. La Siria non vuole inviare nuovamente il proprio esercito in Libano, dove esso rimase per 29 anni, dal 1976 al 2005. Ma essa non può nemmeno tollerare un governo ostile e provocatorio a Beirut, che avvelenerebbe la vita a Damasco quotidianamente.
La Siria vuole la garanzia che qualunque classe di governo emerga in Libano, qualunque presidente venga eletto, e qualunque governo venga costituito, siano riconosciuti e rispettati gli interessi vitali della Siria – siano essi politici, economici, o strategici. Questo è il livello minimo di richieste che la Siria vuole ottenere per acconsentire ad una soluzione libanese.
La Siria sembra avere tre preoccupazioni immediate. La prima riguarda il tribunale internazionale che dovrebbe processare gli assassini di Rafiq al-Hariri, l’ex primo ministro libanese ucciso il 14 febbraio del 2005. I killer non sono ancora stati identificati, e forse non lo saranno mai, data la complessità del caso.
La Siria, in effetti, è meno preoccupata del possibile verdetto del tribunale che dell’eventualità di un suo prolungarsi nei prossimi mesi ed anni. Il tribunale avrà il diritto di convocare decine, e forse centinaia di testimoni. Il processo sarà inevitabilmente politicizzato, e probabilmente verrà utilizzato dai nemici della Siria per attaccarla e destabilizzarla.
La Siria sospetta che il tribunale possa tradursi in una sorta di “spada di Damocle” che paralizzerebbe tutti i suoi movimenti.
Un’altra preoccupazione siriana è che un regime ostile in Libano possa, con l’appoggio internazionale, cercare di disarmare Hezbollah, il partito sciita alleato sia dell’Iran che della Siria, che costrinse Israele al fallimento nella guerra dell’estate del 2006. Agli occhi della Siria, l’asse Teheran-Damasco-Hezbollah è l’unica forza in grado di tenere sotto controllo le pressioni e le aggressioni di Israele e degli Stati Uniti.
La terza principale preoccupazione della Siria riguarda l’eventualità di uno mutamento ancora più radicale degli equilibri regionali. Il suo timore è che se la coalizione antisiriana del 14 marzo consoliderà la sua posizione in Libano, potrebbe essere tentata, o “spinta”, a concludere una pace separata con Israele, sul modello dell’accordo del 17 maggio 1983 sponsorizzato dagli americani, che fu concluso dopo l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982.
La pace separata minacciò di trascinare il Libano nell’orbita di Israele – un pericolo mortale, dal punto di vista della Siria, che fu evitato soltanto quando lo scomparso presidente Hafez al-Assad riuscì a distruggere l’accordo del 17 maggio.
La perdurante ossessione della Siria è che l’influenza israeliana possa far breccia in Libano, in un modo o nell’altro, se l’influenza di Damasco in Libano dovesse essere eliminata o ridotta. Con la capitale siriana ad appena un tiro di schioppo dal confine libanese, ciò rappresenterebbe una minaccia mortale.
Damasco chiede pertanto che la Siria ed il vicino Libano siano uniti insieme, non certo in senso politico, ma in qualità di un unico spazio geostrategico, in grado di far fronte a nemici esterni.
Questo è uno degli elementi fondamentali della politica estera siriana. Ma ciò comporta un alto prezzo da pagare. Questo approccio ha infatti impedito una distensione con la Francia e con il suo irrequieto presidente Nicolas Sarkozy, che negli ultimi mesi ha dedicato enormi sforzi al raggiungimento di un compromesso in Libano. Il suo ministro degli esteri Bernard Kouchner si è recato a Beirut non meno di 6 volte. Ma se Parigi si considera il garante dell’indipendenza libanese, la Siria interpreta gli sforzi francesi come una minaccia ai suoi stessi interessi vitali.
Ma anche sul fronte interno, l’ossessione siriana per la sicurezza comporta un prezzo molto alto da pagare. Tutta l’opposizione viene soffocata, inclusa la cosiddetta “opposizione patriottica” composta di intellettuali, attivisti dei diritti civili, esponenti della sinistra, e islamici moderati. Questa repressione infligge un duro colpo all’immagine ed alla reputazione della Siria in Occidente. Scarcerare questi patrioti ben intenzionati e coinvolgerli nel dialogo dovrebbe essere una priorità per la Siria.
La preoccupazione siriana per la sopravvivenza del regime è comprensibile: gli Stati Uniti hanno mandato in pezzi l’Iraq, minacciano l’Iran, chiudono gli occhi di fronte al massacro israeliano di palestinesi, apparentemente diedero il loro benestare all’attacco aereo israeliano dello scorso settembre contro una misteriosa installazione militare nel nord-est della Siria. Inoltre, Washington continua ad imporre sanzioni unilaterali alla Siria, e rifiuta di inserire le alture del Golan, occupate da Israele nel 1967, nell’agenda dei negoziati.
Soltanto una riduzione delle tensioni regionali ed un reale progresso nel processo di pace arabo-israeliano permetterebbero lo sbocciare di una nuova “primavera di Damasco”.


http://www.agenceglobal.com/Article.asp?Id=1462

Martedì, 29 gennaio 2008