Notiziario - Approfondimenti
L’interpretazione americana ristretta del fenomeno terroristico

a cura di Massimiliano Caruso

Recentemente il Pentagono ha formulato le accuse nei confronti di 6 prigionieri di Guantanamo sospettati di essere direttamente coinvolti negli attacchi dell’11 settembre. Ciò significa che ad attenderli c’è la pena di morte.
Fin qui non vi è nulla di nuovo, malgrado le aspre critiche rivolte contro i tribunali militari di Guantanamo che hanno formulato le accuse. Essi rappresentano i primi tribunali americani per crimini di guerra dai tempi della seconda guerra mondiale, ed operano in base ad una legge approvata dal Congresso nel 2006, dopo che la Suprema Corte americana li aveva abrogati nella loro forma iniziale.
A destare stupore è invece ciò che è emerso dalle motivazioni dell’accusa, dalle dichiarazioni di alcuni responsabili americani a margine di questo evento, e dalla copertura che di esso hanno dato i mezzi di informazione. Tutte queste reazioni hanno messo in evidenza che la visione americana del fenomeno terroristico internazionale – imprescindibilmente legato, secondo Washington, al “revival islamico” – non è cambiata, malgrado i difetti e le lacune che questa visione unilaterale ha dimostrato nella realtà dei fatti.
Dopo la svolta rappresentata dall’11 settembre, tre diverse versioni dell’interpretazione – occidentale in generale, ed americana in particolare – dell’ascesa del “fenomeno islamico” in Medio Oriente hanno reciprocamente lottato per affermarsi. Queste tre versioni, ciascuna caratterizzata da numerose lacune, riguardavano essenzialmente l’aspetto internazionale del fenomeno islamico, e delle sue manifestazioni distribuite più o meno su tutti e cinque i continenti sotto forma di una sfida alla più grande potenza economica e militare del mondo: gli Stati Uniti. Tale sfida era lanciata a più livelli, che si estendevano dal piano dei valori a quello delle politiche, e dal comportamento quotidiano alle strategie di lungo periodo.
La prima di queste tre versioni interpretative guardava al fenomeno terroristico di matrice islamica come ad una reazione alle esplicite politiche di Washington a sostegno di Israele – politiche che allo stesso tempo continuavano ad erodere i diritti degli arabi, se non addirittura ad umiliarli. Noam Chomsky era alla testa di coloro che avevano abbracciato questa visione.
La seconda versione parlava del “revival islamico” come del nocciolo di uno “scontro di civiltà” fra musulmani e Occidente. Samuel Huntington guidava coloro che seguivano questo orientamento, le cui “quotazioni” crebbero enormemente dopo gli attacchi terroristici di New York e Washington. Tale orientamento si fondava largamente sulla teoria dei due avversari irriducibili, gli Stati Uniti ed al-Qaeda, i quali dopo l’11 settembre sembravano corrispondersi perfettamente, nel momento in cui Bush parlava di “crociata” e Osama bin Laden ripeteva il suo discorso abituale sulla “guerra ai crociati”.
La terza versione considerava il “revival islamico” come una reazione culturale e psicologica – collegata ad ambienti politici, sociali, ed economici molto ampi – alla “modernità”, di cui l’Occidente era portatore e con cui aveva scosso gli ultimi residui del passato, in Medio Oriente e non solo. Paul Berman difese questa interpretazione delle presunte ragioni alla base del livello di tensione raggiunto fra l’ala violenta del “risveglio islamico” da un lato, e l’Occidente – ed in particolare gli Stati Uniti – dall’altro.
Queste interpretazioni erano state costruite essenzialmente sulla base dell’analisi dei discorsi dei leader di al-Qaeda prima e dopo l’11 settembre, e, pur dando spazio ad ipotesi stravaganti, facevano ogni sforzo per cercare di spiegare le cause dell’ascesa del fenomeno islamico, nei suoi due aspetti moderato e estremistico. Tali interpretazioni, tuttavia, non sono riuscite ad offrire delle risposte complessive e soddisfacenti a questo proposito.
In realtà, lo “shock della modernità”, lo “scontro di civiltà”, e la “vendetta contro gli Stati Uniti” non sono sufficienti a spiegare le reali motivazioni che hanno spinto Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri, ed i loro seguaci ad incamminarsi sulla strada dello scontro con gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda bin Laden, in particolare, questa terna di condizioni esisteva già quando egli era apparentemente un alleato degli Stati Uniti ai tempi del “jihad” contro l’Unione Sovietica in Afghanistan. Al-Zawahiri, dal canto suo, rimase impegnato per decenni a combattere il “nemico vicino”, ovvero il regime al potere in Egitto, e la sua posizione riguardo agli Stati Uniti non andava al di là di un forte risentimento psicologico derivante dall’aperto sostegno dato da Washington ad Israele da un lato, ed al regime egiziano dall’altro.
Senza dubbio, le politiche americane nettamente favorevoli ad Israele, ed ingiuste nei confronti degli arabi, hanno alimentato sentimenti di rancore in molti gruppi islamici di orientamento radicale o conservatore, ed hanno contribuito, insieme all’oppressione ed alla tirannia dei regimi arabi al potere, a spingere alcune fazioni del movimento islamico verso l’adozione della violenza, e poi verso la sua esportazione “all’estero” anche per quanto riguarda la definizione degli obiettivi, o – per essere più precisi – l’individuazione del “nemico”.
Ma vi è anche chi ha parlato di alcune caratteristiche strutturali che avrebbero spinto il settore più ampio del movimento islamico – soprattutto quello che assunse una dimensione internazionale – a proporsi come “alternativa strategica” ai poteri dominanti, sia a livello di ciascun paese arabo-islamico, sia a livello internazionale in qualità di forza mondiale alternativa e contrapposta.
L’Islam è infatti una “religione mondiale”, ed il suo testo fondante – il Corano – stabilisce dei concetti di natura “sovranazionale”, che vanno al di là dei confini rappresentati dal colore della pelle, dal sesso, dalla lingua, dal tempo e dallo spazio, facendo sì che l’unico criterio di distinzione fra gli uomini sia la “devozione a Dio”. L’Islam esorta alla “predicazione” – ovvero all’annuncio ed alla diffusione della religione islamica – ed al “jihad”, ovvero a resistere a qualsiasi aggressione rivolta contro i musulmani ovunque si trovino ed a proteggere le frontiere degli stati islamici.
Tale caratteristica strutturale ha determinato, nelle circostanze attualmente esistenti a livello mondiale, le condizioni che hanno spinto al-Qaeda a combattere il “nemico lontano”, ovvero gli Stati Uniti. Tale caratteristica, tuttavia, non produce di per sé – come invece ritengono alcuni ricercatori ed alcuni politici in Occidente – una violenza spontanea o organizzata.
Questa stessa caratteristica è infatti radicata nelle menti e nei cuori di tutti i musulmani, ma la stragrande maggioranza di essi non ha seguito la strada di al-Qaeda e dei gruppi estremisti che hanno fatto dell’Islam il loro slogan politico. Dunque, le tesi dello “scontro di civiltà”, che equivalgono ad identificare l’intero mondo islamico, senza alcun fondamento o giustificazione, come il “nemico”, non offriranno una soluzione efficace al problema del terrorismo, e non garantiranno la sicurezza degli Stati Uniti, né permetteranno a Washington di convincere il mondo che gli Stati Uniti sono il “timoniere della globalizzazione”.
La soluzione efficace consiste invece in un insieme di provvedimenti integrati, il primo dei quali deve essere la rinuncia degli Stati Uniti ad appoggiare l’aggressione israeliana al popolo palestinese, ed un impegno serio a dare soluzione all’annosa questione che riguarda questo popolo. Il secondo passo deve consistere nella rinuncia di Washington a sostenere regimi di governo non democratici nel mondo arabo, permettendo così un cambiamento politico ed un rinnovamento sociale dall’interno, che ponga fine all’impasse causata da questi regimi. Tale impasse ha suscitato, fra l’altro, un odio crescente nei confronti degli Stati Uniti, i quali sono stati considerati, nella letteratura delle avanguardie del movimento islamico, come i sostenitori e gli alleati di quei governi che reprimevano e schiacciavano tale movimento – una visione, questa, che è tuttora predominante.
Da ciò segue la necessità di aprire la strada ad un coinvolgimento e ad un’inclusione del movimento islamico, e non al suo allontanamento ed alla sua condanna, come invece accade ora. E’ questa la condizione per far sì che esso rinunci del tutto alla violenza, sia sul fronte interno che all’estero, e che riconosca e accetti le regole di un governo di carattere civile, fondato sull’alternanza al potere e sul rispetto della libertà di espressione.
Il terzo passo da compiere è quello di “approfondire la conoscenza della religione islamica”, invece di emarginarla o di combatterla – scelta, quest’ultima, che significherebbe andare incontro ad una furiosa resistenza. L’approfondimento di questa conoscenza deve essere affidato a religiosi e giurisperiti musulmani moderati che godano del sostegno della gente, e che siano all’altezza delle sfide del nostro tempo, e non da figure imposte dall’estero con la richiesta implicita di modificare i metodi dell’insegnamento religioso.
http://www.albayan.ae/servlet/Satellite?c=Article&cid=1201708885712&pagename=Albayan%2FArticle%2FFullDetail


Giovedì, 17 aprile 2008